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Lug 27, 2016 - Shakespeare Year, teatro    Commenti disabilitati su Shakespeare in Words… Meno Otto

Shakespeare in Words… Meno Otto

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Otto giorni al debutto, e… well, non siamo pronti, ovviamente. Se lo fossimo, sarebbe allarmante.

Siamo in quella iridescente situazione in cui, nel corso delle quotidiane – quotidianissime – prove, si nuota tra gli inceppi, gli impicci e le magagne, e a tratti si vedono lampi di Come Dovrebbe Essere.

La forma dello spettacolo c’è. L’abbiamo intravista tutti, in qualche momento… Magari mentre provavamo con la musica (vi ho detto che avremo in scena due favolosi musici? Contrabbasso e timpani?), oppure durante un tentativo di filata, o ancora mentre riprovavamo per la terza volta di fila il blocking di una scena.

E ogni volta c’era qualcosa qualcosa, ma mancava qualcosa d’altro.

Oh, non so se sono preoccupata davvero… Voglio dire: lo sono – e a morte – perché da quattro anni non recitavo una singola battuta davanti a un pubblico, e quindi sono terrorizzata-terrorizzatissima, ma per quanto riguarda l’insieme dello spettacolo siamo perfettamente all’interno di quella che in teatro va sotto il nome di normalità. È la faticosa, intensa, puntigliosa Penultima Settimana – e, se non si può dire che tutto vada bene, è tuttavia vero che va come deve andare.

Se non fossi terrorizzata-terrorizzatissima, credo che sarei teatralmente tranquilla, in attesa dello scoppio della tradizionale Crisi Catartica dell’Ultima Settimana, un po’ in pensiero per il disegno luci – ma nulla di più. Stando le cose come stanno… Rehearse

Eh.

C’era un motivo, se avevo smesso, e me ne sto ricordando con terrificante vividezza – ay de mi.

Ma non fate troppo caso a me. Shakespeare in Words sta crescendo con ogni prova. Ci pensavo ieri sera, mentre galoppavo (in ritardo, tanto per cambiare) verso la sala prove provvisoria con un mantello, uno sgabello, una maschera, il copione, il prompt book e una bottiglietta di autan. Ci pensavo con quel misto di soddisfazione, anticipazione, frustrazione e lepidotteri (ugh!) nello stomaco che ho imparato a considerare naturale quando si tratta di teatro: non ci siamo, non ci siamo affatto, non ci siamo ancora – ma siamo al punto in cui è chiaro che, al momento giusto, ci saremo.

Vi aspetto giovedì 4?

Lug 25, 2016 - Shakespeare Year, teatro    Commenti disabilitati su Iago l’Opaco?

Iago l’Opaco?

Stephen Jay GreenblattA me Stephen Greenblatt piace proprio tanto.

Il suo Neostoricismo, la teoria secondo cui ogni opera d’arte – letteratura, teatro, musica, pittura, scultura… – va letta e compresa all’interno del suo contesto storico, è uno degli articoli del mio credo.  Why, in realtà ero una neostoricista anche prima di saperlo – ma libri come Will in the World (Come Shakespeare Diventò Shakespeare) e The Swerve (La Svolta) sono stati fondamentali per dare corpo e sistematicità a certe idee che avevo allo stato gassoso.

Quindi, sì: Stephen Greenblatt è una divinità del mio pantheon personale. Nondimeno, ho un peeve.

A un certo punto di Will in the World, Greenblatt introduce il concetto dell’Opacità Shakespeariana. Secondo lui, l’idea centrale della costruzione tragica di Shakespeare, dall’Amleto in poi, è l’opacità delle motivazioni dei personaggi – sopprattutto, ma non solo, dei malvagi. Costoro agiscono per motivi imperscrutabili – e di conseguenza la loro malvagità (o in alcuni casi della loro rovina) è tanto più terrificante e inquietante.Iago

E fin qui tutto bene – ma poi, come poster-boy del fenomeno, Greenblatt presenta Iago: l’alfiere veneziano che, senza un motivo chiaro e apparente, decide fin dalla prima scena di rovinare il suo generale moro. E Otello, che è un soldato di prim’ordine ma non vincerà mai il nobel per la fisica, è una preda facile, tanto più che impiega cinque atti a farsi albeggiare in mente l’idea che l’Onesto Iago non sia poi quel caro ragazzo affidabile che sembra…

Solo che, se posso timidamente dissentire, a me le motivazioni di Iago non sembrano opache affatto. Insomma, Iago lo dice fin dal principio: lui è un buon soldato, abile ed esperto nonostante la giovane età*, il fidatissimo braccio destro di Otello – e quando è il momento di nominare il suo nuovo luogotenente… Otello sceglie un altro?! E sceglie un moscardino pieno di teorie, con tanta esperienza militare sul campo quanta se ne può mettere in un cucchiaino?

Eccola lì, la motivazione: Iago si è visto strappare, senza motivo apparente, quello che gli sembrava il giusto coronamento del suo efficace e leale servizio… Oddìo, se la lealtà di Iago fosse più sincera prima di quello che lui vede come un nigerrimo tradimento, non è dato saperlo, e non è come se la I scena del primo atto ci inducesse a fidarci terribilmente di lui – ma di sicuro Otello non ha mai l’aria di dubitarne, così come non mette discute mai le competenze militari del suo alfiere…

iago21E dunque che cosa c’è di così opaco e misterioso e incomprensibile nella gelosia distruttiva di un uomo che, dopo ogni assicurazione del contrario, si vede preferire qualcun altro per motivi incomprensibili?

E in effetti, se proprio vogliamo parlare di opacità, la motivazione incomprensibile è quella di Otello: perché non promuove Iago? Perché Cassio – che, francamente, non ci dà mai l’impressione di essere granché sveglio? Perché non offre nessuna ragione vera e propria, nemmeno quando un paio di senatori vanno a perorare con lui la causa di Iago?

Così come, se vogliamo parlare di gelosia, siamo proprio sicuri che si tratti soltanto di quella di Otello? La gelosia di Otello è lo strumento che Iago usa per la sua vendetta, ma a mettere in moto tutto a me pare che sia la sua gelosia. La gelosia di Iago – e non, come pure si dice, per via di Emilia. Quando Iago dubita che il Moro si sia infilato nel suo letto, suona proprio tanto come qualcuno che si cerchi delle giustificazioni. La supposta infedeltà di Emilia è del tutto teorica** – ma il tradimento di Otello è tutt’altra faccenda. Iago è geloso – professionalmente e personalmente – perché Otello gli ha preferito Cassio. IagoWhatYouKNow

Dopodiché è difficile negare che la faccenda gli sfugga un nonnulla di mano, e che gli esiti siano del tutto sproporzionati alle cause iniziali, ma non stiamo dicendo che Iago sia una brava persona o che abbia ragione. Diciamo che le motivazioni di Iago sono chiare come il giorno, e che quando, alla fine del Quint’atto, si rifiuta di spiegarsi, “What you know, you know” non significa affatto “Da me non lo saprete mai,” bensì “Come potete chiedermelo – voi lo sapete meglio di chiunque altro!”

Quindi sì, l’opacità c’è – così come la gelosia – ma forse nessuna delle due è proprio (soltanto) dove ce l’aspettiamo…

____________________________

* Sì, perché tendiamo a dimenticarcene, ma Iago è giovane: ventotto anni, lo dice lui stesso a Roderigo. Non precisamente un ragazzino, da un punto di vista elisabettiano – ma decisamente giovane.

** Anche se ho in mente almeno una produzione americana (Shakespeare Theatre Company? Mah…) in cui si suggerisce in modo piuttosto inequivocabile che nel letto di Emilia Otello ci sia passato davvero…

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Lug 20, 2016 - teatro    Commenti disabilitati su Shakespeare in Words – L’Immortalità delle Parole

Shakespeare in Words – L’Immortalità delle Parole

Avete mai badato a quanto è rilevante il potere delle parole in Shakespeare?

E non parlo soltanto dell’uso magistrale che ne fa – ma del loro potere all’interno delle sue trame:  pensate ad Antonio con la folla, a Edmund, con le sue lettere e le sue narrazioni distorte, alle schermaglie di Beatrice e Benedetto, alle manipolazioni di Cleopatra, agli enigmi delle streghe di Macbeth, agli incantesimi di Prospero e delle fate di Titania, a Giovanna d’Arco che ubriaca di parole il Duca di Borgogna – e, per contro, a Coriolano e Bruto che non capiscono o trascurano la necessità di comunicare, a MacBeth che si accontenta del primo significato di quel che sente, a Frate Lorenzo la cui lettera non arriva a destinazione…  Scritte o sussurrate, taciute o gridate, le parole cambiano i destini, intrecciano gli amori e li distruggono, abbattono i regni, girano la testa delle folle…

E Shakespeare in Words – l’Immortalità delle Parole, è uno spettacolo che esplora proprio questo: che cosa si fa o non si fa con le parole nel mondo di William Shakespeare. È una storia di potere, d’ingenuità e d’astuzia, di manipolazione, di errori e di mosse perfette, d’eternità e di bellezza…

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E non è per caso chea domandarsi che cosa sia poi un nome – e se la rosa non profumerebbe allo stesso modo con un altro nome – sia, tra tutti i personaggi del Canone, proprio una ragazzina di scarsissimo buon senso.

Venite a sentire e a vedere, giovedì 4 agosto, all’Esedra dei Giardini Vecchi a Ostiglia. Venite a vedere e a sentire Hic Sunt Histriones che riporta in vita uno Shakespeare che, pur essendo nella tomba da quattrocento anni, non è mai morto del tutto – e, quattro secoli orsono, era capace d’immaginare che proprio così sarebbe andata.

Mag 27, 2016 - libri, libri e libri, romanzo storico, Shakeloviana, Shakespeare Year, teatro    Commenti disabilitati su Liste, Pagine, Letture…

Liste, Pagine, Letture…

ShakelovianaVi ricordate di Shakeloviana?

Romanzi, teatro, cinema, radio… A est della Manica fatichiamo a immaginare la quantità di storie che il mondo anglosassone ha dedicato all’uno e all’altro. E non è soltanto una questione di quantità, ma anche di selvaggia varietà: romanzi storici in senso stretto, ça va sans dire, ma anche gialli, ucronie, rinarrazioni, fantasy, spionaggio, metateatro, storie di fantasmi, la Questione del Vero Autore, l’omicidio a Deptford…

A patto che ci fossero in scena Marlowe e/o Shakespeare, andava bene, giusto?

Da un certo numero di anni vado a caccia di queste cose – e poi ci posto su. Molto di questo lavoro (such hardships!) risale al 2014 – anno di Shakespeare & Marlowe – ma poi mi sono detta: perché non continuare? E, già che ci siamo, perché non dedicare alla faccenda una pagina accessibile dalla colonna qui a destra? Da tempo mi proponevo di farlo, e adesso, con l’Anno Shakespeariano, è arrivato il momento.

E sì, il festeggiato deve dividere la lista con Kit Marlowe – ma mettiamola così: nel 2093 Shakespeare si prenderà la sua rivincita.

Per ora, la pagina si trova qui.

Mag 25, 2016 - libri, libri e libri, Shakespeare Year    Commenti disabilitati su La Memoria di Shakespeare

La Memoria di Shakespeare

BorgesLa memoria de Shakespeare (2004)Tutto è successo per via di Ad Alta Voce.

Il tema era “Il potere dei ricordi” – e non avete idea di quanto ci prenderemmo a botte in testa quando si tratta di tirar fuori letture per quei temi che a suo tempo c’erano parsi tanto simpatici… – ed ero a caccia.

Così ho pescato La Storia Più Bella Del Mondo di Kipling, il Sonetto 81 per l’Angolo Shakespeariano, il finale de La Coppa d’Oro di Steinbeck, il pezzo sulle Cose Che Non Sappiamo Più dall’Annibale di Granzotto, un frammento del Sipario di Kundera…

E poi, cerchicchiando qualcos’altro, ho scoperto l’esistenza di un racconto di Borges chiamato “La Memoria di Shakespeare”.  Ora, la borgesiana, tra noi, è M. – ma, contando sulla sua indulgenza in considerazione dell’argomento, mi sono messa a caccia.

E ho fatto una scoperta.Borges2

Avete presente l’opera omnia di Borges pubblicata dai Meridiani? Ebbene, io non so se la MdS sia l’unico racconto che manca – ma di sicuro manca. In originale dava il titolo a una raccolta di quattro racconti. Nei Meridiani gli altri tre compaiono sotto il titolo “Tre Racconti” – e la MdS non c’è. Né c’è da sola, o in altre raccolte… non c’è proprio. Si trova altrove, ho scoperto – per esempio qui,* – ma siccome mi riduco sempre all’ultimo momento, era troppo tardi per procurarsi un’altra traduzione in città… Così mi sono messa a caccia, e ho trovato una traduzione inglese.

Ed è così che ho fatto la conoscenza di questa che, prima facie, sembrerebbe un’avventura un po’ à la Kipling: il grigio accademico che, per un caso bizzarro, si ritrova in possesso, appunto, della memoria di Shakespeare. Non le memorie – ma la memoria: i ricordi, i pensieri, le idee di William Shakespeare da Stratford. La più straordinaria circostranza che possa capitare a uno studioso, giusto? Chi non vorrebbe? Hermann Soergel non dà retta ai criptici avvertimenti del donatore: accetta e aspetta. E questa memoria estranea e antica non gli cade in testa tutta in una volta, ma sale lentamente, come una marea irregolare… fino a farsi terrificante – e pericolosa.

BorgesPoi Borges è Borges, e la storia di per sé lascia il centro del palcoscenico a una serie di affascinanti speculazioni su Shakespeare – come se l’autore si fosse servito della forma narrativa per dar voce a qualche idea non proprio accademica in proposito… Sia chiaro, la storia funziona, inizia, cresce, s’impenna e finisce aperta, piena di promesse inquietanti e di domande su arte, memoria, identità… Però è chiaro che non è l’intreccio a contare davvero. È lo Shakespeare immaginato, l’adesione all’uomo misterioso nascosto dietro il Canone, il gioco intellettuale. Io di Borges non ho letto moltissimo – anche se ho tutta l’intenzione di recuperare – e mi si dice che questa sia la cifra di molta della sua narrativa.

Quel che è certo è che il suo Shakespeare è un profilo nell’ombra. Emerge per luccichii e sussurri – un particolare biografico, un colore, una suggestione. Magnifica idea, magnifica esecuzione, fascinanting stuff.

 

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* Inrealtà Il “Libro di Sabbia” è un’altra raccolta – ma questa edizione contiene anche i quattro racconti de la MdS, seppur sotto l’indicazione “Ultimi Racconti”.

 

 

Mag 11, 2016 - Shakespeare Year, Storia&storie, teatro    Commenti disabilitati su La Dura Vita del Teatrante Elisabettiano

La Dura Vita del Teatrante Elisabettiano

fortune.jpgOra, se c’è una forma artistica per cui l’Inghilterra elisabettiana è più nota di altre, è senz’altro il teatro, il che è quasi paradossale quando si considera la posizione di teatro e teatranti nella società dell’epoca.

Da un lato vigeva un ostracismo sociale alquanto rigido: il teatro era considerato immorale, e teoricamente confinato al di fuori dagli spazi cittadini. La maggior parte degli attori e autori abitava fuori dalle mura di Londra propriamente detta e, se le locande e i palazzi che ospitavano le rappresentazioni si trovavano spesso dentro la città, i primi teatri costruiti appositamente per l’uso delle compagnie (come il Theatre, il Curtain e il Rose) sorsero a Norton Folgate o a Southwark, dove erano facilmente raggiungibili e, al tempo stesso, fuori dalla giurisdizione delle autorità cittadine londinesi. Non aiutava particolarmente che il teatro fosse spesso connesso ad altre attività ritenute fonte di corruzione: Philip Henslowe, uno dei più celebri impresari del tempo, si occupava abbondantemente di combattimenti di orsi e galli, e possedeva diversi bordelli. Tra le varie carriere connesse con il teatro, quella di attore seguiva le regole dell’apprendistato, pur senza averne la struttura formale: i ragazzi cominciavano giovanissimi, nelle compagnie di bambini, oppure sotto la guida di un attore adulto, svolgendo mansioni di servi di scena e interpretando comparse e ruoli femminili. L’idea che un bambini e adolescenti apparissero in scena in abiti da donna era considerata malsana e, tanto per cambiare, immorale.

Si tende a credere che attori e scrittori fossero gente violenta e sregolata, ma almeno questo è un globe.jpgpregiudizio che può essere ridimensionato. È vero che Ben Jonson e Thomas Watson uccisero un uomo ciascuno, che Marlowe morì accoltellato in circostanze dubbie, che Greene fu più volte arrestato per rissa, ma stiamo parlando di un’epoca violenta e con un tasso di criminalità stratosferico: francamente non credo che i playwrights fossero molto più sregolati di molti loro contemporanei – di certo erano personaggi pubblici, e mai in una luce favorevole.

Tutto considerato, non fa meraviglia che scrivere per il teatro fosse considerata una degradazione per un uomo di lettere – ciò che non impedì a tutta una generazione di poeti usciti da Oxford e Cambridge di darsi alla drammaturgia con straordinario successo. Era una carriera malcerta nella migliore delle ipotesi, tuttavia: i diritti d’autore non esistevano, e lo scrittore perdeva qualsiasi controllo sulla sua opera nel momento in cui la vendeva a una compagnia – di solito per cifre non astronomiche. Per il Tamerlano, Marlowe ricevette quattro sterline e mezzo all’acquisto, e poi i proventi della seconda giornata (poco meno di quattro sterline). Era una volta e mezzo l’appannaggio annuo di un parroco di campagna, ma la scala di valutazione cambia quando si considera che la Compagnia dell’Ammiraglio, che comprò il Tamerlano, poteva spendere quattro o cinque sterline per un singolo costume femminile. Inoltre i guadagni restavano sempre aleatori, perché il gusto della folla era mutevole, e il Master of Revels, il funzionario regio preposto alla supervisione degl’intrattenimenti, il Lord Mayor e il Privy Council potevano chiudere i teatri in ogni momento per qualsiasi motivo di ordine pubblico. Durante queste sospensioni, che potevano durare mesi, le compagnie, pur relativamente tutelate dal fatto di “appartenere” al loro mecenate (di cui gli attori ufficialmente portavano la livrea), non avevano altra scelta che andarsene a recitare nelle provincie. Quel che è certo è che in questi periodi non compravano testi nuovi, e gli autori erano lasciati ad arrangiarsi come meglio potevano.

inn-yard.jpgSi può dire che nessun playwright dell’epoca vivesse di solo teatro. Tutti scrivevano poesie, saggi, libelli e qualsiasi cosa potessero vendere o dedicare a qualche danaroso mecenate, e molti avevano una seconda carriera: Shakespeare e Ben Jonson recitavano nelle rispettive compagnie, Thomas Kyd faceva lo scrivano, Robert Greene era un libellista particolarmente velenoso (e comunque morì in miseria), Beaumont era avvocato (oltre che ricco di famiglia e poi sposato a una donna ricca), Marlowe, Watson, Nashe e altri lavoravano più o meno saltuariamente per il servizio segreto di Sir Francis Walsingham. Nel complesso, arricchirsi era più facile per un attore che per un autore: Edward Alleyn, stella delle scene londinesi per decenni, morì ricchissimo dopo avere fondato persino un collegio. Shakespeare si arricchì perché era azionista della sua compagnia – e perché aveva un solido senso degli affari.

Dall’altra parte c’era però la frenetica passione che tutta Londra dedicava al teatro, a partire dalla Regina fino ai popolani che pagavano un penny per assistere in piedi, mangiando salsicce e ululando il swan.jpgloro favore o sfavore. Era di moda tra i grandi cortigiani finanziare una compagnia che portava il loro nome (The Admiral’s Men, The Chamberlain’s Men…), ed Elisabetta stessa portò l’uso nella famiglia reale (The Queen’s Men). Va detto che l’augusta protezione non si estendeva praticamente mai all’autore, cui in compenso non era difficile crearsi nemici potenti scrivendo le cose sbagliate. La Grande Bess condivideva il gusto non eccessivamente raffinato dei suoi sudditi: a teatro le piaceva ridere, e Tarlton, il buffone della sua compagnia personale, era celebre per la quantità di scurrili licenze che poteva prendersi davanti alla sua sovrana. Le cosiddette burle (improvvisazioni in prosa, generalmente trivialucce anzichenò) erano moneta corrente persino nelle tragedie più truci o e nei drammi più lacrimevoli. Quando volle che il suo Tamerlano fosse rappresentato senza burle, Marlowe creò sensazione; il fatto che Ned Alleyn, il giovane ma già celebre primattore dell’Ammiraglio, fosse disposto a rinunciare a un elemento di sicura presa sul pubblico la dice lunga sull’impatto del genio di Marlowe e sull’acume di Alleyn.

Resta il fatto che, se avesse voluto, Ned Alleyn avrebbe potuto ignorare del tutto le intenzioni di Marlowe: aveva comprato la tragedia e poteva farne quello che voleva; per di più, i teatri pullulavano sempre di copisti che cercavano di trascrivere quello che potevano del testo, che veniva poi stampato in versioni fantasiose, e venduto senza che l’autore potesse metterci becco o riceverne un singolo penny.

Insomma, considerando l’ostracismo sociale, i guadagni moderati e non troppo sicuri, lo scarso riconoscimento e le molte difficoltà, viene da chiedersi che cosa motivasse le schiere di autori teatrali tra il tardo Cinquecento e il primo Seicento. Se dovessi fare un’ipotesi direi sete di gloria – per effimera che fosse – e l’eccitazione della vita teatrale, e un buon livello di pragmatismo… Ma di certo doveva esserci anche una sincera passione per la loro arte e per l’incandescenza artistica e umana di un teatro in fieri.

Apr 22, 2016 - Shakespeare Year    Commenti disabilitati su Quattrocento Anni Orsono

Quattrocento Anni Orsono

ShakespeareathomeQuattrocento anni orsono come adesso, a Stratford-upon-Avon, si può presumere che William Shakespeare non stesse poi troppo bene. Possiamo immaginare che fosse a letto (nel secondo miglior letto – quello del testamento, perché magari il migliore era riservato agli ospiti di riguardo?), circondato dalla famiglia… Anne, la moglie che gli storici dipingono alternativamente come una bisbetica e una creatura assai paziente – e probabilmente era una combinazione delle due cose. E poi la figlia prediletta Susanna, col marito medico John Hall. E Judith, l’illetterata e malmaritata gemella del defunto Hamnet. E magari la sorella Joan, vedova da appena una settimana.

Erano le ultime ore del Bardo, che sarebbe morto il giorno dopo – solo che all’epoca non era affatto il Bardo. A Stratford era Mr. Shakespeare di New Place, un mercante di granaglie che, dopo aver fatto soldi a Londra in quei riprovevoli teatri, era tornato a casa e si era sistemato per bene con il commercio e l’usura. A Londra era un autore teatrale fuori moda, che non scriveva più da qualche anno e i cui lavori stavano scivolando fuori dal repertorio delle compagnie. shakespeare_memorial

Il funerale di Shakespeare, un paio di giorni più tardi, sarebbe stato quello di un eminente e danaroso cittadino, non quello di un poeta. È facile immaginare i bravi paesani di Stratford che guardano di storto i pochi amici venuti da Londra, cui per testamento andavano degli anelli funebri. Tchah! Teatranti…

E sia chiaro, i King’s Men, gli ex Uomini del Ciambellano, prosperavano ancora sotto la guida di Dick Burbage e il reale patrocinio – ma i gusti erano cambiati. Jonson, Drayton, Fletcher&Beaumont e altri alfieri della commedia cittadina andavano per la maggiore, e le vendette di Webster e compagni stavano conquistando il successo. Shakespeare – come Marlowe, come Kyd, come Peele, come tanti Elisabettiani – cominciava a sembrare antiquato.

FirstFolioParadossalmente il First Folio del 1623, la costosissima edizione delle opere di Shakespeare, non ha più molto a che vedere con quel che si rappresenta nei teatri. Un’opera del genere è destinata a un pubblico colto e ricco, e segna il passaggio di Histories, Comedies e Tragedies dall’incandescenza chiassosa del teatro che si rappresenta all’empireo del teatro che si legge.

Di lì a un paio di decenni, poi, arriveranno i Puritani a chiudere i teatri per una ventina d’anni… E a Restaurazione avvenuta, i nuovi poeti e il nuovo pubblico troveranno Shakespeare un po’ duro da masticare. Siamo nel tardo Seicento quando gente come Nahum Tate e William Davenant (che di Shakespeare sosteneva di essere figlio naturale) comincia a sfornare versioni gaie e musicali delle tragedie più cupe, e nel primo Settecento quando Alexander Pope rivede, corregge, aggiusta, leviga e cassa…

Quando a metà del secolo l’attore David Garrick crea quasi da solo il culto del Bardo e del Cigno dell’Avon, è ormai chiaro che il vero Will, truce, sanguinoso e scurrile, è un po’ tanto per i suoi adoratori. Per secoli quel che si adorerà e rappresenterà sarà uno Shakespeare ingentilito, semidivinizzato, idealizzato, sanitizzato, falsificato… *Sil

Bisognerà aspettare il Novecento per riavere l’originale in tutta la sua robusta elisabettianità. Ed è una storia meravigliosa, se ci pensate. Quattrocento anni di ritocchi, mani di bianco, bowdlerizzazioni e fraintendimenti – epperò Will è riemerso nonostante tutto, e noi siamo ancora qui in meravigliata adorazione, siamo ancora qui a leggere, studiare, mettere in scena e sullo schermo, reinterpretare, farci domande…

Chissà se è questo che Will aveva in mente – ma per sé, non per il Bel Giovane – mentre scriveva di occhi non ancor nati e lingue future nel Sonetto 81… Chissà se ci pensava mentre giaceva nel suo secondo miglior letto, proprio quattrocento anni fa.

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* E dal secondo Ottocento arriveranno anche Delia Bacon, Ziegler, Looney e compagnia a dubitare che il figlio del guantaio di Stratford possa avere scritto tutto il suo prodigioso canone.

L’Inglese di Shakespeare

ShakespearemainAvete badato alla settimana che è? La settimana più shakespeariana di tutto l’anno shakespeariano…

Venerdì sarà il quattrocentesimo anniversario della morte del Bardo, e quindi non possiamo lasciarci sfuggire la commemorazione, giusto?

E allora parliamo un po’ di lui. Parliamo, per dire, della sua lingua. Insieme all’assenza di libri nel testamento, la lingua è uno degli argomenti prediletti degli anti-stratfordiani. Come poteva il figlio del guantaio di Stratford, con la sua sommaria educazione formale e in un’epoca priva di dizionari, usare con tanta disinvoltura, eleganza e vivacità quasi diciottomila parole distribuite tra i più vari campi della conoscenza e appartenenti a tutti gli ambiti sociali?

Una cosa è innegabile: la lingua di Shakespeare è straordinariamente ricca e vivida, e non si tratta solo del vasto vocabolario. In un’epoca in cui le convenzioni grammaticali erano ancora fluide, il nostro poeta modella la lingua come un filo d’oro, traendone ogni genere di effetti – e contribuendo non poco a codificarla.Buying and selling in Old St Paul's Cathedral

L’Inglese elisabettiano, all’epoca bestia piuttosto nuova dal punto di vista letterario, era strutturato in modo vago, con poca differenza tra scritto e parlato e la più sovrana incuranza per spelling e punteggiatura.  Questo consentiva grande libertà espressiva, perché la lingua scritta rifletteva l’immediatezza e vivacità del parlato – e dubito che qualcuno si preoccupasse delle difficoltà disseminate in ogni testo a beneficio dei posteri.

D’altro canto, il secondo Cinquecento era anche un’epoca di scoperte, aperture, guerre e commerci. Gli eruditi venivano a contatto con nuove idee, e la gente comune, dopo secoli di insularità, si trovava a convivere con stranieri provenienti da ogni parte del Continente.  L’Inglese all’epoca era limitato per il fatto di non essere mai stato davvero un medium letterario, ma essendo una lingua duttile e ferocemente acquisitiva (secondo James Nicol, si nasconde nei vicoli, assalta le altre lingue e scappa con le parole spicciole che trova loro in tasca), di fronte alla necessità di esprimere nuove idee faceva due cose: assorbiva parole altrui, oppure ne creava di nuove. Da un lato, si stima che tra il 1500 e il 1650 l’Inglese abbia acquisito più di trentamila parole dal Latino, dal Greco e dalle lingue romanze e germaniche; dall’altro c’erano poeti pronti a creare tutti i neologismi che servivano – come Spencer, Sidney, Marlowe, il nostro Shakespeare e molti altri.

Shakespeare-and-his-Friends-xx-John-FaedPer un poeta doveva essere un’epoca entusiasmante: una lingua “nuova” da costruire, parole da coniare, idee da tradurre, forme e strutture da creare… E Shakespeare aveva in misura particolare il dono di disciplinare questa materia così fluida e incandescente in forme capaci non solo di conservarne l’immediatezza, ma di trarne sempre il miglior effetto possibile.

A cominciare dal verso. Anche se il vero iniziatore del blank verse (versi di cinque piedi ciascuno – da-DUM, da-DUM, da-DUM, da-DUM, da-DUM – senza rima) è Kit Marlowe, fu Shakespeare a perfezionarne l’uso.  Per esempio ne variava i ritmi per riprodurre lo stato emotivo dei personaggi (quando Macbeth diventa incoerente, i suoi versi si sbilanciano), alternava versi e prosa come mezzo di caratterizzazione (i personaggi di nobile nascita tendono a esprimersi in versi, ma quando deve arringare la folla, Bruto ricorre alla prosa), recuperava la rima per i momenti giocosi, per scandire le scene o per sottolineare particolari passaggi.

Quanto alla creazione di parole ed espressioni, tradizione vuole che, tra sostantivi  usati come verbi, verbi usati come aggettivi, parole composte e creazioni del tutto originali, Will potesse chiamare sue più di duemila parole – ma forse il numero va ridimensionato. Questi conteggi si devono a filologi vittoriani in piena bardolatria: individuavano una parola e non si disperavano più di tanto a cercare occorrenze precedenti in altri autori, come invece si è fatto in anni più recenti. Ma in fondo, importa davvero il numero?Tiring-house writing

Io direi di no. Quel che importa è che Will Shakespeare era un formidabile creatore di metafore, espressioni, parole e nomi – molti dei quali sono passati nell’uso comune e arrivati fino ai giorni nostri, sopravvivendo a tutti i sussulti di una lingua in continuo cambiamento. Nessun anglofono contemporaneo definirebbe un computer impallato dead as a doornail, o chiamerebbe un’esperienza frustrante a wild-goose chase; nessun autore televisivo intitolerebbe un episodio Brave New World, nessuno sospirerebbe che la sua vecchia automobile  has seen better days; nessun genitore chiamerebbe una figlia Jessica o Miranda – se non fosse per Shakespeare.

Tutto questo, è vero, non risponde alla questione dell’identità dell’uomo che si firmava William Shakespeare, ma demolisce in parte l’obiezione di improbabilità mossa alla buona vecchia teoria secondo cui Shakespeare è Shakespeare.

Perché in realtà la Londra elisabettiana era il posto ideale per un uomo dalla mente pronta e dal buon orecchio in cerca d’ispirazione e di parole. A Londra poteva incontrare gente di tutte le provenienze, di tutte le occupazioni, di tutti gli strati sociali. E pescare informazioni miste assortite nelle taverne, al porto, nei mercati o sui banchi degli stampatori attorno a St. Paul. E assistere a processi, impiccagioni, parate, preparativi di guerra, recrudescenze di peste, tornei, combattimenti di orsi, uscite della corte, duelli nelle strade. E confrontarsi e collaborare con i migliori poeti e autori teatrali del suo tempo.

7d5658e0c481d86923667dcefe982633Cosa, quest’ultima, che potrebbe tra l’altro spiegare in parte l’aspetto patchwork dello stile, se proprio non vogliamo attribuirla a una capacità mimetica di adattare la lingua alle diverse necessità della scena. Oppure no…

E alla fin fine restiamo sempre con potenziale mistero: un teatrante semi-educato che usa un numero di parole quattro volte superiore a quello medio dei suoi contemporanei colti, un’eccentrica varietà di competenze e conoscenze e un corpus di opere tanto articolato da consentire tutte le ipotesi. Sarà una collaborazione segreta, una congiura del silenzio, un intrico di identità segrete? O forse uno straordinario poeta dall’immaginazione fervida e dal talento straripante in un tempo di incandescenza culturale – l’uomo che scrittori come Shaw e Chisholm ritraggono col taccuino sempre in mano, pronto a cogliere, distillare e riprodurre le voci e l’anima della sua epoca?

Feb 26, 2016 - Shakespeare Year, teatro    Commenti disabilitati su A Caccia di Shakespeare

A Caccia di Shakespeare

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E mi rendo conto che, alla fin fine, di Shakespeare ho letto parecchio e visto relativamente poco.

No, davvero. Facciamo due conti – e non in ordine cronologico, perché va’ a ricordarsi.

In teatro…

– Macbeth. Il mio primo Shakespeare, un sacco di anni fa – ma proprio un sacco. A Verona. Lavia e Guerritore.

– Amleto. Almeno due volte. A Verona e una produzione studentesca a Cardiff.

– La Bisbetica Domata. Again, due volte, entrambe al Teatro Romano di Verona. Melato & Branciaroli, magnifici, e un po’ di anni dopo Anna Galliena – meno magnifica.

– Romeo e Giulietta. In un bellissimo cortile a Verona, anni e anni fa.

– La Tempesta. Glauco Mauri al Romano. Spettacolo assolutamente magico.

– Antony and Cleopatra. Vanessa Regrave, superlativa.

– The Winter’s Tale. A Edimburgo. Non ricordo la compagnia, ma era una produzione stellare.

– Sogno di Una Notte di Mezza Estate. Almeno due volte – entrambe firmate Campogalliani.

– La Dodicesima Notte. Ancora Campogalliani. Incantevole.

E basta, credo – il che significa nove su trentotto… Davvero pochine. Teleshakespeare

Considerando anche cinema e televisione, posso aggiungere una certa quantità di Enrici, Riccardo III (più d’uno), Pene d’amor perdute, il Mercante di Venezia, Molto rumor per nulla, Othello (più d’uno) e Re Lear (più d’uno) – ma sono ancora decisamente indietro.

E così ho deciso di impiegare parte di questo anno shakespeariano colmando le lacune. Mi piacerebbe dire che vedrò tutto quel che mi manca su un palcoscenico. Mi piacerebbe dirlo. Potrei dirlo – potrei dire qualunque cosa – ma temo che non porterebbe a granché.

In Italia, ahimé, di Shakespeare si rappresenta proprio pochino, e sempre gli stessi titoli. Non credo di poterci contare granché. C’è sempre l’Inghilterra – e il Globe è nei miei piani, così come la Wanamaker Playhouse e Donmar Warehouse… Ma onestamente c’è un limite alla quantità di viaggi a Londra che posso aspettarmi da qui a dicembre. Ma never fear: ci sono sempre i dvd, la BBC e cose come Globe Player, Digital Theatre, National Theatre Live et caetera similia.

Riuscirò, da qui alla fine dell’anno, a vedere tutto lo Shakespeare che mi manca? In teoria non dovrebbe essere terribilmente complicato… Mettiamola così: farò del mio meglio per vederne più che posso. Vi farò sapere.

 

Feb 24, 2016 - elizabethana, Poesia, Shakespeare Year, Storia&storie    Commenti disabilitati su Ritratto d’Ignoto

Ritratto d’Ignoto

FairYouthSapete quale è – pur senza immagini – un ritratto d’ignoto, nel senso beffardo e triste – o forse invece triste e beffardo – che discutevamo qui? Il Bel Giovane dei Sonetti.

No, davvero. Provate a considerare cose come il Sonetto 55:

Né marmo né gli aurei monumenti
Di principi, vivran quanto i miei versi possenti,
Ma in questi brillerete di più vivo splendore
Che in un sasso sconciato dalle sozzure del Tempo.
Quando la Guerra rovinosa travolgerà le statue,
E le muraglie verranno sradicate nei tumulti,
Né la spada di Marte né i suoi fuochi veloci struggeranno
Il vivente monumento della vostra memoria.
Contro alla morte e contro ogni nemico oblio
Voi durerete, le vostre lodi troveranno luogo
Ancora agli occhi di quei posteri estremi
Che condurranno questo mondo al finale sfacelo.
Così, sin quando al Giudizio sorgerete in persona,
Voi qui vivrete, o abiterete negli sguardi degli amanti.

Oppure il Sonetto 81:

Sia ch’io viva a dettare il tuo epitaffio,
Sia che tu sopravviva mentre io marcirò in terra,
Non potrà morte di qui sradicar la tua memoria,
Pur quando ogni mio merito sarà dimenticato.
Di qui il tuo nome trarrà vita immortale,
Anche s’io debba, morto, non lasciar più ricordo,
La terra a me darà sol la fossa comune,
Mentre tu avrai tomba degli uomini negli occhi.
Tuo sepolcro saranno i miei versi soavi,
Che occhi non ancor nati leggeranno,
E le lingue future parleran del tuo essere,
Quando tutti che in questo mondo respirano saran morti,
Tu continuerai a vivere – tal virtù ha la mia penna –
Là dove l’alito vitale spira sulle bocche degli uomini!

Ed è chiaro che – con tutti i suoi discorsi di fosse comuni e nessun ricordo – il Poeta ha in mente l’immortalità dei suoi versi, più che quella del Bel Giovane, ma nonetheless…  Immaginate di essere giovani, di sentirvi promettere un’eternità destinata a gente non ancora nata, al di là dei guasti e delle distruzioni, fino all’orlo estremo del tempo. Mette i brividi, vero? A chi non girerebbe la testa? Chi non vorrebbe crederci…? Shakespearemain

No – d’accordo: non fino alla fine dei giorni, magari, ma doveva dare la stessa sensazione di un ritratto del pittore giusto. E invece… Quattrocento anni e moneta più tardi, il Poeta – o quanto meno l’autore – è uno dei nomi più celebri della storia della letteratura, e chi sia il Bel Giovane non lo sappiamo più. Non sappiamo granché nemmeno dei Sonetti, a dire il vero. Quando sono stati scritti di preciso? Per chi? In che ordine? Sono davvero una sequenza unica? Raccontano davvero la storia che hanno l’aria di raccontare? Quanto sono autobiografici? Chi sono i personaggi? Nel Poeta possiamo davvero cercare William Shakespeare da Stratford? E la Bruna Signora? Emilia Bassano? Mary Fitton? Rosa/Aline Daniel? E il Poeta Rivale? Marlowe? Chapman? Barnfield? Barnes? Non lo sappiamo. Non lo sappiamo più – o forse, nella più ottimistica delle ipotesi, non lo sappiamo ancora…

Ma in fondo a nessuno di loro Shakespeare/il Poeta aveva promesso l’immortalità. Al Bel Giovane sì – ma anche lui è sprofondato tra le pieghe di quel tempo da cui i Sonetti avrebbero dovuto difendere il suo nome. Henry Wriothesley, conte di Southampton? William Herbert, conte di Pembroke? Il misterioso giovane attore Willie Hughes? Chiunque fosse il bel ragazzo arrogante e sleale, i versi soavi – e anche quelli meno soavi – dei Sonetti sono un sepolcro senza nome.

Ritratto d’ignoto, indeed. Di un ignoto senza cuore e, alla fin fine, mediocre – capace di tradire il suo amico/amante/poeta in tutti i modi possibili… Non è un ritratto lusinghiero. Va detto che non lo è nemmeno l’autoritratto del poeta – se autoritratto è – e non dobbiamo prendere per buono tutto quel che dice la meravigliosa, irragionevole e occasionalmente lamentosa voce narrante – ma sono capaci di vendette lunghe e crudeli, questi poeti, vero?

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