L’Uomo Di Zenda
Domani, Mesdames et Messieurs, sarebbe il centocinquantesimo compleanno di Anthony Hope.
Centocinquantesimo, sì. Avete letto bene – ma non allarmatevi. E non allarmatevi nemmeno nello scoprire che a luglio cadrà l’ottantesimo anniversario della morte di Hope… Questo è in effetti un anno hopiano quanto è possibile esserlo, ma davvero, non è necessario che vi allarmiate: un pochino di Hope forse ve lo infliggerò, qua e là, ma nulla di paragonabile alle dosi di Dickens che vi siete sorbiti l’anno passato…
Anche perché, a parte tutto il resto, Hope non è Dickens.
Non perché non ci abbia provato, sia chiaro: gentiluomo di famiglia ecclesiastico-accademico-intellettuale, educato a Oxford e avvocato, Hope in vita sua scrisse… boh, una trentina di romanzi, un buon numero di racconti e, da solo o in compagnia, un diluvio di drammi – qualcuno originale, qualcuno adattato dai suoi lavori. E fu anche estremamente celebre su entrambi i lati della Tinozza, ai suoi tempi, e baronetto, e presidente della Society of Authors…
E adesso noi lo ricordiamo soltanto per due titoli – anzi no, mi correggo: per un titolo. E mi correggo ancora: ad ovest della Manica la faccenda è diversa, ma qui lo ricordiamo (quando lo ricordiamo affatto) per il film tratto da uno dei suoi libri: Il Prigioniero di Zenda.
Per alzata di mano: chi ha visto IPdZ, versione 1952, con Stewart Granger, Deborah Kerr e (sigh) James Mason? Andiamo: technicolor abbacinante, uniformi piene di alamari, incoronazioni, duelli, intrighi, salvataggi dell’undicesima ora, algide principesse dai capelli rossi e avventuriere brune… Non è la versione cinematografica migliore, ma di sicuro è la più celebre… davvero non l’avete visto? No? Oh.
Be’, se l’aveste visto, avreste potuto divertirvi alla pittoresca improbabilità e a una certa tendenza a masticare lo scenario e poi, anni più tardi, in una libreria londinese, avreste potuto scoprire con qualche sorpresa che il film è tratto da un libro. Un libro molto divertente, pieno di scambi d’identità e intrighi di corte in un immaginario staterello mitteleuropeo… E dopo averlo letto, avreste scoperto l’esistenza di un seguito dedicato all’affascinante vilain Rupert von Hentzau – e avreste potuto leggere anche quello, sempre in una piccola edizione Penguin, dotata di abbastanza introduzione da scoprire che Sir Anthony Hope, oltre a scrivere eccellenti piccole avventure, aveva creato un genere. Perché c’è un nome per tutto quel che si ambienta in uno staterello immaginario in età contemporanea (ma non solo, o almeno non troppo rigorosamente) – e questo nome è, Mesdames et Messieurs, Ruritanian Romance*.
Per cui, ecco dove risiede l’immortalità di Hope – be’, quella fettina d’immortalità che gli spetta: nella geografia immaginaria che attraversa la narrativa di genere, e di cui Zenda è la capitale, dal (pre-Zenda) Grunewald di Stevenson alla Laurania di Churchill**, dalla Zembla di Nabokov al Graustark di McCutcheon, fino alla Syldavia di Tin Tin e alla Latveria dei Fumetti Marvel, passando per un diluvio di imitazioni, parodie, deviazioni digressioni cinematografiche. Avete presente, che so, Il Ruggito del Topo, in cui la squattrinata Granduchessa Gloriana, interpretata da Peter Sellers, decide di dichiarare guerra agli Stati Uniti, tanto per fare un po’ di cassa? Il Ruritarian Express fa un sacco di fermate – e qualcuna in regioni improbabili.
Ed essendo praticamente cresciuta in Ruritania senza saperlo***, sento un debito di gratitudine nei confronti di di Sir Anthony, cui dobbiamo il più pittoresco e bel nome che categoria narrativa abbia mai avuto****. È vero, tutto l’armamentario potrebbe anche chiamarsi political fantasy, ma volete mettere?
A questo punto, semmai voleste leggere qualcosa, fate una capatina alla relativa pagina del Project Gutenberg, e ci troverete parecchio – incluso, naturalmente The Prisoner of Zenda. In Inglese, si capisce, ma che volete farci?
E poi vi segnalo questo bizzarro sito chiamato The Ruritanian Resistance, dove si trova un po’ di tutto, comprese vecchie foto di scena, illustrazioni riprodotte e informazioni su qualcuno dei numerosi adattamenti cinematografici.
Roger Lancelyn Green ha scritto – un nonnulla acidamente – che Hope era un dilettante di prima classe, ma un mediocre autore di professione. Mah… sarà – e tuttavia il giudizio mi sa tanto di genre-snobbishness: dubito molto che Hope abbia mai preteso di essere un Sacerdote delle Arti, ma è riuscito a vivere agiatamente della sua scrittura, ha scritto, pubblicato e messo in scena parecchio e con successo, si è lasciato dietro almeno un titolo amatissimo, lettissimo, tradottissimo, imitatissimo, parodiatissimo, sceneggiatissimo e rappresentatissimo, e ha, se non proprio creato, dato forma a un genere. Non so immaginale molte carriere più professionali di così.
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* E adesso, per favore, non levate il sopracciglio: ne abbiamo già parlato, ma “romance” non è sinonimo di “romanzo rosa”. È una questione di pittoresco romanticizzato, non di fiori d’arancio all’ultima pagina.
** Sì, Winston Churchill. No, really.
*** M., magari non te ne ricordi, ma io sì: mi ricordo del pomeriggio di trent’anni fa in cui hai cercato di ribellarti mentre giocavamo con le bambole e io dirottavo l’ennesima trama in una direzione che non sapevo essere quella della Ruritania… Tu hai tentato di ribellarti, ma io avevo un anno di più ed ero prepotente… “Se non vuoi, non occorre che i tuoi personaggi partecipino al colpo di stato,” ho concesso – e siamo andate avanti per la mia strada. A trent’anni di distanza, M., puoi perdonarmi?
**** Be’, poi naturalmente gli dobbiamo Rupert von Hentzau. Che posso dire? Non sono necessariamente vulnerabile al fascino del Cattivo Ragazzo, ma Rupert è un’altra cosa. Rupert è persino entrato a pieno titolo nel Rimembranzese – che è la lingua ufficiale di casa mia: quando qualcuno fa del suo deliberato meglio per essere indisponente, si dice che sta facendo Rupert. “Stop playing Rupert, will you?” E col tempo si è evoluto anche in un verbo: “Piantala di rupertare/rupertarmi”, o… “Stop ruperting (me)!”