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Nov 17, 2014 - Shakeloviana    Commenti disabilitati su Shakeloviana: Tales of the Mermaid Inn

Shakeloviana: Tales of the Mermaid Inn

Alfred Noyes (1880–1958), English poetAlfred Noyes era uno di quegli autori inglesi a cavallo tra Otto e Novecento – quella gente prolifica e versatile, che scriveva un sacco in un sacco di generi. Poeta, romanziere (di fantascienza), narratore, saggista, polemista, Noyes rimase celebre più che altro per i suoi poemi narrativi, tra tutti il melodrammatico The Highwayman.

A noi, tuttavia, interessa di più la raccolta Tales of the Mermaid Inn, datata 1913. È una faccenda in versi (pentameti giambici e altre cose), al cui narratore capita quello che tutti vorremmo ci capitasse…

Oh, d’accordo: quello che io vorrei tanto mi capitasse. Mentre passeggia per Londra, perso in un umor storico-sentimental-letterario, il nostro narratore si ritrova spedito indietro nel tempo – agli anni Novanta del Cinquecento, nonché cameriere alla Taverna della Sirena. E la Sirena è ben frequentata: Shakespeare, Marlowe, Ben Jonson, Thomas Nashe, Raleigh…

Così il nostro serve birra e pasticci di carne ai più bei nomi del teatro elisabettiano, e li ascolta disquisire e raccontare in versi, scambiarsi canzoni e comporre à l’impromptu. C’è Walter Raleigh che racconta storie di mare, ci sono Marlowe e Jonson che trasformano il giovane Shakespeare bracconiere in una specie di Robin Hood, c’è un controtestamento assai meno bilioso lasciato dal defunto Robert Greene, c’è il puritano Richard Bame che origlia le stravaganze di Marlowe, c’è uno sconvolto Tom Nashe che di Marlowe racconta singhiozzando la morte…

Ed è chiaro che, tra i due festeggiati, Noyes ha una simpatia particolare per Marlowe, che ci presenta nella versione prometeica, tutto genio, fuoco e poesia – e persino bello come il sole. Benché dapprincipio non sembri, il povero Shakespeare è quasi un personaggio di contorno.The Mermaid Inn - artistic impression

Una volta di più, siamo pre-Hotson: quel che succede a Deptford è un delitto passionale di caratura non elevatissima (ma la colpa è tutta della ragazza dissoluta, fedifraga e bugiarda), e invece di Baines-la-spia ci ritroviamo Bame-il-puritano. Una volta o l’altra dovrò indagare per bene da dove saltino fuori questo spelling e questa persuasione religiosa… Ziegler, Preston-Peabody, e adesso Noyes: dovranno pur aver preso tutto ciò da qualche parte, giusto?

In conclusione: TotMI è una di quelle cose, come i libretti d’opera e i quadri di William Shakespeare Burton, che sono il frutto di una certa epoca, di un certo modo di romanticizzare la storia. Non mi sentirei di dire che la raccolta sia invecchiata benissimo – eppure la lettura è pittoresca e tutt’altro che sgradevole. Forse il merito è di una certa luce amarognola che stempera la nostalgia dorata per un’epoca incandescente, magnifica e pericolosa. Mentre prepara la scena come se fosse un fondale dipinto, Noyes ci strizza l’occhio: “Noi vogliamo immaginarcela così, questa Londra,” ha l’aria di dirci. “Ma ricordiamoci che così è qualcosa di pieno di ombre…”

Se volete dare un’occhiata, trovate TotMI in vari formati su Internet Archive.

Nov 10, 2014 - Shakeloviana    2 Comments

Shakeloviana: Il Lato Tagliente Della Morte

CookThe Slicing Edge of Death, di Judith Cook, è uno degli innumerevoli romanzi su Marlowe usciti nel 1993, a quattrocento anni dalla fatale rissa di Deptford… la britannica Cook, giornalista investigativa ed eccellente saggista, aveva una passione per il teatro elisabettiano, e aveva combinato le due cose in questo romanzo – il cui sottotitolo è, significativamente, Who killed Kit Marlowe?

Ora, non so che cosa vi aspettiate voi da un romanzo intitolato con una citazione da un autore, (con tanto di sottotitolo esplicativo, metti mai che sfugga il riferimento) e con il supposto ritratto dell’autore stesso in copertina… Io mi aspetto che l’autore stesso sia il protagonista – nel bene o nel male. Ebbene, nel caso di TSEOD è difficile a dirsi. Il Marlowe della Cook è un uomo sgradevole, insensibile fino alla crudeltà, preoccupato soltanto dei suoi piaceri e della sua fama, livoroso, avido, meschino, vendicativo e sempre ubriaco. A due terzi del libro, deve ancora mostrare un singolo tratto che lo riscatti, le sue opinioni sembrano più tasso alcolico che coraggio intellettuale, e della sua vena poetica tutti gli altri personaggi hanno l’aria di non pensare granché. E non è nemmeno un villain – non foss’altro che per mancanza della più pallida ombra di grandezza.

È chiaro come il giorno che a Ms Cook Marlowe non piace nemmeno un po’ – nemmeno abbastanza da renderlo davvero malvagio, o notevole in qualche modo. Qualcun altro accenna sporadicamente alla sua intelligenza, ma dobbiamo crederci sulla parola, perché non lo si vede comportarsi mai altro che stupidamente. Se leggessi questo libro senza sapere nient’altro di Christopher Marlowe, sarei disposta ad applaudire l’assassino promesso dal sottotitolo. A parte questo, tuttavia, con chi si suppone che m’identifichi in questo romanzo? Tutti (con l’eccezione di Robin Greene, che però si redime parzialmente prima di morire, e Lord Cecil, che ha l’attenuante della ragion di stato) vengono descritti come brave persone, ma gente di contorno. C’è un giovane attore fittizio che sembrerebbe dovere o poter essere il protagonista osservatore ma, quand’anche non fosse così sbiadito e bidimensionale com’è, i tre quarti della storia si svolgono fuori dal suo punto di vista…

Insomma, Judith Cook ha scritto un romanzo, ma si è dimenticata di equipaggiarlo di vari elementi fondamentali – come un personaggio con cui il lettore possa identificarsi e qualche redeeming quality per il protagonista nominale. Chiaramente, lei per prima non può soffrire il suo odioso Marlowe, e non sono davvero in grado di biasimarla – ma allora non posso fare a meno di domandarmi: perché disturbarsi a scrivere un libro su un personaggio del quale si ha una pessima opinione?

Ironicamente, il primo protagonista di Marlowe, Tamerlano il Grande, è un mostro di ambizione, crudeltà e arroganza, ma è ritratto con caratteri di grandezza che, se non lo giustificano, ce lo fanno tuttavia ammirare per pura sovrabbondanza vitale. Direi che il Marlowe di Cook è una specie di negazione di questo meccanismo, se non sospettassi qualcosa di diverso.

Ho tanto idea che, col quadricentenario in vista, qualche editore abbia considerato il curriculum di Ms Cook e le abbia proposto: perché, Judy, non provi a scrivermi un romanzo? Con la tua conoscenza del periodo e dei fatti, che ci vuole?

E in realtà ci sarebbe voluta un’ombra di… non dico di simpatia nei confronti del personaggio – ma magari sarebbe bastata un’ombra di antipatia profonda in meno?

Nov 7, 2014 - elizabethana, Storia&storie    Commenti disabilitati su (Quasi) Tutto Torna

(Quasi) Tutto Torna

John_Warbuton,_antiquarian,_circa_1750Se il post di mercoledì era un girino, quello di oggi è un uroburo, ed è tutto molto circolare – ma vediamo di cominciare da qualche parte.

Vi ricordate di John Warburton e della sua cuoca Betsy Baker? Stando a Warburton, Mrs. Baker bruciò nella stufa una collezione di manoscritti elisabettiani praticamente senza prezzo… Lei non lo sapeva né poteva saperlo, povera donna – ma, supponendo che la storia sia vera, ha fatto piangere generazioni di studiosi di cose elisabettiane…

Sempre che sia vera, sì – perché c’è che dubita dell’affidabilità di Warburton. Forse aveva lavorato d’immaginazione, prodotto una lista che era in parte wishful thinking e in parte spigolature dal Registro degli Stampatori – e poi qualcuno aveva cominciato a chiedere di vederla, questa collezione  di meraviglie senza prezzo. E allora, forse, in un momento à la Ireland*, il pover’uomo si era trovato nella necessità di una storia – una storia qualsiasi che della collezione giustificasse l’invisibilità…. Hence Mrs. Baker, la sua stufa e i pasticci di carne.

Non è del tutto implausibile – ma in fondo non lo è nemmeno il contrario. Va’ a sapere…

Ma supponendo che Warburton dicesse la verità, e che trecento anni orsono Betsy Baker abbia davvero acceso la stufa e foderato gli stampi con i fogli della collezione del suo padrone, tra le opere perdute c’è anche The Maiden’s Holiday, una commedia che, stando al solito Registro degli Stampatori, andrebbe attribuita a Christopher Marlowe e John Day.

E a dire il vero, non so voi, ma la mia reazione alla scoperta è stata piuttosto scettica. Kit Marlowe che scrive una commedia? In collaborazione con un uomo che risulta attivo a partire da sei anni dopo la sua (di Marlowe) morte? E anche supponendo che si trattasse di un rimaneggiamento più tardo anziché di una collaborazione, siamo sinceri: ce lo vedete Marlowe a scrivere una commedia chiamata “La Vacanza della Fanciulla”?

Ecco, sì. Appunto.

In realtà La registrazione del titolo è della metà del Seicento – e quindi abbastanza tarda da poter essere imprecisa, e l’attribuzione nella lista di Warburton – indipendentemente dall’autenticità della lista – difficilmente può basarsi su qualcosa che non sia il Registro stesso, per cui… John_Payne_Collier

Ma se noi siamo scettici, altre epoche lo erano di meno: a metà Ottocento, un curatore marloviano di nome Alexander Dyce si convinse di averne persino trovato un pezzo, della commedia in questione. Un dialoghetto in versi emerso, con un’annotazione in calce che diceva “Kitt Marlowe”, dalle carte dell’attore elisabettiano Edward Alleyn, che di Marlowe aveva interpretato i personaggi ed era probabilmente amico.

Evviva? Warburton vendicato? Hm, non saprei. Per prima cosa, il foglio in questione era stato scoperto da John Payne Collier, che era un notevole studioso ma, alas, anche un falsario di tre cotte. Non si riesce a guardare nessuna carta associata a JPC senza provare un brivido di dubbio. Il che forse, nel caso in questione, è anche wishful thinking, perché ad essere sinceri, il dialoghetto non è un granché. E sì, posso spingermi all’estremo di ammettere la possibilità che scrivere commedie non fosse il mestiere di Marlowe, ma resta il fatto che l’attribuzione di Dyce si basa su una fonte dubbia e un puro e semplice atto di fede.

E tuttavia… vi ricordate del play di Courtney, poi trasformato in opera? Benché all’epoca John Payne Collier fosse già stato abbondantemente sbugiardato, Courtney non esitò a includere nel suo testo un pezzo del dialoghetto – facendolo canterellare a Marlowe stesso mentre corteggia la protagonista femminile, battezzata proprio in base al pezzo in questione. Il compositore Bedford, nello scrivere il libretto, non vide ragione di eliminare l’aria che si ritrovava già verseggiata e pronta.

E vi dirò – va benissimo così, perché la disamina delle fonti non si fa su un palcoscenico – ma considerando che play e opera modellano la morte di Marlowe su una combinazione di errori di trascrizione e leggenda nera puritana, ecco che questa storia torna là dove era iniziata – con qualcosa di perduto, qualcosa di capito male, qualcosa di dubbio e qualcosa di (probabilmente) menzognero.

Clac! – e questo rumore era il serpente che chiude i denti attorno alla propria coda.

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* Se volete sapere chi era W.H. Ireland, scaricate l’e-libricino che trovate qui. A parte tutto il resto, è una gran bella storia.

Nov 5, 2014 - elizabethana, teatro    3 Comments

Zolfo, Incenso, Inchiostro

FaustusSe le teorie fossero rane, questo post sarebbe un girino.

Se non volete batraci per casa, chiamiamolo un rimuginamento per iscritto – a proposito del Doctor Faustus di Marlowe. Ora, vedete, il Faustus era popolarissimissimo. La Compagnia dell’Ammiraglio, il cui primattore Edward Alleyn aveva presumibilmente creato il ruolo, la rappresentò con gran profitto ventiré volte tra il 1594 e il 1597 – il che, considerando le lunghe e ripetute chiusure dei teatri in quel periodo, è una specie di record elisabettiano. Se diamo retta ad E. K. Chambers, le folle londinesi dell’ultimo decennio del Cinquecento erano disposte a spendere per questa storia più che per qualunque altra… D’altra parte, fin dal debutto, Faustus aveva mandato in terrorizzato visibilio il pubblico, con la sua combinazione di evocazioni diaboliche, teoria e scene comiche – conclusa da un finale di potenza sconvolgente. Prima di Marlowe, nessuno si era mai azzardato ad affrontare in questi termini questioni di anime vendute, inferno, paradiso, conoscenza e umanità…

Poi Marlowe fece la fine che sappiamo, e le sue opere gli sopravvissero con successo. Immagino che ne sarebbe stato soddisfatto. E forse si sarebbe divertito se avesse saputo che genere di leggende cominciò a germogliare abbastanza presto attorno al suo Faustus.

Nel 1632 William Prynne raccontò di un diavolo soprannumerario comparso in scena e… puf! – sparito in una nuvola di zolfo non appena gli attori cercarono di capire chi fosse l’intruso. Ora, di Prynne potremmo non preoccuparci nemmeno troppo: era un puritano accanito e ce l’aveva a morte con il teatro – e per di più nella prima metà del Seicento, in ambiente puritano, era assai di moda dipingere a tinte nigerrime il povero Kit e tutto quel che aveva a che fare con lui.

Tuttavia, Prynne non doveva essersi inventato completamente la storia. È probabile che l’avesse raccolta da qualche parte. Ed è vero che tra i capi d’accusa ai danni di Marlowe raccolti dallo spregevole Richard Baines c’era anche l’aver evocato diavoli nel bosco a Cambridge – ma dubito che la cosa fosse terribilmente risaputa. A quanto pare, piuttosto, fin dall’inizio girava la storia secondo cui il Faustus avrebbe contenuto veri incantesimi tratti da un vero grimorio…

Se Prynne aveva fatto succedere la sua apparizione durante una rappresentazione londinese, altre versioni della storia la volevano accaduta in provincia, durante una prova. A fine Seicento, il sempre pittoresco John Aubrey non si accontentava di dare la sua versione dell’incidente, ma ne faceva la causa del ritiro dalle scene di Alleyn. Faustusc

Insomma, la storia girava – e non posso fare a meno di immaginarla che nasce, si sussurra, si ricama, si abbellisce e si gonfia di bocca in bocca tra l’eccitabile pubblico londinese… Si parlava di diavoli per tutto il tempo, giusto? E gli attori vestiti di rosso apparivano e sparivano tra nuvole di fumo colorato, e quel Marlowe non era un bestemmiatore e un ateo?

Eppure (ed ecco che arriva il girino), mi chiedo se non ci fosse anche un altro motivo, più inconsapevole per il sorgere di queste storie… Perché è vero che Faustus, peccatore multiplo, superbo e venditore di anime, finisce esemplarmente punito all’inferno – ma non prima di avere detto e ascoltato una certa quantità di cose piuttosto incendiarie dal punto di vista teologico e religioso. Faustus ritiene la teologia tanto capziosa quanto inutile, vende la sua anima, interroga il diavolo per sapere com’è l’inferno, rifiuta varie possibilità di redenzione e, quando si pente, non trova la minima ombra di misericordia o perdono…

E quindi mi domando se il pubblico elisabettiano non sentisse un che di sulfureo in questa tragedia, e traducesse la percezione in apparizioni diaboliche, magia nera e spaventi vari.

Storie nate in reazione a una storia.

Si direbbe che Marlowe i diavoli li evocasse per davvero: quelli fittizi che il fittizio Faustus convocava in scena – e poi quelli metaforici creati nella mente degli spettatori.

 

 

Nov 3, 2014 - Shakeloviana    2 Comments

Shakeloviana: William

william1Dopo che, lunedì scorso, ho parlato dell’opera marloviana di Bedford, N. mi ha scritto segnalandomi qualcosa d’altro.

Anche questo post è qualcosa d’altro, visto che William, opera da camera del compositore svedese B. Tommy Andersson, non l’ho vista affatto – né l’ha vista N. Considerate tutto ciò… well, la segnalazione di una segnalazione. Non credo che sarà un post molto lungo.

Cominciamo col dire che siamo molto lontani da Bedford/Courtney: William è del 2006, su libretto originale (in Svedese) di Hakan Lindquist, e l’unica recensione che ho trovato descrive la musica come sostanzialmente post-moderna. Di sicuro la distribuzione, con un soprano, un tenore e ben sei baritoni, è tutt’altro che tradizionale – e mi vien da domandarmi come se la cavino con tutte quelle voci baritonali… Ma non divaghiamo, e concentriamoci sulla storia.william3

Il protagonista, come il titolo lascia intendere, è Shakespeare – ma Marlowe compare con una certa abbondanza. Dalla sinossi non è chiarissimissimo, ma si direbbe che William, non contento di un’amicizia artistica, sia innamorato del coetaneo più audace e più celebre, e lo segua dappertutto… Right, forse non è  proprio così, ma di sicuro il William di Andersson e Lindquist riesce ad essere nella Compagnia dell’Ammiraglio all’epoca di Tamerlano (anche se questo succede offstage), a Flushing – in tempo per assistere all’arresto di Marlowe come falsario – e anche a Deptford, dove succede quel che sappiamo.

Insomma, il meccanismo di fondo del libretto sembra ridursi nel piazzare Will a tutti i punti di svolta della vita di Kit. Se risulti ripetitivo, è difficile a dirsi senza avere letto. Di sicuro diversa dal consueto è l’idea di uno Shakespeare che corteggia Marlowe ai limiti dello stalking. Lo scenario che li vuole amanti è tutt’altro che inedito, ma di solito il corteggiatore/seduttore è Kit.

william2Enfin, l’opera è stata commissionata da Vadstena Akademien, una favolosa istituzione musicale svedese che ha sede in un castello e da un lato incoraggia e coltiva la produzione operistica contemporanea, mentre dall’altro recupera e rappresenta opere (immeritatamente*) dimenticate.

Credo che le fotografie che ho trovato si riferiscano proprio al debutto di William a Vadstena, nell’estate del 2006. Se è così, chapeau alla combinazione di scene minimaliste e bellissimi costumi period. Poi, se davvero si suppone che quello qui sopra sia Sir Francis Walsingham, è possibile che in Svezia si siano lasciati sfuggire qualche minuto, minutissimo particolare** – ma diciamo che son licenze artistiche, o quanto meno sospendiamo il giudizio in attesa di saperne/vederne/sentirne qualcosa di più.

Nel frattempo, thank you, N.

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* La mia teoria sulle opere dimenticate ve l’ho già detta – ma ammetto la possibilità di eccezioni.

** Nel 1592 – l’anno del fracas di Flushing – Sir Francis era, you know, morto da un paio d’anni. Se fosse stato ancora vivo, avrebbe avuto sessant’anni suonati. Se non avesse avuto sessant’anni suonati, è davvero difficile immaginare l’austero e perennemente nerovestito personaggio in questa tenuta elegante, modaiola e vistosetta. Forse le mie fonti confondono Sir Francis con l’assai più giovane cugino Thomas?

Ott 20, 2014 - Shakeloviana    2 Comments

Shakeloviana: Era Marlowe

WGZIt Was Marlowe – A Story Of The Secret Of Three Centuries, di Wilbur Gleason Zeigler, non è quel che si dice un bel romanzo – ma merita un post perché lo si può considerare il capostipite del marlovianesimo…

Per capirci, i Marloviani sono coloro che sostengono che Will-Shakespeare-Il-Figlio-Del-Guantaio non può, non può, ma proprio non può avere scritto le opere che gli si attribuiscono – e che sono invece farina del sacco di Christopher Marlowe.

Ma, obbietta la persona ragionevole, Marlowe è morto nel 1593: come ha scritto tutto quel che viene fra il giugno del ’93 e il 1616? Ecco, i Marloviani non credono affatto a tutta la faccenda di Deptford – e nel corso dei decenni hanno formulato una serie di teorie in tutta la gamma dall’improbabile al fantapolitico per spiegare la sopravvivenza del loro beniamino…

Ma WGZ merita un occhio di riguardo, perché è stato il primo ad avanzare l’ipotesi nel 1895, decenni prima che Leslie Hotson dissotterrasse dagli archivi dell’English Public Records Office i documenti dell’inchiesta sulla morte di Kit, o che si scoprisse la storia del rapidissimo regio perdono a benefico dell’omicida Frizer…

Ora, chiariamo un punto. Ho già detto che, da un punto di vista accademico, sono agnostica in questa controversia: non soffro di nessun furore iconoclastico ai danni del povero Will, e vi cito la domanda che Robert Brustein, in una sorta di monologo-poscritto al suo play The English Channel, mette in bocca allo spettro dell’attore elisabettiano Richard Burbage: Com’è che voi moderni vi sentite in dovere di credere che chiunque in Inghilterra abbia scritto le opere di Shakespeare – tranne Shakespeare?

Resta il fatto che, dal punto di vista narrativo, identità nascoste, cospirazioni, intrighi e autori fantasma tirano molto più di un uomo un tantino dull che prospera scrivendo meraviglie. E resta anche il fatto che l’inchiesta sulla morte di Marlowe come appare dai documenti ufficiali, è piena di buchi grandi come lo Yorkshire – persino secondo gli affascinanti standard elisabettiani…

Ma nessuno di questi due è il punto: come dicevo prima, nel 1895 Leslie Hotson non era nemmeno nato, e poi WGZ faceva sul serio – sul serissimo, e aveva dato alle sue cogitazioni la forma di un romanzo perché non si sentiva accademicamente qualificato per fare altrimenti.

All’epoca, dovete sapere, già si disquisiva ampiamente sulla scarsa attitudine di Will-Shakespeare-Il-Figlio-Del-Guantaio al ruolo di Bardo, e il nobile, coltissimo Francis Bacon era il possibile Vero Autore prediletto dagli scettici – capitanati dalla fascinosa e non equilibratissima omonima (ma non discendente, credo) Delia Bacon.

WGZ lesse, meditò e scoprì di non essere d’accordo. Come avrebbe potuto un uomo come Bacon non rivendicare il merito di queste opere immortali? In realtà questo non è il più solido degli argomenti, perché all’epoca scrivere teatro era cosa dal poco serio al vagamente disgraceful, e perché alla morte di Bacon, nel 1626, l’immortalità del canone shakespeariano, era ancora tutta da stabilire. Per quanto il First Folio fosse stato pubblicato nel 1623 (decisamente un bel colpo nel fluido ed effimero mondo teatrale del tempo) è verosimile che Bacon preferisse farsi ricordare per ben altro – ma sia come sia: WGZ non era convinto, e si mise a cercare un altro Vero Autore.

E, sulla base della sua personale passione e di un innegabile numero di parallelismi, somiglianze, echi e, diciamo così, prestiti, decise che solo un uomo poteva avere scritto le opere di Shakespeare: colui che, senza ombra di dubbio, aveva già scritto in precedenza le opere di Marlowe – ovvero Marlowe stesso. E se tradizione voleva che Marlowe fosse morto nel 1593, WGZ non aveva dubbi: la tradizione sbagliava di grosso. O almeno, poteva sbagliarsi di grosso.

In fondo, che cosa si sapeva della morte in questione? Sì, c’erano numerose fonti indipendenti a confermarla – dalla gente pia che si rallegrava per l’estinzione dell’esecrabile giovanotto, ai fellow poets che lamentavano la scomparsa del giovane genio – ma così contraddittorie! Chi parlava di una rissa da taverna, chi di un duello (il sempre pittoresco, sempre inaffidabile Aubrey voleva Kit ucciso da Ben Jonson nel 1598*), chi della peste…

Anche in quella remota e arcadica era, il 1895, era già chiaro come il sole che non c’è gioia più grande per un romanziere storico di un bel fascio di fonti lacunose&nebulose. Chi avrebbe potuto o voluto bacchettare un romanziere per avere scelto qualche dettaglio dal mucchio e combinato il tutto in una storia?

E così WGZ cucì insieme i (parzialmente inaccurati) nomi di Francis Frizer e Richard Bame**, la (parzialmente accurata) ambientazione in una taverna, una storia d’amore del tutto fittizia (e nemmeno troppo rilevante per la trama, ma bisogna pur far contente le lettrici), le infondate idee secondo cui Marlowe avrebbe recitato nelle sue stesse opere e sarebbe stato ucciso con la sua stessa spada, le sue teorie letterarie – e da tutto ciò cavò It Was MarloweItWasM

Non è una meraviglia, ad essere sinceri. A parte il fatto che Kit uccide un suo sosia invece di esserne assassinato e poi vive nascosto per cinque anni in un palazzo in rovina scrivendo come un matto, WGZ è quel genere di autore che sente la necessità di informarci almeno tre volte per pagina che gli occhi brillanti e la vasta fronte del suo eroe mostrano l’impronta del genio, e che la sua eroina è dotata di bellezza quasi trascendentale. E poi il linguaggio oscilla tra il turgido delle descrizioni e il legnosissimo pseudo-elisabettiano dei dialoghi. E poi non c’è un finale, le coincidenze e le improbabilità abbondano, la peste colpisce e uccide nel giro di un quarto d’ora, gli uomini portano parrucche incipriate, i personaggi si raccontano l’un l’altro l’uso dei tempi per capitoli interi*** e sul tutto aleggia una certa dose di Sindrome della Bambinaia Francese – quella condizione per cui i personaggi di un romanzo storico pensano come gente contemporanea all’autore, che oggidì è un peccato capitale, ma ai tempi di WGZ era solo un esantema non diagnosticato.

Yes, well… Tutt’altro che un capolavoro – e tuttavia ce ne occupiamo perché WGZ, con le sue scarse informazioni, con il suo complessivo fraintendimento della mentalità elisabettiana, e su premesse condizionate dalla bardolatria, coniò una teoria destinata a fare scuola. Praticamente il mito fondante del Marlovianesimo: un’interpretazione narrativa basata su informazioni incomplete, massicce dosi d’immaginazione e un atto di fede. 

Se mai vi pungesse vaghezza di dare un’occhiatina, lo trovate qui.

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* È del tutto vero che Ben Jonson uccise un uomo in duello, ma si trattava di un attore chiamato Gabriel Spencer. D’altronde è del tutto vero che Kit aveva una certa tendenza a ritrovarsi coinvolto in risse e duelli di strada – hence probabilmente la conclusione di Aubrey. E in effetti, volete mettere? Due drammaturghi che si scannano per strada… magari sulla giusta scansione di un pentametro giambico o sulla paternità di una tragedia? Uh… sarà meglio che la pianti qui, prima che questa storia cominci a piacermi troppo.

** Il personaggio di Bame – in realtà Richard Baines, tizio equivoco, accusatore (probabilmente prezzolato) di Marlowe – compare con lo stesso nome, seppure con diversa caratterizzazione, anche in Marlowe, dramma in versi di Josephine Preston Peabody, datato 1901. Si può sempre fare affidamente sull’assoluta inaffidabilità dello spelling elisabettiano, ma JPP condivide con WGZ anche l’idea che Marlowe calcasse le scene. Mi domando se avesse letto il romanzo…

*** Ma proprio capitoli interi in almeno un caso – un lungo dialogo tra Shakespeare, Peele, un avvocato fittizio e poi anche Marlowe, che è un trionfo del metodo Come Tu Ben Sai, Phillips

 

Ott 13, 2014 - Shakeloviana    2 Comments

Shakeloviana: Unauthorised History -The Killing

Abbiamo parlato di romanzi, di teatro, di cinema… oggi è il turno della radio.

radio drama 1The Killing è un radiodramma scritto da Michael Butt per BBC 4. Perché non so se vi stupirà scoprirlo, ma la BBC produce un sacco di radiodrammi, accuratamente suddivisi per genere, per durata, per target… Per esempio, ogni lunedì, mercoledì, giovedì e venerdì pomeriggio, alle due e un quarto, su BBC 4 è l’ora di Drama Afternoon, tre quarti d’ora di radiodramma di varia natura, a episodi oppure no, di ambientazione contemporanea o storica…

E nell’agosto del Dieci, è stata la volta di Kit Marlowe, e delle fumose circostanze della sua morte a Deptford. Butt ha strutturato la faccenda come se fosse un documentario su un caso criminale irrisolto. C’è un narratore, ci sono dei testimoni che vengono “riascoltati” da quello che potrebbe essere un giornalista d’inchiesta… dopotutto, questo è un documentario immaginario, giusto?

Giusto?…

Chiunque sia costui, lo ascoltiamo fare le sue domande a tutta la gente che era sul posto, che ha visto, che non ha visto, che sa o potrebbe o dovrebbe sapere qualcosa, che non sa nulla, ma può gettare luce sulla credibilità di qualcun altro…

C’è la confusa Mrs Bull, la padrona di casa. C’è il povero Tom Kyd, costretto sotto tortura a incriminare il suo amico. C’è l’allarmante, pericoloso Rob Poley. C’è Ingram Frizer, l’uomo che ha confessato il delitto per legittima difesa… Ma è chiaro che al narratore interessa poco quel che è finito sulle carte dell’inchiesta. È a caccia di qualcosa d’altro. Qualcosa di ben nascosto…BBCkm

Butt ha fatto le cose per bene. La storia è asciutta, il ritmo incalzante, i dialoghi molto efficaci – ma naturalmente questa è radio, e non è soltanto questione di scrittura. E siccome non è radio qualsiasi, ma la BBC, dove il radiodramma è quasi una religione, all’ottima scrittura si accosta una produzione stellare: interpreti intensi, dalle bellissime voci e dalla caratterizzazione sottile*; un’atmosfera sonora da tagliarsi con il coltello; tempi perfetti e silenzi densissimi. Usando nient’altro che svoci, suoni e tempi ben calibrati, Sasha Yevtushenko è riuscito a creare l’impressione di una londra in bianco e nero, nebbiosa e malsicura…

E poi c’è la sorpresa finale.

Ecco, che v’interessi o meno Marlowe, che vi piaccia il radiodramma o non ne abbiate mai ascoltato uno, questo The Killing ve lo consiglio vivissimamente – non foss’altro che come esempio di una storia raccontata assai bene. E se volete provare, lo trovate qui.

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* Nota di merito a Burn Gorman, il cui spiccio Poley trasuda minaccia da ogni sillaba – senza la minima ombra di gigioneria vocale.

 

Ott 6, 2014 - Shakeloviana    2 Comments

Shakeloviana: Inchiostro E Acciaio

Cover of "Ink and Steel: A Novel of the P...Che detto così suona molto come Zaffiro & Acciaio, n’est-ce pas? E invece è tutt’altro. È la prima parte della terza parte (che in realtà, cronologicamente, è la prima-prima parte) delle storie della Promethean Age di Elizabeth Bear.

Hm, mi rendo conto che non suona benissimo – ma il fatto è che è tutto vero. Vediamo un po’. Dopo avere introdotto nel secondo romanzo, Whiskey and Water, un Kit Marlowe reduce dall’inferno e assetato di vendetta, la signora Bear deve averci trovato gusto. Non sarò io a negare che il suo Kit sia un ottimo personaggio, e potete immaginare che sia con una certa soddisfazione che mi sono procurata i due volumi di The Stratford Man. il lungo prequel (orribile, orribile parola!) di ambientazione elisabettiana che ha per protagonisti – indovinate un po’? – Marlowe&Shakespeare.

Ora, rileggendo quel che avevo dedotto da Whiskey and Water sul passato post-mortem di Kit, posso solo formulare due ipotesi: a) non avevo capito un bottone; b) Elizabeth Bear ha saggiamente deciso di non lasciarsi condizionare troppo da quel che era più che sufficiente come backstory in W&W, ma forse avrebbe potuto soffocare una storia di respiro più ampio. E poi in realtà c’è anche l’ipotesi c), in base alla quale backstory e storia si congiungeranno per bene e annoderanno con il fiocchetto quando avrò letto tutto quanto The Stratford Man.

Per ora sono ferma a Ink and Steel, e mi è piaciuto davvero parecchio.

L’idea di fondo è che il Prometheus Club originario, una sorta di società segreta nata al fine di proteggere l’Inghilterra e la regina Bess con mezzi magici, si sia disgregato per rivalità miste assortite. A pagarne il prezzo sono stati prima Sir Francis Walsingham, che però nel 1593 non è poi così morto come tutti credono, e poi Kit Marlowe, poeta di punta del gruppo, maestro nel genere di magia che si pratica con le parole e il teatro. Ma Kit, invece di morire per davvero, viene rapito dalle fate, rimesso in piedi e cooptato in servizio semi-magico, come ufficiale di collegamento tra la fatata Annwn e Londra, dove però non può mai tornare per più di un paio di giorni se ha intenzione di vivere.

Al posto del non proprio defunto ma ormai inservibile Kit, i Walsingham e Burbage reclutano l’ingenuo William Shakespeare, che ha già un sacco di problemi per conto suo, e che dapprincipio non sa proprio dove mettere le mani – e che farà bene ad imparare in fretta…

Il resto è un’affascinante storia di intrighi, nostalgia, tradimenti, bugie, poesia, amore, amicizia e, naturalmente, magia. Il tutto è scritto assai bene, con dei dialoghi favolosi, ambientazioni costruite con incantevole, dettagliatissima cura, e dei personaggi estremamente convincenti – nel bene e nel male.

Sir Francis, Burbage, Robin Goodfellow, il malvagio e sorridente Baines, la regina Bess, la fata Morgana… ma soprattutto i due protagonisti. Shakespeare ha i suoi guai con una Anne Hathaway – che, finalmente e per una volta, non è né bisbetica né lamentosa e appiccicaticcia – con una salute traballante, con un compito che gli sembra inaffrontabile… almeno finché non ci si ritrova in mezzo. Kit è tormentato e pieno di nostalgia di casa, astuto ma capace di sconcertanti ingenuità, ha un filo di complesso del martire, è assai meno cinico di quanto gli piaccia pensare – e finisce sempre col pagare prezzi altissimi per qualsiasi cosa.

Adesso ci vorrà Hell and Earth – anche perché da qualche parte bisogna pur che ci sia un finale – ma fin qui andiamo più che bene.

Al solito, se siete incuriositi, Ink and Steel si trova su Amazon.

Ott 3, 2014 - elizabethana, teatro    Commenti disabilitati su I Lunedì Del D’Arco 2014: Shakespeare 450

I Lunedì Del D’Arco 2014: Shakespeare 450

WSVi avevo detto, forse nemmeno una volta sola, che i Sonettini erano in arrivo, giusto? La versione piccina de L’Uomo dei Sonetti, quella potata, quella provvisoria in vista della faccenda per intero… Ebbene sì – ottobre torna e i Lunedì rimena, e con i Lunedì arrivano i Sonettini – e, udite-udite, ad arrivare non sono soltanto loro…

Lunedì14E in particolare…

Lunedì14b

E per particolari sull’intera rassegna, potete scaricare qui il pieghevole in pdf.

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