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Mar 12, 2018 - angurie    Commenti disabilitati su Vocali

Vocali

Rimbaud_Voyelles_caricatureAvendo una speciale predilezione per l’uso che scrivendo si può fare di immagini, colori, e sinestesia, uno degli esercizi che tendo ad affibbiare agli allievi dei miei corsi di scrittura include la contemplazione di Voyelles, seguita dall’ordine (molto categorico) di cercare per ciascuna vocale un colore – e un’immagine. Tendono a saltar fuori cose interessanti: O blu come aperture di tubi da cui scorre il colore, O rosse come gocce di sangue, I rosse e pungenti, I gialle e taglienti, U viola profondo, U marroni e U color fucsia, I verdi, I bianche per gelo…

E poi è sempre interessante vedere la differenza tra gente uditiva e gente visiva, persone sinestetiche per natura e persone prese di sorpresa, associazioni per suono, associazioni per forma, associazioni istintive e inspiegate, corrispondenze ed eccezioni… A parte tutto il resto, l’esercizio è uno di quelli buoni per rompere il ghiaccio all’interno del gruppo, sciogliere l’atmosfera e stimolare la discussione – e si dimostra sempre tanto rivelatore quanto istruttivo.

Io di solito non gioco – se non per un paio di esempi, anche perché per me l’esercizio non sarebbe particolarmente impromptu. Tanto vale che racconti adesso che Voyelles mi ha sempre affascinata e, incontrandola mentre studiavo letteratura francese al Liceo, ho scoperto la mia propensione alla sinestesia. La cosa davvero grave, però, è che, a sedici anni, ne scrissi una mia versione – un sonetto bruttarello che non leggerete, né qui né altrove, né ora né mai. Però vi dico le mie associazioni.

La mia A è bianca per vele latine, cumulonembi, lenzuola stese al sole e la generale apertura e luminosità del suono. Voyelles

La E è verde, più chiara fin verso l’azzurro quando è aperta, e tanto più scura quanto più è chiusa.

La I è nera. Dorsi di rondine, principalmente. Ma anche note musicali e ferro battuto.

La O è gialla. Color limone quando è aperta, e su su, verso l’oro e l’arancione mano a mano che si chiude. Però all’opera un acuto in O è senz’altro rosso.

E la U è bruna – dal cioccolato al latte al caffè.

Pensandoci, mi rendo conto che si tratta principalmente di suono – una faccenda diversa, per esempio, dalla E di Rimbaud, bianca per via dell’emiro col turbante che illustrava la vocale sul suo abecedario di bambino.

E voi, o Lettori? Di che colore sono le vostre vocali? E perché?

Giochiamo, volete?

Apr 12, 2017 - scribblemania    4 Comments

Liste

Mail di A.M.:

Cos’è questa faccenda delle liste che ogni tanto tiri fuori? Serve davvero tenere delle liste? E liste di cosa? Io ho una lista di nomi ma non li uso mai, perché quando inizio una storia la prima cosa che so è come si chiamano i miei personaggi (che poi comunque hanno dei nomi molto normali, non sono mica Barbara Cartland che chiamava le sue eroine Shona o Drena*). Ma tornando alle liste: come le fai e a cosa dovrebbero servire?

listieAh, le liste! Mi piacciono tanto le liste, ne ho in ogni dove e di ogni genere. Qualcuna la uso, altre presumibilmente non le userò mai in vita mia, ma mi piacciono tanto lo stesso. Come le faccio? Inizio scegliendo un argomento ed elencando tutto quello che mi viene in mente in proposito, e poi aggiungo mano a mano che trovo pezzi nuovi per la collezione. A cosa servono? A parte il fatto che non sai mai quando ti serviranno un nome bulgaro, un aggettivo che rimi con abside e un’imprecazione medievale, ho constatato che scrivere elenchi stimola le associazioni di idee, produce bizzarri accostamenti, avvia storie potenziali, conduce in luoghi inaspettati, lega ricordi, sviluppa il gusto per le parole, i suoni, le immagini, le sinestesie… Poi a me piace anche solo rileggerle quando ne ritrovo una da qualche parte – ma questo è soggettivo.

Ora, mi piacerebbe molto dire che le mie liste sono sensate, metodiche, ordinate e facilmente consultabili, organizzate alfabeticamente e suddivise per genere… Mi piacerebbe davvero, ma il fatto è che le mie liste sono sparse tra quaderni, scatole, files in due diversi computer, annotazioni sul kindle, fogli volanti, segnalibri, notes, borsette – e credo di avere reso l’idea.

Nondimeno (a dimostrazione ulteriore del fatto che la gente tende a predicare meglio di quanto razzoli), ecco qualche suggerimento pratico in fatto di liste.

Quali liste tenere?List2

Well, dipende dal gusto personale e dal genere in cui si scrive – ma qui c’è qualche idea:

– Liste di nomi: titoli di coda dei film, necrologi, annuari scolastici, registri parrocchiali, organici delle orchestre, elenchi del telefono e cartelle antispam sono altrettante miniere. Vi ricordate quei giochini di cartone che, bagnandoli, si gonfiavano e diventavano tridimensionali? Per me alle volte funziona così: da un nome un personaggio, dal personaggio la storia…

– Liste di posti: i nomi geografici tendono ad essere belli ed evocativi, a suggerire colori, consistenze, odori… Anche i nomi di posti in cui non si è mai stati. Di Bruxelles non ho mai visto altro che l’aeroporto, ma non posso fare a meno d’immaginarla come una città grigia, ed è per via di una certa qualità fuligginosa del nome.

– Liste di parole: divise per funzione, per genere, per lingua, per ambito, per periodo storico oppure anche solo per suono, per associazioni, per connotazione. Non c’è davvero limite, ma una prima lista che consiglierei di tenere a chi non l’ha mai fatto prima è quella delle parole preferite. Tutti abbiamo delle parole preferite, per un motivo o per l’altro, per significato o per suono: tra le altre cose, un principio di elenco di questo genere tende ad essere significativo.

– Liste di libri: titoli, libri letti, libri che si vogliono leggere, libri amati, libri detestati, libri utili, libri che descrivono un luogo, un’epoca, un’atmosfera, un personaggio, libri scoperti per caso, libri fondamentali, libri iniziati per forza e finiti per incanto, libri deludenti, libri che avremmo scritto diversamente; generi e sottogeneri, personaggi, temi, trame, poetiche distorsioni della realtà, errori clamorosi, finali, promesse non mantenute, sorprese, idee…

– Liste di colori, di sfumature, di accostamenti, di strumenti musicali, di venti, di miti, di stoffe, di sinonimi, di sogni, di momenti particolari, di gesti, di date, di fiori, di scoperte scientifiche, di trattati, di musei, di strade, di imperi, di essenze, di luoghi immaginari…

Credete: una volta che avrete iniziato – sempre che sia davvero la vostra tazza di tè – il difficile è fermarsi.

listmakingCome organizzare le liste?

– Come dicevo sopra, io non organizzo. Sperimento, annoto, butto giù dove capita e dimentico qua e là. E’ pittoresco e dà adito all’occasionale sorpresa, ma non è spaventosamente comodo. Il consiglio che posso dare in proposito non è originalissimo: meglio tenere sempre un notes a portata di mano.

– Conosco gente che usa sistematicamente uno o più quaderni, oppure rubriche, schede o persino registri. Una cosa che mi è parsa sensata sono i raccoglitori ad anelli, che consentono di aggiungere più o meno indefinitamente. Il sistema più bello che abbia mai visto contemplava un raccoglitore ad anelli organizzato con quei divisori di cartoncino, ciacuno provvisto di tag sporgente e lista di liste sul dorso. Magnifico. Ho invidiato molto e cercato d’imitare – senza il minimo successo, naturalmente. Siccome non si può avere sempre al seguito il proprio Libro delle Liste, questa gente metodica e ordinata è anche provvista di notes e foglietti volanti, il cui contenuto poi trasferisce là dove va messo.

– I files elettronici hanno un sacco di vantaggi, primo tra tutti quello di poter ordinare alfabeticamente il contenuto delle liste. La consultazione e l’aggiornamento diventano molto più facili ed è possibile tenere tutto a portata di mouse in un’unica cartella. Anche qui ci vuole un certo grado di dedizione per riportare sistematicamente annotazioni e appunti volanti.

Che farne di preciso?List1

La prossima volta che avete un attacco di Blocco, quando vorrete un’idea per una storia o un personaggio, quando vi sarete scritti in un angolo, quando non saprete come iniziare, potrete tirar fuori le vostre liste e scorrerle in cerca di illuminazione. L’illuminazione tenderà ad arrivare, perché le liste sono mappe, reti, percorsi che la vostra mente ha messo da parte per più tardi, scegliendone gli elementi con molta meno serendipità di quanto possa sembrare.

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* Nota della Clarina: se è vero che Barbara Cartland ha scritto quasi settecento romanzi, immagino che a un certo punto abbia esaurito i nomi normali…

 

Le Gioie del Freewriting (Parte IV)

Parte quarta, per l’appunto – e, per come pare adesso, ultima. Un’ultima domanda di D. a proposito dei prompts di cui parlavamo lunedì :

E, volendoli usare, dove si trovano questi prompts?

promptsOh, ovunque. Soprattutto in Inglese, devo dire – ma la più superficiale delle ricerche su Google alla voce “writing prompts” produrrà un gazillione di risultati. Dopodiché non tutti sono altrettanto buoni e non tutti saranno adatti a voi. Alcuni saranno troppo dettagliati o specifici, alcuni troppo generici… Può volerci qualche tentativo per trovare quello che fa al caso vostro. Per dire, per errori e tentativi ho scoperto che mi annoio rapidamente di quelli costituiti da una sola parola – che trovo inconsistenti – e che, per quanto possano essere belli, di quelli visivi non so troppo bene che fare… Sì, perché esistono anche collezioni di prompts visivi – e se è così che funzionate, potete trovarne all’infinito su Google o su Pinterest. Ma personalmente, quando vedo un’immagine, sono per lo più indotta a raccontare la storia di cui può fare parte – e non è quel che cerco dalle sessioni di Freewriting. Dopodiché, se invece questo genere di cose è la vostra tazza di tè, go ahead: insisto nel dire che la pratica funziona tanto meglio quanto più la si adatta alle proprie esigenze. Io mi trovo molto bene con A Writer’s Book of Days, di Judy Reeves – che offre un sacco di idee, istruzioni e chiarimenti sul FW, ma soprattutto prompts giornalieri che riescono ad essere vari in natura ed argomento, stimolanti e abbastanza duttili da poter essere adattati a quel che si vuole. E un altro metodo che mi piace è quello di aprire il dizionario a caso e pescarne due parole – per esempio la prima della prima pagina e l’ultima della seconda… Fate voi. Due, non una: sono l’accostamento e le connessioni a produrre possibilità, idee ed eventuali bizzarrie…

E per finire – e ricapitolare – tre domande in una da parte di A.:

Funziona davvero? Funziona sempre? Funziona per tutti?Unicure

Per funzionare davvero, funziona eccome. Per una quantità di cose diverse, dalla prima stesura di una scena agli esperimenti su una voce, un colore o una modalità narrativa, dal riscaldamento prima di una sessione di scrittura, al superamento del blocco dello scrittore – quella cosa che tutti i manuali ci assicurano essere puramente mitologica, epperò capita. E con un’infintà di altri usi in mezzo, comprese – ne sono certa – un sacco di possibilità che non mi è mai capitato o venuto in mente di provare. At the very least, serve da esercizio quotidiano: Nulla dies sine linea, sapete. E il fatto che Plinio il Vecchio parlasse di pittura, non significa che il principio non si applichi anche alla scrittura. Che funzioni sempre, non è detto: non è come prendere un analgesico o infilare la monetina nel distributore automatico. Una cosa però è certa: quanto più lo si fa, tanto meglio funziona. Questione di allenamento, se volete. Quanto al funzionare per tutti… Che devo dire? Probabilmente no. Credo che nulla funzioni sempre per tutti in assoluto – e di certo non necessariamente nello stesso grado. Quello che posso dire è che, quando funziona, i benefici e i risultati sono tali che vale la pena di provarci. Di provarci con qualche impegno, e non una volta sola. Di sperimentare, adattare e cambiare e perseverare. Male di certo non vi farà.

Gen 16, 2017 - scrittura, Vitarelle e Rotelle    Commenti disabilitati su Le Gioie del Freewriting (Parte III)

Le Gioie del Freewriting (Parte III)

E niente, questa faccenda è partita per essere un post – e invece sta diventando una serie intera… Oggi continuiamo con le domande di D., ma prevedo almeno un altro post successivo.

Allora: eravamo rimasti al dilemma scrivere a mano/scrivere al computer, giusto? Ebbene…

Ma bisogna farlo proprio tutti i giorni?

everydayEh, sì. Per una serie di ragioni – cominciando dal fatto che scrivere tutti i giorni almeno un pochino è un’ottima cosa per esercitare la muscolatura mentale che serve per scrivere… Il che sembra lapalissiano – e lo è, ma non per questo è meno vero. Considerate un’attività fisica: più spesso la praticate, meglio vi riesce, giusto? Ebbene, lo stesso vale per la scrittura in generale, e per questo esercizio in particolare. Per il primo giorno, e poi anche il secondo, il terzo, e probabilmente il quarto, avrete l’impressione che non succeda granché. Va bene, non importa. Perseverate. Ci vuole un po’ di tempo per sbloccarsi, per imparare a non filtrare troppo – o almeno non tutto il tempo. I benefici sono proporzionali alla pratica. Davvero. Dopodiché, se si salta un giorno non è il caso di sentircisi in colpa, e meno che meno una ragione per smettere. Avete saltato un giorno? Pazienza: domani si ricomincia.

Che vuol dire senza mai fermarsi?

Vuol dire senza mai fermarsi. Ci saranno volte in cui non saprete che cosa scrivere, proprio non ne avrete idea, HorseBetterdetesterete il prompt o proprio non saprete che cosa farvene. Ebbene, cominciate a scrivere che non sapete che cosa scrivere, che detestate il prompt, che non sapete che cosa farvene, che il mattino ha l’oro in bocca… Well, magari quello no – è pericoloso. Ma scrivete perchè detestate il prompt, o perché non avete voglia di fare l’esercizio oggi, o che grilli deve avere per la testa la Clarina per consigliare una pratica così dissennata… l’importante è che scriviate scriviate scriviate, cavalcando lo slancio. Prima o poi qualcosa si sbloccherà. E se non lo fa oggi, lo farà domani – ma non vi fermate.

E servono proprio i prompts?

PrompterDi nuovo: magari no, però aiutano. Perché c’è un certo fattore sorpresa nello scoprire il prompt del giorno un secondo prima di cominciare a scribacchiare – e questo può spingere in direzioni inaspettate, costringere ad esplorare prospettive che altrimenti non si prenderebbero in considerazione, far germogliare idee inattese… Dopodiché si può interpretare il prompt con un minimo di latitudine. Ricordo la volta in cui usavo questa pratica per la prima stesura del romanzo di ambientazione elisabettiana – e mi ritrovai un prompt che mi piazzava in una stanza di motel. Er… Così tradussi “motel” in “locanda”, e avanti così. E poi considerate che è di molto aiuto avere da subito una direzione precisa in cui muoversi. Niente crisi da “e oggi su che cosa scrivo?” Suggerirei di provarci, almeno.

E per oggi ci fermiamo qui. A mercoledì, con l’ultima (I think) puntata.

 

Gen 9, 2017 - scrittura, Vitarelle e Rotelle    Commenti disabilitati su Le Gioie del Freewriting

Le Gioie del Freewriting

freewritingOh, lasciatemi spendere ancora qualche parola in favore del freewriting… Che poi, a ben pensarci, abbiamo mai parlato sul serio di freewriting qui?

Oh well – se non l’abbiamo mai fatto, è il momento. Se l’abbiamo fatto in altre occasioni, portate pazienza, volete? Perché, come da Buone Intenzioni, ho ricominciato a fare freewriting, e al nono giorno sono già colma di entusiasmo in proposito. Il che non significa che durerò costante – ma non anticipiamo.

Cominciamo invece con due parole per spiegare di che si tratta, e chiariamo che, tutto sommato, è proprio quel che dice l’etichetta: scrittura… libera.

E capirai, direte – ma abbiate pazienza e state a sentire. Funziona così: prendete un tema, vi date un limite di tempo o spazio e cominciate a scrivere, meglio se a mano. E non vi fermate. Non vi fermate più, per nessun motivo, finché non avete raggiunto il limite in questione. Può trattarsi di dieci minuti, di tre pagine di quaderno, quel che volete – ma, finché non ci siete arrivati, andate avanti, avanti e avanti, il più velocemente possibile, senza pensarci troppissimo, senza fermarvi a rivedere, correggere o considerare. Nemmeno se la sintassi periclita, nemmeno se la grammatica scricchiola, nemmeno se lo spelling frana a valle. Avanti, e avanti, e avanti. Dopo tutto non è nulla che mostrerete ad alcunchì, almeno non in questa forma. E quando siete arrivati alla fine… vi fermate. Fine.

“E che si suppone che sia successo in quei dieci minuti o giù di lì, o Clarina?”freewr

Ebbene, in potenza, un sacco di cose. Nella più blanda delle ipotesi, avremo preso qualche lunghezza di vantaggio sul Gendarme Interiore, ed è una buona cosa di per sé. Ma – e questo diventerà tanto più vero e più frequente quanto più persevereremo nell’esercizio – magari avremo trovato idee, immagini, giri di frase, tratti di caratterizzazione, svolte della trama, addirittura storie quasi compiute…

No, davvero. Basta lasciarsi andare un pochino, non pensare troppo, non fermarsi – e le cose saltano fuori. Raramente in una forma utilizzabile così com’è, sia chiaro. È come… estrarre i mattonicini Lego dal sacco? Non so, perché da piccola sono sempre stata una frana con le costruzioni, ma l’idea è un po’ quella: si tirano fuori pezzettini colorati e luccicanti con cui si possono costruire un sacco di cose. Ed è favoloso. E forse la cosa più favolosa di tutte è la duttilità di questo genere d’esercizio, perché può servire a un sacco di cose.

  • Come riscaldamento prima di una sessione di scrittura (raccomandatissimo);
  • per esplorare un’idea, una possibilità, un personaggio;
  • per sperimentare una voce e provare un dialogo;
  • per provare una prospettiva nuova su quel che si sta scrivendo;
  • per raccogliere le idee su un progetto nuovo…

freewE funziona con tutto un po’: narrativa breve o lunga, poesia, non-narrativa, conferenze, presentazioni… Se ha a che fare con le parole (e probabilmente anche con le immagini), è qualcosa cui potete applicare almeno qualche sessione di freewriting. Per dire, al momento sto lavorando su un progetto non-narrativo – francamente l’ultima cosa su cui avrei pensato di fare freewriting. Ebbene, questa mattina ho provato, giusto per vedere che cosa poteva succedere… e ha funzionato in maniera spettacolare. Ha prodotto idee a cestini, immagini, possibilità…

Insomma, s’è capito: adoro questa tecnica. La trovo efficacissima e stimolante, i risultati migliorano meravigliosamente con la pratica, e consiglio vivissimamente di provarci. Il che potrebbe indurvi a credere che la pratichi con quotidiano entusiasmo, giusto? Er… no. È di me che stiamo parlando, e quindi non sono brava e costante nemmeno per  finta. Però ci provo – ancora e ancora e ancora. Deve pur voler dire qualcosa.

Mercoledì magari parliamo un po’ delle vitarelle e rotelle della faccenda, volete?

Giu 8, 2016 - teorie, Vitarelle e Rotelle    Commenti disabilitati su Solo Soletto e Luccicante

Solo Soletto e Luccicante

ShinyBlueChe poi, a dire il vero, quel che mi attira molto più delle conversazioni altrui al caffè, e anche dei mezzaloghi al telefono, è la Battuta di Dialogo Isolata. Quelle cose che si sentono passando sotto una finestra aperta, o attraversando in fretta uno scompartimento ferroviario, o quando qualcuno alza momentaneamente la voce sulla scala mobile che va nell’altro senso.

Una singola battuta, un richiamo, una domanda, un insulto, metà di una considerazione… E le domande partono, come uno sciame di scintille: chi è questa persona? Che cosa ha in mente? Perché ha detto così? A chi lo stava dicendo? Perché l’ha detto in quel modo? A che cosa stava reagendo? Che reazione ha provocato? Che cosa è successo prima? Che cosa è successo dopo? Che accento, che colore, che cadenza, che sottotesto, che implicazioni aveva la battuta? E se la estrapolassi dal contesto evidente e la spostassi in un altro tempo e luogo? Se non fosse una ragazzina in jeans a dirla, ma qualcun altro, altrove, altrimenti, in altro tempo? E via dicendo e – se non sto attenta – mi ritrovo con una storia tra le mani.

Oppure  la conversazione incidentale. shiny-objects

Succede nei film, qualche volta – e più spesso nella scrittura televisiva. Per dare l’impressione di un posto affollato o vissuto, due comparse di passaggio scambiano una battuta che non ha rilevanza per la trama. Oddìo, potrebbe anche averla, in teoria, ma è rischioso perché è difficile farlo in maniera sottile… Ad ogni modo, non importa. Per lo più la conversazione accidentale serve a caratterizzare l’ambiente. Alle corse dei cavalli si parlerà di scommesse, su un camminamento di ronda ci si scambiano parole d’ordine, in un bar si ordina un caffè, e cose così.  Non dovrebbe essere nulla su cui stropicciare i neuroni – e però non me lo so impedire. Sento una di queste frasi da buttar via, e comincio: chi è questa persona? Che cosa ha in mente? Perché ha detto così…?

Per dire, ho in mente questa scena – e non ho idea di che cosa fosse parte: la porta di un ascensore si apre, e ne escono due donne sulla trentina, una bionda e una bruna. “Io credo che dovremmo andare,” dice la bruna, mentre passa oltre con la sua amica muta, e i protagonisti (chiunque essi siano) salgono sull’ascensore, diretti a fare qualcosa di terribilmente rilevante. Magari a salvare il mondo, o a vincere una causa milionaria, o a uccidere – ma proprio non me ne ricordo. Quel che mi ricordo sono le due donne e quel frammento di conversazione: “Io credo che dovremmo andare.”

Shiny-Object-Ball-iStockPhoto-PPT-QualityDove dovrebbero andare? Un’udienza in tribunale? Un viaggio di lavoro? Un altro studio legale? Un cocktail party? Una conferenza internazionale? Un matrimonio? Una visita in ospedale? Perché la bionda non è d’accordo? O è soltanto incerta? Perché si stanno consultando? Che cosa dipende dal fatto che vadano o non vadano? Si tratta di andare entrambe o non andare affatto? In che rapporto sono queste due? Amiche? Parenti? Colleghe? Capo e sottoposta? Nemiche giurate? Rivali professionali? E quel pronome iniziale, “Io credo…” è un eccesso di zelo del traduttore o è davvero rilevante? Significa “Io, diversamente da te, credo che dovremmo andare” a vedere un’altra volta la scena del delitto, o è semplicemente “Credo che dovremmo andare…” se non vuoi perdere il discorso di saluto?

Ecco, visto? E non ho nemmeno cominciato con gli spostamenti di luogo e di tempo.

È la natura della Battuta Isolata. Se ne sta lì, sola soletta, e luccica in mezzo alla nebbia… Non ricamarci attorno una storia richiederebbe un tipo di forza d’animo che io, in tutta sincerità, proprio non possiedo.

 

 

Mag 29, 2015 - angurie, scribblemania    Commenti disabilitati su Causa ed Effetto

Causa ed Effetto

Sorry, sto scrivendoscrivendoscrivendo – e comincio ad avere l’impressione di farcela davvero, a finire entro domenica sera – e sto anche editandoeditandoeditando…

E a dire il vero non vedo perché non dovreste scriverescriverescrivere anche voi. O almeno scrivere un po’.

E allora, prendendo a prestito abitudini altrui e inclinandole a 45°, facciamo un gioco: due immagini (di N.C. Wyeth) da cui ricavare una storia, volete?

In un ordine qualsiasi:

wyeth_murdersquireford

E…

wyeth_renegademonk

Et voilà. Che è successo tra l’una e l’altra – in un ordine qualsiasi? Una storia completa, una trama, un limerick… Quel che volete.

Torno a scriverescriverescrivere.

Ci sentiamo presto.

Buona scrittura

Mantellina Scarlatta

Che ne dite di una sfida?

Ebbene, state a sentire: nel 1957 James Thurber scrisse The Wonderful O, che narra di una lettera eliminata dalla lingua inglese. Tutta la vicenda è scritta senza usare questa lettera, ed è una delizia.

Una bizzarria? C’è chi ha ne ha fatte di più estreme: nel 1969 il Francese G. Perec scrisse  La Disparition, due centinaia di pagine senza utilizzare la lettera E. La trama è incentrata su tale Anton Voyl, che sparisce e dà il via a una serie d’incidenti. Perec, che faceva parte di una clique letteraria assai incline a sperimentare, diceva che il limite accende e ispira la fantasia.

Pare anche a me: aggirare i limiti spinge a cercare, e semmai creare, strade alternative.

E quindi, la sfida: cercare di scrivere pezzi senza una lettera a scelta, e riuscire a limitare le bizzarrie linguistiche. E’ stupefacente quel che si riesce a fare…

C’era, tanti e tanti anni fa, una bambina detta da tutti Mantellina Scarlatta, a causa della cappa che teneva sempre sulle spalle. La bambina viveva assieme alla mamma in una casetta al limitare della selva. Grandmaman, invece, viveva dall’altra parte, e per raggiungere la sua casa si passava per sentieri bui, lunghi e malsicuri, stretti tra gli alberi antichi e i cespugli carichi di spine. Accadeva raramente che Grandmaman si ammalasse, e in quei casi Mamma mandava da lei Mantellina Scarlatta. Prima che la bimba partisse, Mamma metteva in un paniere le ciambelle appena fatte, e ripeteva: guai a fermarsi nella selva, guai a parlare agli estranei! E specialmente, attenta ai lupi! Mantellina Scarlatta stava a sentire e rideva. Dite la verità: qual è la bambina che, prima di partire per una gita nella selva, dà retta alla mamma in ansia?

Basta, grazie, perché la faccenda richiede una certa fatica.

Chi altri tenta? Fatemi sapere i risultati!

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E a questo punto spero che apprezziate il fatto che in tutto il post qui sopra, se non mi è sfuggito qualcosa, ci sono soltanto cinque O, e nessuna di esse è mia: due sono nel titolo di Thurber, una nel titolo di Perec e due nel nome del suo protagonista. Qui sotto ci sono le note relative a due particolari che ho sottolineato: niente asterischi, perché non ho avuto la pazienza di scrivere anche le note senza O, e non volevo scoprire le mie carte troppo presto…

Voyl: Voyl-Voyelle, got it? Immagino che sia Anton Vocal nella traduzione italiana (La Scomparsa, Guida, 1995, trad. di Piero Falchetta), che non ho letto. Esistono anche traduzioni in Inglese (A Void), Tedesco, Spagnolo, Olandese, Svedese e Turco, quanto meno, e non mi stupirei se ce ne fossero altre: dev’essere il genere di sfida che un traduttore sogna per tutta la vita.

Clique letteraria: per ovvie ragioni non potevo scrivere “movimento letterario“, ma c’è la consolazione che una delle auto-non-definizioni di OuLiPo (che sta per Ouvroir de Littérature Potentielle) è quella di non essere un movimento letterario. Quando si è detto che a OuLiPo sono appartenuti autori come Calvino e Queneau, le cose diventano, je crois, un pochino più chiare.

Giu 19, 2010 - Oggi Tecnica    2 Comments

Egli disse, ella disse

Capita di scrivere un dialogo e di essere colpiti all’improvviso da quella che sembra una manifica idea: perché invece di ripetere ad nauseam “A disse” e “B disse” e via così, che è monotono e generico, non uso qualche bel sinonimo espressivo? E/o qualche bell’avverbio? Una giudiziosa combinazione delle due cose non mi darebbe un dialogo più vivace e meglio caratterizzato, oltre che meno banale?

La risposta è no, no, no, mille volte no. Date un’occhiata all’esempio qui sotto. Si suppone che sia una scena d’azione in cui A e B, guidati da D, inseguono dei nemici più numerosi e meglio armati di loro.

“Tra poco saremo al villaggio” annunciò D con sicurezza. “Dopo il villaggio la strada si allontana dal fiume, risale ed entra tra gli alberi. Quando stavo con la zia, scendevamo sempre al villaggio a comprare il sale per la scorciatoia che gira in alto, sopra il bosco” spiegò.

“Scorciatoia sopra il bosco?” ripeté B, rizzando le orecchie.

“Sissignore, si imbocca dopo la curva, non si vede quasi, è un sentierino che sale verso sinistra” rispose lui e, cogliendo al volo l’idea del gigante, esclamò euforico: “Ma, volendo, si può tagliare nel bosco, riprendendo la strada dopo il posto X.”

“Ridiscendere alla strada dopo il posto X? Cos’è questo posto X? E dov’è?” interrogò A.

“Tra, tra… che so, tra quattro, cinque miglia almeno. Lo chiamano il posto X, ma restano solo rovine” D balbettava quasi per l’eccitazione.

“Abbiamo la nostra sorpresa, D, sei un genio!” decise B. Si misero in cammino.

“Ci siamo”  affermò D poco dopo, mostrando un sentiero che saliva ripido sulla sinistra. Salirono.

“Di qua, di qua” sollecitò D, indicando con la mano il limitare degli alberi a destra. “Ecco il posto X” dichiarò soddisfatto, dando l’alt. “La strada è poco lontana, ci si arriva di là” spiegò, indicando la scarpata davanti a loro.

“Abbiamo guadagnato terreno e i carri vanno piano. Abbiamo il tempo per organizzare un’imboscata” valutò B.

“Andate giù a piedi, studiate la situazione e tornate a riferire” ordinò A.

Ecco, non so se mi spiego: dodici sinonimi diversi del verbo dire, per non parlare delle qualificazioni, tra il semi-lirico e il burocratico, il tutto – presumibilmente – nel duplice intento di scongiurare la monotonia e differenziare le voci. Peccato che non funzioni… E’ sabato, siamo in giugno, quindi magari avete una mezz’oretta da dedicare a un paio di istruttivi esperimenti.

Primo esperimento: leggete l’esempio ad alta voce e ascoltatevi per bene, oppure fatevelo leggere da qualcuno, oppure registratevi e ascoltate. Avete colto la dolorosa goffaggine del dialogo? Bene.

Secondo esperimento: copiate e incollate il dialoghetto in un processore di scrittura e sostituite tutti i verbi sottolineati con il buon vecchio “disse”, eliminandoli senza remore quando ce ne sono troppi. Poi togliete di torno i vari soddisfatto, euforico, con sicurezza e compagnia cantante. Adesso rileggete il pezzo: a parte il fatto che scorre meglio, vi pare che le voci siano diverse l’una dall’altra? Sareste in grado di determinare chi sta parlando se non vi venisse detto esplicitamente? No, vero? Appunto.

Il fatto è che da una parte tutti quei bei sinonimi e aggettivi trascinano fuori dalla storia, e dall’altra, senza di essi, il dialogo è pressoché incomprensibile. E allora come si fa? Una volta di più, è questione di mostrare e non dire: dev’esserci un modo per mostrare che D è soddisfatto o euforico, anziché dirlo – attraverso l’azione. Dev’esserci un modo per distinguere D da A e B – attraverso il modo di parlare. Tutto il resto deve essere come un macchinario teatrale: efficiente ed invisibile. Il lettore non deve accorgersi che gli state dicendo che D parla ancora e ancora, o che D è soddisfatto… deve sentire la sua voce, percepire la sua soddisfazione.

Proviamo:

D li guidò fuori dal bosco. “Visto? E’ il posto X,” disse, col fiato ancora grosso per la salita. “Che vi avevo detto? E la strada è proprio qua sotto, guardate.” Indicò col dito il nastro bianco che s’intravedeva tra gli alberi e, quando si voltò a guardare i due uomini, la luce compiaciuta negli occhi di B gli fece allargare il cuore.

Ok, non è da nobel per la letteratura, ma mostra molto più di quanto non dica: D ha fatto la strada poco meglio che di corsa nella sua impazienza, D è compiaciuto di se stesso, D cerca l’approvazione di B – e la ottiene.

Per cui, terzo esperimento: provate a riscrivere tutto il passaggio, dando ad A, B e D delle voci ben distinte, delle azioni che rivelino quello che pensano, dei nomi se volete. Tenete il punto di vista di D (sapete solo quello che D sa, pensa, vede e sente). Poi, se ne avete voglia, ricominciate dal punto di vista di B, e poi ancora da quello di A – ciò che viene detto non cambia, ma le reazioni e le interpretazioni? Per esempio, ha proprio ragione D nel pensare che B sia soddisfatto? E A lo è altrettanto?

“Se ne possono spremere, di esercizi di scrittura, da dieci battute di dialogo,” argomentò soddisfatta la Clarina e, sospirando compiaciuta, annuì a sé stessa, salvò con prudenza il post e lo pubblicò.