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Set 22, 2010 - bizzarrie letterarie    Commenti disabilitati su Dipende

Dipende

Rgreene.jpgStoria, sacre scritture, agiografie e letteratura sono piene di gente che vive male e poi si pente in punto di morte, con smisurato tripudio in cielo e generale edificazione in terra. Centesime pecore e tutto il resto – fin qui nulla di particolarmente originale.

Robert Greene era una centesima pecora alquanto eccentrica. Dopo avere condotto una vita tale da apparire sregolata persino per gli standard piuttosto laschi della Londra elisabettiana, si pentì in punto di morte e, prima di lasciare le penne in un’indigestione di aringhe sott’aceto e vino del Reno, forse scrisse un libello chiamato Greene’s Groatsworth of Wit Bought With a Million of Repentance.

Un libello singolarmente velenoso, per essere l’ultimo belato di una Centesima Pecora, e francamente non saprei dire quanto si sia gioito in Paradiso: Greene, se davvero ha scritto il Groatsworth, avrebbe usato il suo ultimo inchiostro per esporre e censurare (sotto forma d’invito al pentimento) vizi e difetti di molti suoi contemporanei. Uno degli oggetti del livoroso zelo di Greene era Kit Marlowe, descritto come un ateo, un bestemmiatore e un corruttore di menti, più bisognoso di contrizione e perdono di chiunque altro. Meno pio e più bilioso era un attacco a un arrampicatore presuntuoso, un corvo in piume di pavone, i.e. un attore (gentaglia!) che osava scimmiottare l’arte poetica senza nemmeno possedere una L-A-U-R-E-A!!* Qualora i particolari non fossero stati sufficienti, pensò bene di rendere tutto più esplicito affermando che il Corvo si considerava il solo squassatore delle scene inglesi. Shake-scene, got it?

Non del tutto incomprensibilmente, quando Greene morì e lo stampatore Henry Chettle pubblicò il Groatsworth come opera postuma, Shakespeare non la prese bene. E neppure Marlowe, del resto – o forse no, e qui la cosa si fa interessante.

Pochi mesi dopo l’uscita del libello, Chettle, che era a sua volta un autore e un personaggio equivoco**, nonché fortemente sospettato di essere il vero autore del Groatsworth, si affrettò a spiegare, in una lamentosa e ruffianissima prefazione al suo Kind Heart’s Dream, che uno o due degli autori attaccati dal defunto Greene se l’erano presa con lui – ciò che non gli pareva del tutto giusto, ed era prontissimo a scusarsi con uno dei due, che nel frattempo aveva incontrato e imparato a stimare. L’altro non lo conosceva, né ci teneva a farlo. Sottintendendosi che questo secondo personaggio, se si riteneva offeso, poteva attaccarsi al traghetto sul Tamigi e fischiare in curva.

E qui cominciano i dubbi. Di sicuro a nessuno era piaciuto troppo farsi diffamare dal libellista misterioso, ma chi erano i due che avevano protestato abbastanza rumorosamente da spingere Chettle alle scuse pubbliche?

Marlowe è una risposta plausibile, perché era stato attaccato su un argomento che, se maneggiato con insufficiente cautela, all’epoca poteva condurre alla forca. Inoltre, Kit non era noto per la sua mitezza di carattere e proclività al perdono, e disponeva anche di qualche amico influenti. Shakespeare è meno ovvio. Che il corvo arrampicatore fosse lui è probabile, anche se all’epoca non era ancora un autore particolarmente celebre – certo era molto meno celebre di Marlowe, ma proprio per questo gli si adatta la taccia di parvenu della scena letteraria londinese. Quella di lupo in vesti d’attore (nell’originale Tyger in Player’s Hyde) sembra meno calzante, ma d’altra parte è una citazione dall’Enrico VI, e dobbiamo presumere che sia dov’è per ulteriore identificazione del bersaglio, o per qualche altra ragione più criptica che aveva senso per i lettori dell’epoca.***

Questo non significa necessariamente che sia stato lui a protestare: niente di quello che sappiamo di Shakespeare ci fa pensare che fosse un personaggio litigioso, probabilmente nel ’92 non disponeva ancora di connessioni personali con gente abbastanza influente da fare paura a Chettle, e comunque gli strali di Greene avevano colpito vari altri autori e poeti, in particolare l’irascibile Thomas Nashe e l’appena meno fiammeggiante George Peele. Tuttavia, supponiamo pure – come generalmente si fa – che i due protestatori fossero davvero Marlowe e Shakespeare: chi tra i due era meritevole di scuse, e chi il soggetto che Chettle non voleva nemmeno conoscere?

La risposta più diffusa è quella ovvia. Da un lato era prudente da parte di Chettle dissociarsi per quanto possibile da un bestemmiatore ateo; dall’altro, è difficile pensare che qualcuno potesse descrivere Kit come “tanto civile nei modi quanto eccellente nella sua professione”, o che “diverse persone pie” avessero “testimoniato la sua rettitudine”.

Però di recente ho letto una biografia di Marlowe che dava tutta un’altra lettura della spudorata captatio benevolentiae di Chettle: secondo M.J. Trow, quello la cui opinione non contava un bottone era il provinciale illetterato, il nuovo arrivato di nessun conto, l’attore**** che osava aspirare all’empireo dei poeti. Ma come si applica a Marlowe l’altra metà del disclaimer? Secondo Trow, con un misto di pura e semplice verità (l’eccellenza artistica) e abietta capitolazione di fronte alle giuste pressioni: non dimentichiamoci che stiamo parlando del giovanotto per cui, pochi anni prima, il Consiglio Privato della Regina aveva costretto un intero senato accademico a fare un passo indietro. Figurarsi un Chettle! Se traduciamo divers (persons) of worship come “persone degne di reverenza” invece che “persone pie” (e l’Inglese del tempo lo consente), l’interpretazione calza.

Secondo me ci sta bene anche l’ipotesi di un’ombra di sarcasmo: mi è facile immaginare Chettle che, verdino in viso, lacerato tra paura, umiliazione e furia, cerca il giusto tono per le sue scuse e le sue lodi. Meglio non gettarsi da sé dalla padella nella brace, ma l’adulazione insincera può diventare una satira molto sottile, di un genere a cui è difficile replicare senza rendersi lievemente ridicoli…

A parte le mie speculazioni, resta il fatto che l’argomentazione di Trow, per quanto eterodossa, sta in piedi abbastanza bene. La morale è la solita: non c’è (quasi) nulla che, una volta fatto ruotare, inclinato a 45 gradi e tinto di violetto, non possa essere visto in un altro modo. Oh, e magari procurarsi un biografo con una buona vena logica è un solido investimento per il futuro.

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* Greene, manco a dirlo, era laureatissimo. M.A. al St.John College di Cambridge.

** Equivoco è una coperta molto larga all’epoca. Qui nel senso di debitore insolvente e recidivo, inquilino a Marshalsea più di una volta, implicato in una faccenda di libelli politico-religiosi, probabilmente colpevole del Bad Quarto di Romeo e Giulietta… più la faccenda di Greene. Non proprio una cara persona.

*** C’è una teoria, neanche troppo campata in aria, secondo cui il Corvo sarebbe in realtà Ned Alleyn, all’epoca il grand’uomo dei teatri londinesi. Ecco, Ned Alleyn non sarebbe stato tipo da starsene zitto e quieto, ma difficilmente Chettle l’avrebbe degnato di una risposta, meno ancora di pubbliche scuse.

**** Quasi sinonimo di scarafaggio, nel contesto. D’altra parte, Greene era convinto che gli attori in generale (e Alleyn in particolare) lo avessero rovinato prendendosi il frutto dei suoi sforzi.

Nero, rosso, bianco e giallo

Rosso_Nero_Giallo_e_Bianco.pngRosso, nero, giallo e bianco. Nella sua biografia di Christopher Marlowe, Una Ellis-Fermor dice che non ci sono altri colori che questi quattro, in tutto il Tamerlano.

Naturalmente, la prima cosa a cui viene da pensare è l’assedio di Damasco. Il primo giorno Tamerlano usa una tenda e bandiere bianche, per significare che ci sarà clemenza per gli abitanti se la città si arrende. Il secondo giorno, tenda e bandiere diventano rosse: Damasco può ancora arrendersi e avere i suoi civili risparmiati, ma non i difensori. Dal terzo giorno in poi, tenda e stendardi neri: non ci sarà più quartiere per nessuno.

E poi bandiere rosse, bianche e nere, e sabbie gialle, e laghi neri di pece, e sangue in quantità (parliamo di una tragedia elisabettiana, dopo tutto), e oro, e colline innevate, e sole, e giaietto, e cavalli candidi… A parte una menzione di zaffiri (che però, secondo Ellis-Fermor, vuole in realtà riferirsi ai diamanti – neri nel tardo ‘500), “nulla indica che Marlowe non fosse daltonico a tutto lo spettro dei colori, con l’eccezione del rosso e del giallo.” Ma ovviamente non si tratta di daltonismo selettivo, bensì di una scelta deliberata.

Ora, scrivere una tragedia intera in uno schema di colori così ristretto richiede guts, perché non bisogna considerare solo i colori citati espressamente, ma anche quelli evocati: troppa insistenza sul cielo o sulle piane erbose, ed ecco che compaiono dell’azzurro e del verde e si finisce fuori tavolozza. Ma Kit Marlowe era un genio, non conosceva la modestia (né letteraria, né otherwise), e a 23 anni era molto padrone dei suoi mezzi – non ancora dei mezzi teatrali, magari, ma quelli poetici: bianco, nero, giallo e rosso, nient’altro.

Mi pare che sia stato Prosper Merimée a descrivere il Trovatore di Verdi come un impasto di oro, fiele e sangue: non posso fare a meno di pensare che la definizione si adatti perfettamente anche al Tamerlano, cromaticamente e non solo.

Mi domando se qualche regista abbia mai messo in scena Tamerlano tenendo conto di questi colori, e tendo a immaginare di sì. Sappiamo che il costume del primo Tamerlano, Ned Alleyn, era decorato di “merletti color rame”. E il rame è una sfumatura di rosso… chissà? Ma in realtà, nel ‘500 il concetto di regia non era quello odierno, ed è lecito dubitare. E tuttavia non è possibile che nessuno ci abbia mai pensato negli ultimi quattro secoli e qualcosa. Anche perché in Inghilterra Marlowe è ancora abbastanza rappresentato.

Ad ogni modo, l’effetto è stupefacente. Viene voglia di sperimentare: scegliere tre o quattro colori e usare solo quelli e le loro sfumature, in tutte le descrizioni, tutte le figure retoriche, tutta l’imagery… Hm. Meglio cominciare con un racconto.

Un racconto breve.

 

Ott 29, 2009 - libri, libri e libri    2 Comments

I libri altrui

Una volta, anni fa, ero seduta nella sala d’attesa della stazione ferroviaria di Nantes, aspettando una coincidenza particolarmente scomoda, ed ero immersa nella lettura di una biografia di Henri de La Rochejaquelein. Ero tanto presa, in effetti, da impiegare una vita ad accorgermi di qualcuno accovacciato sul pavimento a poca distanza dalle mie ginocchia, intento a frugare in una borsa sportiva. E frugare. E frugare. E frugare…

Alla fine, getto un’occhiatina surrettizia e vedo un ragazzo occhialuto, su per giù mio coetaneo, che finge di frugare nella sua borsa, ma di fatto cerca disperatamente di vedere che cosa la sottoscritta stia leggendo. Allora, con un gran sorriso, sollevo il libro in modo da mostrargli la copertina… lui, colto sul fatto, sobbalza, arrossisce, afferra la sua borsa aperta e scappa via correndo di traverso. Ma prima di scappare, getta uno sguardo al titolo. Dalla mia fila di sedie e da quella di fronte si leva un coro di risatine, e io torno alla mia lettura.

Fine dell’aneddoto.

Però, sapete? Il ragazzo francese non aveva nessun motivo di sobbalzare e scappare: anch’io non posso fare a meno di cercar di vedere che cosa legge il prossimo in treno, in aereoporto, nella sala d’aspetto del veterinario. E’ più forte di me. Mi giro senza parere, fingo di allacciarmi una scarpa, rischio di slogarmi i bulbi oculari, assumo interessanti sfumature di carminio quando vengo presa in castagna… Ieri, sull’aereo da Berlino, il mio vicino di sinistra leggeva un libro illustrato sulla caduta del Muro. E poi c’era una ragazza che leggeva Checov in Tedesco. Visto? Lo faccio tutto il tempo.

Curiosità? Sì e no. La tentazione di inquadrare una persona sulla base di ciò che legge è forte. E so benissimo che un singolo libro non è significativo, meno ancora in una situazione di passaggio… voglio dire, in viaggio a volte si leggono strane cose: i libri che abbiamo comprato per regalarli a qualcun altro, o l’unica cosa decente che abbiamo trovato al Duty Free, o il libriccino piccolo che stava nel bagaglio a mano, o un prestito di un compagno di viaggio… oppure no. Non è detto. Non è significativo. Eppure lo si fa. E si traggono conclusioni: il mio vicino di sinistra, che aveva l’età per ricordare il 1989, era venuto a Berlino per tutt’altre ragioni ma poi, camminando per la città e vedendo le installazioni in Alexanderplatz e le fotografie nei caffè, i ricordi sono riemersi. Vecchi telegiornali, titoloni concitati a cinque colonne, magari qualche telefonata agli amici tedeschi, Rostropovich che suona davanti al Muro… “Sciocchezze!”, si è detto più di una volta. Ma alla fine non ha resistito, e prima di imbarcarsi ha comprato il libro, e durante il viaggio… E via pindareggiando in questo modo.

Io, per la cronaca, stavo leggendo “A Dagger For Two”, un romanzo storico su Christopher Marlowe scritto negli Anni Sessanta. Libro di seconda mano, edizione tascabile un po’ logora… chissà che cosa ne ha dedotto di me. Perché ha guardato che cos’era, oh se ha guardato! E senza parere, ho voltato la copertina in modo che potesse leggere. Anche lui era della stessa tribù, dopo tutto. Come il ragazzo francese a Nantes, tanti anni fa. Quelli Che Guardano I Libri Altrui.

Kit o non Kit?

[Questa è solo una piccola nota di servizio, perché in realtà sono in città alla lezione dimostrativa di un corso di Danze di Società dell’Ottocento. Quindi, mentre leggete qui, immaginatemi mentre saltello leggiadramente a tempo di polka. O di quadriglia. O di danze scozzesi, ancora non lo so.]

Allora, il mio dubbio feroce, come da titolo del post, è se includere o meno Christopher Marlowe nella mia Fenomenologia dello Sbregaverze… Non il Marlowe reale, s’intende, ma la sua versione letteraria ad opera di Anthony Burgess. Sì, lo stesso Burgess di Arancia Meccanica, ma era un signore estremamente eclettico: romanziere, librettista, drammaturgo, compositore, filologo, giornalista, traduttore… che posso dire? Chapeau! Comunque, il suo ultimo romanzo è il meraviglioso A dead man in Deptford, che racconta appunto vita e morte di Marlowe.

Marlowe,Christopher01_small.jpgIn realtà, di libri su Marlowe ce n’è a bizzeffe. E’ un soggetto molto amato dagli autori anglosassoni, e in tutte le salse, dalla biografia pura e semplice, al giallo, alla pièce teatrale, al romanzo storico propriamente detto, fino a un’abbondante produzione di fantasy storico.

La cosa non dovrebbe meravigliare: anche senza il tramite di un’interpretazione letteraria qualsiasi, il personaggio è notevole di per sé. Figlio di un calzolaio, studente a Cambridge, Master of Arts, il più grande drammaturgo elisabettiano dopo Shakespeare (e suo precursore, visto che il blank verse è una creazione di Marlowe), poeta, spia, eretico, frequentatore di circoli filosofici sospetti, attaccabrighe, duellatore, parlatore incauto, morto a 29 anni in una rissa da taverna in circostanze mooooolto dubbie.

E’ il personaggio perfetto, con quel tanto di mistero e d’incertezza che consente infinite speculazioni*, e anche, prima facie, uno Sbregaverze perfetto.  

Ma… c’è un ma. Uno dei primi criteri che ho adottato nella scelta dei miei Sbregaverze è la marginalità del personaggio reale in vita. Kit Marlowe non è stato marginale, perbacco!** E’ stato un grande, celeberrimo scrittore, persino più celebre di Shakespeare, per diversi anni. La sua produzione è limitata perché è morto giovane,*** ma di sicuro è una figura maggiore nella storia della letteratura mondiale. E questo è il motivo fondamentale per cui, invece di essere stato pescato dall’oscurità, ricreato e portato in vita da un singolo autore come una versione dello Sbregaverze archetipico, appare in molteplici vesti, in molteplici opere, ad opera di molteplici autori.

Quindi, davvero non so, e la questione è metodologica: Kit è uno Sbregaverze? Probabile. Uno dei miei Sbregaverze? Probabilmente no. Resisterò alla tentazione di fare uno strappo ai miei accuratamente stabiliti criteri? La questione va ponderata.

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* C’è un’infinità di gente pronta a giurare che la rissa a Deptford fu soltanto una messa in scena, e che Kit, fuggito sul Continente, condusse una vita lunga e piena, scrivendo, tra l’altro, tutte le opere che noi attribuiamo a Shakespeare. La teoria è talmente bislacca che è affascinante. Una volta o l’altra, posterò in materia.

** Si capisce tanto che ho un debole per Kit?

*** Facendo due calcoli, se Shakespeare fosse morto a 29 anni, di suo avremmo soltanto le tre parti di Enrico VI, Riccardo III, e I Due Gentiluomini di Verona. E non è nemmeno detto. Sarebbe ugualmente Il Bardo? Ho i miei dubbi.

Ultima nota, e sono stufa di asterischi: il ritratto qui sopra è generalmente identificato come Marlowe, ma in realtà non ci sono prove a sostegno, se non la coincidenza dell’età del soggetto, e il fatto che sia stato ritrovato a Corpus Christi College. Pura speculazione. Comunque, Marlowe avrebbe potuto somigliare a questo giovanotto…

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