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Ago 7, 2017 - posti, Storia&storie    Commenti disabilitati su Imperi Perduti – Una Collezione

Imperi Perduti – Una Collezione

Questo, abbiate pazienza, è un post vagamente sentimentale. Ma il fatto è che l’altro giorno si parlava con C. d’imperi – imperi che finiscono, imperi di cui resta l’ombra, imperi che si sfanno in polvere –  e la discussione mi ha portata a rimuginare sulla mia personale collezione d’Imperi Perduti – o quanto meno sulle ombre che ne ho trovato, in loco, talvolta molto altrove, e tra le pagine dei libri.

lisbon-cathedral.jpgLisbona è una città bizzarra. Triste, grandiosa e trascurata, costellata ancora di rovine del terremoto del 1746, con la sua torre sul Tago, l’Alfama afosa e sudicia aggrappata attorno al rudere del castello, e caravelle dappertutto. Caravelle nei musei, ex voto in miniatura nelle chiese, giostre per i bambini, stilizzate nei marchi, nei simboli – ovunque. L’impressione è di orgoglioso abbandono, come se tutta la città sussurrasse di continuo: che importa? Lasciate che tutto crolli: l’Impero è perduto, che importa, ormai?

A Londra invece si passeggia per lo Strand circondati da edifici dai nomi come Australia House, Zimbabwe House, High Commission of India, Commonwealth Secretariat, Quebec Government Office… e benché sia passato più di un secolo da quando Kipling scrisse il suo Recessional, nei negozi di tè si trovano ancora sacchetti che portano tutti i nomi del mondo, Tuvalu nel Pacifico rifiuta pervicacemente di avere altro sovrano che la Regina d’Inghilterra, le università pullulano dei figli del buon vecchio Commonwealth, e tutta la città pulsa e ferve ancora con l’aria di deliberata alacrità che si confà al cuore di un mondo intero. Se è svanito dagli atlanti, l’Impero qui è vivo in spirito.Komsomolskaya_Square.jpg

A Mosca c’è la piazza Komsomolskaja, su cui si affacciano tre enormi stazioni ferroviarie più una: quella Primi Novecento della linea per Sanpietroburgo, quella a forma di yurta della Transiberiana e la stazione dall’aspetto asiatico della ferrovia di Kazan, a cui si aggiunge un capolinea della metro in stile neoclassico. La piazza è enorme, affollatissima, e a tutte le ore brulica di gente in partenza e in arrivo. Non so se sia ancora così, ma una quindicina di anni fa le halls colossali erano stipate di Russi ed ex-Sovietici di ogni possibile etnia, inverosimilmente carichi di bagagli, rumorosi, seduti per terra, occupati a spingere, a sgomitare e a litigare tra di loro in una babele di lingue. Anche se l’impero è franato ormai ripetutamente, ha lasciato dietro di sé, quanto meno, un centro nevralgico vivo nella Komsomolskaja.

Sbarcando a Sanpietroburgo, poi, si trova (o almeno si trovava quei quindici anni orsono) quel bizzarro fenomeno per cui, persino sulla Nevskij Perspektiv, le facciate dei palazzi sono meravigliose, ma guai a muovere un passo oltre la soglia: dietro tutto è abbandonato e sudicio. L’intera città, con le sue prospettive perfette, Santa Maria di Kazan come una San Pietro nera, i giorni lunghissimi e gli scorci incantevoli, sembra una quinta teatrale: magnifica e fasulla. Viene da chiedersi se l’Impero, quello che intendeva Pietro il Grande, sia mai esistito per davvero.

baalbek-Temple-of-Jupiter.jpgÈ quasi un paradosso che l’Impero di Roma io l’abbia visto per la prima volta in Libano. No, non è vero, naturalmente: ogni volta che torno a Roma me ne innamoro un po’ di più, e però ogni tanto, mentre ammiro i Fori, o la Basilica di Massenzio, o una qualsiasi altra meraviglia, non posso fare a meno di domandarmi – con uno stringimento di cuore – che effetto farebbe la città a un antico Romano che potesse vederla adesso. E la risposta non è confortante: un disperato smarrimento nel vedere i ruderi di ciò che aveva creduto solidamente immutabile*. Forse è per questa malinconia che non penso troppo volentieri all’Impero, quando sono a Roma. Per paradosso, come dicevo, la sensazione è stata tutt’altra quando a Baalbek mi sono trovata di fronte i colossali templi della periferia, dov’era più importante che mai lasciare impronte possenti. All’ombra di quelle formidabili affermazioni di pietra, la possenza di Roma mi ha colpita con una forza sconcertante. Là dove non mi appare smussato dalla storia successiva, l’Impero ha lasciato dietro di sé fantasmi molto solidi, molto indubitabili.

Vienna è sotto molti aspetti un’adorabile città, ma dopo avere letto Joseph Roth non l’ho più vista con gli stessi occhi. L’Impero di Roth, degli Asburgo, delle molteplici etnie raccolte sotto un’idea, l’Impero della mia nonna friulana** che dava a suo figlio i nomi del penultimo imperatore, quell’Impero Cripta.jpgelefantiaco, multilingue, ordinato nel suo disordine, austero, lento e immutabile è morto con Franceso Giuseppe e si è decomposto con la Prima Guerra Mondiale. Certo non è nelle vetrine delle pasticcerie in forma di sacher-torten o pasticcini serviti a legioni di turisti, non è nelle onnipresenti mozartkuegeln, non è nelle figuranti in abito da Sissi che si fanno fotografare nelle piazze e nei parchi, non è nelle canzoni sentimentali che i violinisti suonano nei ristoranti. Dell’Impero Vienna ha sposato un’oleografia edulcorata, consolante per il carattere nazionale e buona per il turismo, tradendo l’idea sovrannazionale, antichissima e variamente sacra. Di quella resta soltanto la Cripta dei Cappuccini nel Neue Markt.

E per finire, ho avuto il dubbio ma indimenticabile privilegio di vedere il crollo di un impero, quello sovietico. Non parlo tanto delle immagini televisive – nemmeno dell’ultimo ammainabandiera della falce e martello dal Cremlino – ma di qualcosa di più piccolo che ho visto di persona: gli sconsolati soldati sovietici in quella che, nell’agosto del 1990, era ancora la Germania Est, naufraghi di uno stato che non aveva di che riportarli a casa né pagare loro uno stipendio. A Lipsia pattugliavano pro forma la stazione, una manciata di Caucasici con le uniformi disordinate e il passo stanco di chi non sa bene che cosa sta facendo. A Dresda, giovanissimi e macilenti, sedevano in fila sulle panchine davanti alla Pinacoteca, inseguendo il sole o l’ombra a seconda dell’ora, perché non avevano dove altro andare nelle ore di libera uscita. A Berlino si sporgevano da dietro la garitta del monumento al Milite Ignoto Sovietico, implorando i turisti (in Inglese molto approssimativo) di comprare una mostrina, una bustina, un paio di guanti… i brandelli del loro Impero in sfacelo. È qualcosa che non dimenticherò mai.

In tutta la sua gloria di ricordi veri e propri, polvere di biblioteca e wishful imagining, questa è la mia collezione. Che volte farci? Ciascuno è sentimentale a modo suo.

E voi? Voi ne avete d’imperi perduti?

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* Mutatis mutandis, non posso fare a meno di pensare alla scena de Il Pianeta Delle Scimmie in cui Charlton Heston scopre sulla spiaggia un frammento della Statua della Libertà. IPdS, e quella scena in particolare, ha dato origine a molti incubi della mia infanzia.

** Friulana e un po’ slovena, truth be told. Ma lei, a detta di suo figlio, si considerava asburgica.

Ago 25, 2015 - Genius Loci, posti    2 Comments

Genius Loci

Genius lociSto pensando che mi piacerebbe davvero riprendere e portare in giro Scrittori & Città, le conferenze che avevo tenuto due o tre secoli orsono alla UTE di Mantova. L’idea – credit where it’s due – era partita dalla signora Paola Donati, e io avevo contribuito al ciclo con cinque titoli. Bel tema, un sacco di possibilità interessanti, argomento che mi sta a cuore…. La ricordo come una bella esperienza.

E sì – l’argomento mi piace parecchio. Ho sempre creduto all’alchimia fra posti e persone: posti e persone si costruiscono a vicenda, cosa che ho imparato in un’altra vita, quando costruivo case. Oh, d’accordo: tetti di case, ma il concetto non cambia e vale ancora di più per le città.

Tutti noi siamo, almeno in parte, il prodotto dei posti di cui assorbiamo la cultura, il clima sociale (e anche quello meteorologico), le idee e le tradizioni, di cui sfruttiamo le opportunità o subiamo gl’inconvenienti. Lo scrittore, che per sua natura è una combinazione tra una spugna e un frullatore, oltre ad essere un prodotto dei suoi posti può diventare anche l’osservatore, l’interprete e, talvolta, persino l’artefice.

Pensiamo a Emily Brontë e alle brughiere dello Yorkshire. Emily amava le sue brughiere e le ha ritratte, ricreate e Lorna-Doonedrammatizzate nel suo romanzo con tanta efficacia che tutti noi associamo all’idea di brughiera la voce di Cathy che chiama Heatcliff nel vento. Attraverso Cime Tempestose, le brughiere di Emily sono diventate le brughiere di un sacco di gente che ha visto o non ha visto una brughiera per davvero.

Altre volte l’associazione non è solo geografica, ma anche storica. Pensiamo alle varie componenti sociali della Sicilia ottocentesca ritratte nei romanzi di Verga, di Tomasi di Lampedusa e di De Roberto, per esempio. Oppure all’idealizzazione romantica del Sud degli Stati Uniti alla vigilia della Guerra Civile compiuta da Margaret Mitchell in Via Col Vento. Perché non è affatto detto che lo scrittore debba essere obiettivo o scientifico: i romanzi non fanno cronaca, ritraggono un’era, un’atmosfera, un clima… in un posto specifico.

SalammboPoi ci sono autori vagabondi o cosmopoliti, autori che scrivono di molti posti che hanno visto, che non hanno mai visto o che hanno inventato, autori che ricercano sui libri, autori che immaginano, autori cui non importa molto del posto in cui si trovano. Byron ha trascorso molto tempo a Venezia, e la Venezia delle sue opere è deliberatamente una collezione di fondali d’opera, mentre la Grecia di Durrel è ritratta attraverso una spessa lente nonsense. Per contro, i Caraibi di Salgari sono pura fantasia, così come la Russia di Dumas e l’Italia della signora Radcliffe. Oppure c’è un Flaubert, che, prima di scrivere Salammbo, se ne va in Algeria e Tunisia, a caccia di colori e di luci: “…il cielo diventa di un verde pallidissimo e il mare si rischiara sotto questa grande striscia indefinita… ormai ci sono pochissime stelle, molto diradate; tutta la parte sud e ovest di Cartagine è di un biancore brumoso…” Ci si legge l’ansia puntigliosa di ricreare questo posto (una Cartagine ormai morta da venti secoli) quando sarà di nuovo in Francia, seduto alla sua scrivania.Utopia

Ci sono anche autori che inventano i loro posti: Swift e Lilliput, Thomas More e Utopia, Hope e la Ruritania, Cyrano e i Regni della Luna e del Sole. E il discorso appare meno peregrino quando si pensa a come questi posti inventati rispecchino, distorcano, idealizzino, mettano in parodia o in satira dei posti reali.

Infine ci sono autori che finiscono con l’incarnare un luogo perché non solo le rappresentano ripetutamente nella loro opera, ma a loro volta rappresentano tipicamente un’epoca, un modo di vita, una generazione, una corrente intellettuale. Questi legami sono particolarmente evidenti con quelle città che hanno svolto il ruolo di centri intellettuali. In una grande città piena di gente che va a teatro e legge i giornali, che crea e segue le mode, che sperimenta in prima battuta i cambiamenti sociali e le innovazioni, lo scrittore ha una quantità infinita di stimoli, di contatti, di possibilità e di pubblico. Le città, con le corti, le università, le biblioteche, i musei, le cattedrali, i caffè, i mercati, i teatri, l’umanità fitta, varia e affamata di storie e parole, in tutte le epoche attraggono gli scrittori come calamite, li lusingano, li portano alla fama o li relegano nelle soffitte.

DickensLondonE in cambio, ogni tanto, uno scrittore coglie lo spirito di una città, lo assorbe, lo fa suo, gli dà forma e colore e lo consegna alla letteratura. Qualche volta la città diventa un personaggio a pieno titolo, qualche volta una cornice pittoresca, o una quinta teatrale, o un’ispirazione inesauribile, o un simbolo, o un’idea. Una città di carta e inchiostro può essere tanto varia e complessa quanto la sua controparte di mattoni.

Provate a pensare all’amore/odio tra Dickens e la sua Londra fatta di prigioni, botteghine, tribunali, strade sudicie, slums e ponti, immersa nella nebbia, offuscata dal fumo, nera di fuliggine, eppure brulicante di vita. Non è detto che Londra fosse così – eppure la forza della visione di Dickens è tale da condizionare ancora oggi quella dei suoi lettori: a due secoli abbondanti di distanza, tutti andiamo a Londra e cerchiamo Dickens.

Questo è, in definitiva, il sugo del legame tra uno scrittore e una città. È quel che avevo cercato di indagare e raccontare in Scrittori & Città – e adesso mi ritrovo ad averne nostalgia, e mi piacerebbe rispolverare i risultati. Mi metterò in cerca di posti – ma intanto, se a qualcuno da qualche parte interessa sentirmi bagolare di Londra, Parigi, Vienna ed Edinburgo attraverso le opere dei loro numi tutelari letterari, fatemi sapere. C’è un form, qui in fondo alla colonna a destra, chiamato “Domande, idee, dubbi, curiosità?” Contattatemi – e ne discuteremo.

Ago 3, 2015 - gente che scrive, Ossessioni, scribblemania, scrittura    Commenti disabilitati su Attorno al Romanziere

Attorno al Romanziere

john_irvingOgni tanto, a quanto sembra, la moglie di John Irving si trova su un aereo con destinazione Amsterdam, o Vienna, o altrove – e, una volta arrivata, si ritrova a visitare negozi di tatuaggi, ospedali, organi storici, pensioncine, ristoranti ungheresi e altri luoghi bizzarri. Senza sapere perché.

O meglio – il perché lo sa benissimo: suo marito è un romanziere che si documenta di prima mano. Va a visitare le città, cerca i posti, parla con la gente, fa domande… Solo che non ne mette a parte sua moglie. Non fino in fondo. Questo lo so per avere visto un documentario in cui Irving discuteva dettagliatamente il suo processo creativo, e la moglie compariva ogni tanto a raccontare come, leggendo il romanzo finito, le capiti in continuazione di “scoprire” perché siano andati nell’un posto o nell’altro, o perché abbiano incontrato la tale o tal’altra persona. E magari ogni tanto, a lavori in corso, alla signora Irving capita di chiedere qualche informazione, qualche indizio – ma ottiene ben poco.

Irving è il genere di scrittore che si tiene ben vicine le carte, e lo fa con tutti. Con l’amico medico cui si rivolge per sapere se è possibile morire in un modo o nell’altro, con gli sconosciuti che intervista per avere informazioni tecniche, e persino con i membri del suo team di ricerca… Ebbene sì: ci sono scrittori che hanno un team di ricerca, gente che trova il giusto ospedale, la giusta segheria, il giusto detective olandese, i giusti organi da sentir suonare. E però, come la signora Irving, non sa di che si tratta fino alla fine.

Mi chiedo se sia più affascinante o frustrante: beneficiare di occhiate oblique a un romanzo in corso, coglierne questo o quello scampolo, domandarsi come debbano combinarsi tra loro… E continuare a domandarselo fino alla fine – e poi, di solito, trovarsi di fornte a qualcosa di del tutto inaspettato. La consorte e l’assistente intervistate nel documentario ne parlano come se fosse divertente ed elettrizzante – ma non posso fare a meno di chiedermi, e ho la sensazione che, personalmente, diventerei matta.

Ad ogni modo, non è il tipo di tormento che io infligga ad amici, parenti e affini. agastheatre400

Anzi.

Pare che, fin dalla prima giovinezza, possieda una certa tendenza a discutere di quel che sto scrivendo. A discuterne in vasta e particolareggiata abbondanza. Con chiunque mi stia a sentire. O anche se non mi si sta poi troppo a sentire. Per quanto, negli anno, abbia fatto sforzi per imparare a contenermi, “Che cosa stai scrivendo, Clarina?”  o “E come va il romanzo, Clarina?” sono ancora domande pericolose. Pericolose nel modo per cui abbattermi a sediate, dopo un po’, si configura come legittima difesa. E stavo per dire “senza nemmeno il beneficio dei viaggi”, ma non è del tutto vero. Benché sia difficile portare alcunchì in epoca elisabettiana, ho trascinato amici e famigliari in giro per Londra inseguendo posti, ipotesi, tracce residue, vecchie mappe… Mi sono rivista in qualche fotografia, intenta a tenere concioni con un luccichio matto negli occhi…

E non lo so, ma vedendo il documentario in questione mi è sorto il dubbio: forse amici, parenti e affini preferirebbero che lavorassi à la John Irving?

 

Apr 10, 2015 - scrittura, Vita da Editor, Vitarelle e Rotelle    Commenti disabilitati su Di Fanciulle, Rilevanza & Pasticcini

Di Fanciulle, Rilevanza & Pasticcini

DemelO Fanciulla Che Vuole Scrivere, tu che mi tormenti perché legga qualcosa di tuo, e poi ti offendi quando ti faccio notare che Voler Scrivere non basta… E non dire che non ti sei offesa, per favore: se gli sguardi potessero fulminare, io adesso sarei un toast. Mai sottovalutare la lunga esperienza di una editor in fatto di fulmini oculari… O in fatto di pensieri del genere “Non-ha-capito-niente-che-cosa-c’entra-la-tecnica-questo-è-il-contenuto-del-mio-cuore-e-il-frutto-della-mia-ispirazione-e-questa-mi-parla-di-uso-della-lingua-l’importante-è-il-contenuto-non-la-forma…”

No, o Fanciulla: non leggo nel pensiero – è l’umana natura.

E ho tutta la simpatia possibile, sai? Ci sono passata prima di te, tutti ci siamo passati. Solo che tu te la sei presa a morte e sei scappata via salutando a metà, prima che potessi raccontarti una piccola storia.  È un istruttivo aneddotino in fatto di consapevolezza, pesi e contrappesi, che potresti applicare con qualche soddisfazione in una nuova stesura del tuo racconto… Ebbene, nell’improbabile caso in cui tu dovessi decidere di dare un’altra occhiata da queste parti, eccoti una storia del secolo scorso – quando non ero molto più grande di quanto tu sia adesso:

“La Rilevanza è tutto,” mi fa Victoria, e lo dice in un tono che implica la maiuscola per Rilevanza. E poi, siccome vede che io sorrido e annuisco, siccome siamo sedute al tavolino di una konditorei a Vienna, siccome si fa tardi, leva gli occhi al cielo e decide di lasciar perdere.

Però Victoria è persistente e, una volta che ciascuna è tornata a casa propria, mi manda una mail piuttosto oracolare, il cui contenuto, tradotto, suona più o meno così:

Alcesti è intelligente ma non s’impegna. Bradamante non s’impegna ma è intelligente.

Tutto qui, ma basta perché la folgore si abbatta sui miei neuroni appisolati e li galvanizzi in attività: è vero, la rilevanza è tutto!

Perché, diciamocelo: Alcesti è quasi un caso disperato, e per intelligente che sia non giungerà mai da nessuna parte, se non impara ad impegnarsi. Ispira persino poca simpatia, che diritto ha la gente sveglia di non impegnarsi? Bradamante, invece, è tutta un’altra questione. Bradamante, è vero, non s’impegna, ma la sua intelligenza incoraggia a sperare che lo farà. È troppo intelligente per non capire l’importanza dell’impegno e, nel frattempo, è di quelle simpatiche persone piene di potenzialità. Lasciamo solo che maturi…

E chi l’avrebbe mai detto? Il più elementare dei tricks di rilevanza ha un afflato pseudo-evangelico: quello che viene dopo conta di più.

La meraviglia delle sfumature: con un minimo spostamento di parole si ribalta la sostanza del giudizio contenuto in una frasettina. Questa non è matematica: spostando l’ordine dei fattori il risultato cambia, oh se cambia!

Doppia morale: da Demel fanno dei pasticcini oltre ogni descrizione; e la rilevanza (pardon: Rilevanza) è, se non tutto, parecchio.

Se non fai sul serio, o Fanciulla, è lo stesso. Ma se davvero Vuoi Scrivere, allora prova: comincia con questo – in fondo è una cosa piccola. Rileggi e riscrivi badando alla rilevanza. All’interno della coppia di aggettivi (se proprio devi usarli a coppie…), della frase, del paragrafo, della pagina, della storia intera. E poi rileggi ancora, possibilmente ad alta voce, e bada alla differenza.

E non farmi sapere – non serve. Dovrebbe importare molto più a te che a me.

Cari auguri.

Feb 10, 2010 - Genius Loci    2 Comments

Finis Austriae: Joseph Roth e Vienna

Joseph Roth.pngFino alla metà degli Anni Settanta tutti credevano che Joseph Roth fosse il rampollo di un ufficiale austroungarico e che, a sua volta, avesse servito come ufficiale durante la I Guerra Mondiale, finendo prigioniero in Russia. E di conseguenza si credeva che libri come Fuga Senza Fine, La Marcia di Radetzky e La Cripta dei Cappuccini fossero largamente autobiografici. Queste informazioni si trovavano sulle quarte di copertina e nei lemmi d’enciclopedia, per un motivo molto semplice: Roth stesso le aveva fornite.

Peccato che non fosse vero.

In realtà, prima di diventare un giornalista celebre, un romanziere e un esule girovago, Joseph Roth era stato un figlio della piccola borghesia ebraica nella provincia galiziana, uno studente borsista e poi un sottufficiale nell’ufficio stampa dell’Esercito Austroungarico durante la guerra, senza vedere un singolo giorno di servizio al fronte.

Ecco uno scrittore che, invece di creare personaggi autobiografici, crea una biografia fittizia simile a quella dei suoi personaggi, in particolare di Franz Trotta, il protagonista de La Cripta dei Cappuccini*. Quello che è curioso, se vogliamo, è che la vicenda bugiarda di Franz diventa il simbolo di tutta una generazione di Viennesi, la generazione perduta, la generazione sconfitta: non quelli che muoiono in guerra, ma quelli che hanno l’ancor peggiore ventura di tornare, fantasmi di una Vienna finita. Anzi no: di un Impero finito. Aquila.png

Perché, diciamolo subito, Roth non concepisce l’Austria post-bellica, la piccola Austria che parla Tedesco, raccoglie stelle alpine e canta canzoni sentimentali. L’Austria, per Roth, è l’Impero; e di questo Impero Vienna è un po’ la madre e un po’ il parassita, una sorta di scrigno della grandezza imperiale (malinconicamente incarnato prima dal vecchio Francesco Giuseppe, poi dalla cripta dove riposano gli Asburgo), che governa, protegge, punisce e sfrutta le sue periferie con pari, inesorabile equanimità**.

Non è una Vienna allegra, quella di Roth, fatta di uffici ministeriali dove nulla mai compie e nulla si dimentica, di palazzi in rovina che diventano pensioni, di caffè dove i giovani di buona famiglia trascorrono le loro giornate, discutendo di come il senso dell’Impero sia più vivo in Ungheria e in Polonia che nelle città germanofone. Allo scoppiare della guerra, Franz e i suoi amici sono quasi sollevati: dal momento che il loro mondo sta già crollando senza che possano farci alcunché, dal momento che non vedono un futuro, una morte in guerra, una buona morte in nome delle ultime vestigia dell’Impero, è forse il meglio che possano inconsciamente augurarsi. La morte che incrocia mani di scheletro sopra le coppe da cui questi giovani bevono è l’immagine che ricorre in tutta la prima metà del romanzo.

Ma la guerra e la morte passano oltre, Franz sopravvive e, sfuggito alla prigionia in Russia, torna fortunosamente in una Vienna che stenta a riconoscere. Con la madre e con gli amici sopravvissuti, beffati come lui, ricomincia a celebrare, come in un’eterna liturgia funebre, i piccoli riti secondari dell’Impero che non c’è più: nessuno ha denaro, il vino e il caffè sono diventati pessimi, da Demel non servono più meravigliosi pasticcini dai colori di gioiello, e le candele di sego hanno sostituito quelle di cera, ma in fondo tutto questo è appropriato. Appropriato a una città che non ha più un Impero, né un Imperatore. Finito è il tempo in cui un cittadino austroungarico poteva viaggiare da Lwow a Trieste, a Praga a Sarajevo, ritrovando sempre simili le stazioni intonacate di giallo, i giocatori di domino nei caffè, lo spirito dell’Impero***. FranzJoseph.jpgPerduta è la crisalide dell’identità antica, al di sopra delle nazioni e delle lingue. Nella nuova Vienna, testa senza più corpo né corona, rimane solo la scelta tra correre con il nuovo mondo (come fa Elisabeth, la moglie separata di Franz), oppure lasciarsi morire un poco per volta insieme ai brandelli del vecchio. Per Franz e i suoi amici, gli sconfitti che un futuro non lo avevano mai preso in considerazione, la scelta è terribilmente facile.

Quando scrisse La Cripta dei Cappuccini, Roth era in esilio in Francia, sfuggito per tempo alle persecuzioni naziste, legato ad ambienti veteromonarchici che caldeggiavano un impossibile ritorno degli Asburgo su un fantomatico trono d’Austria. Scelta  stravagante e cavalleresca, omaggio di devozione ostinata e consapevole all’ideale tramontato.

Non stupisce – ma commuove – il finale del romanzo: è il marzo del 1938 e Franz siede al caffè, come sempre, quando giunge notizia dell’Anschluss, l’annessione dell’Austria da parte della Germania nazista. La novità provoca concitazione, e il caffè si svuota. Solo Franz indugia e, rimasto solo, se ne va, per le strade ventose e deserte, fino alla chiesa dei Cappuccini al Neuer Markt, per rendere, dalla porta che non gli è consentito di varcare, un ultimo omaggio al suo Imperatore e al vecchio mondo sconfitto. Gott erhalte! – Dio conservi! grida Franz, quando non c’è più nulla da conservare.

Roth sarebbe morto un anno dopo, esule e malato. Della sua Vienna oggi non rimane più molto, a meno di cercarla negli angoli più bui di Demel, o nella Cripta. Ma fuori di lì, alla luce del sole Vienna (insieme a tutta l’Austria) ha abbracciato un modello sentimental-turistico dell’Impero, fatto di figuranti vestite da Sissi, concerti di capodanno e feste da ballo****. Dell’Impero rimane solo questa pallida immagine di zucchero, crinoline e boschi tirolesi.Cripta.jpg

Joseph Roth, che si era costruito una biografia simbolica per meglio aderire a una Vienna ideale e sovrannazionale, non avrebbe apprezzato.

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* I Trotta, lo sappiamo da La Marcia di Radetzky, sono una famiglia di origine Slovena, il cui ramo principale è stato nobilitato in seguito a un salvataggio dell’allora giovane Francesco Giuseppe, in un episodio finito, con molti abbellimenti, sui libri di testo. Il romanzo ha il suo culmine in un desolato incontro tra il figlio del salvatore nobilitato e un ormai vecchio Francesco Giuseppe, che dei Trotta non ricorda più nulla, se non di dover essere loro grato.

** A noi, cresciuti a una dieta di Pellico e Mazzini, questo fa un po’ specie. Eppure, la percezione generale dell’Impero corrispondeva a un’entità soffocante e benevola in parti uguali, affetta da elefantiasi burocratica e tendenzialmente pervasa da un’identità sovrannazionale.

*** Questo spirito, in realtà, era ancora abbastanza vivo alla metà degli Anni Trenta perché mia nonna, cresciuta in un territorio che era stato alternativamente Italia e Slovenia, chiamasse il suo primogenito Francesco Giuseppe in onore dell’Imperatore.

**** Mi si dice che il Prefetto di Vienna partecipi in media a centocinquanta balli l’anno.

Gen 12, 2010 - Genius Loci    Commenti disabilitati su Genius Loci

Genius Loci

Bene, è giunto il momento di riscuotersi dall’accidia post-vacanziera, dalla tendenza al lamento da Lunedì Mattina Cosmico, dal salterellar di palo in frasca. E’ giunto il momento di concentrarsi su una nuova serie di post a tema.

Perciò, dalla settimana prossima, avrà inizio – rullo di tamburi… – Genius Loci, ovvero scrittori e città.

Questo nasce da una serie di lezioni tenute, nel quadro di un corso in collaborazione, presso la UTE di Mantova, e prevede cinque puntate con un’abbondanza di illustrazioni, letture, aneddoti, storia e letteratura, senza trascurare il minimo indispensabile di geografia. Nell’ordine (o forse no) avremo:

* Londra e Dickens

* Parigi e Dumas père

* Vienna e Joseph (non Philip) Roth

* Londra (di nuovo, sì…) e Virginia Woolf

* Edimburgo e Stevenson.

Considerando un’introduzione generale a mistica e realtà del rapporto scrittori/città, e un congedo per tirare le conclusioni a cose fatte, ciò significa che per sette settimane ci occuperemo di genio dei luoghi, luoghi del genio, luoghi e genio. Sette settimane a partire dalla prossima ci dovrebbero portare, se la matematica e il calendario non sono un’opinione (debatable matters, both of them), agl’inizi di marzo, quando nei prati fioriranno le violette e sbocceranno le margherite. E per allora si vedrà.

E sì, lo so: tre su cinque sono autori britannici… Ma d’altra parte non è una novità: io sono un’anglomane malata e convinta e voi, alla fin fine, ve lo aspettavate, nevvero?

Feb 19, 2009 - grilloleggente    2 Comments

Finis Austriae

E dunque credevo di essermi liberata dall’Australiana, ma forse non era del tutto vero, e quindi la lezione su Roth alla UTE l’ho passata cercando di non tossire come un aspirapolvere con l’asma. Cercando con modesto successo, dovrei dire.

 

Tra un rantolo e l’altro, a quanto pare, sono riuscita a farmi capire, ed è già qualcosa. Di sicuro hanno capito che Roth mi piace. Bisogna amarlo, uno scrittore, per andare a parlarne in quello stato! E per fortuna che ho deciso di non leggere ad alta voce il finale de “La Cripta dei Cappuccini”, quando Franz Trotta va a rendere l’ultima visita al suo imperatore morto, e grida “Dio conservi” davanti alla porta chiusa…

 

E’ più forte di me: non riesco a leggerlo senza commuovermi, fin dalla prima volta, in Collegio, chiusa di nascosto in un’aula vuota alle tre del mattino.Solo che piangere da soli in un’aula vuota alle tre del mattino è leggermente più sano che scoppiare in singhiozzi all’Università della III Età…

 

Scherzi a parte, quello che più mi piace in Roth è questo senso d’irreparabilità e di declino, di questa corsa verso il precipizio, in bilico tra la lucidità e l’illusione che si negano a vicenda ad ogni pagina, ad ogni frase, ad ogni aggettivo. E tutto in una scrittura dall’apparenza così semplice e trasparente.

Buona traduzione, anche: Laura Terreni per Adelphi, alla fine degli Anni Ottanta.

Anzi, ora che guardo, proprio nell’Ottantanove. La cosa ha una sua poesia: da una parte il Muro che Cade a Berlino, dall’altra forse il più bel romanzo su come cadono gl’Imperi.

 

D’accordo, invece di diventare maudlin, facciamo buoni propositi: un giorno o l’altro, riprenderò a studiare Tedesco sul serio, non foss’altro che per leggere Roth in originale.