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Ago 3, 2015 - gente che scrive, Ossessioni, scribblemania, scrittura    Commenti disabilitati su Attorno al Romanziere

Attorno al Romanziere

john_irvingOgni tanto, a quanto sembra, la moglie di John Irving si trova su un aereo con destinazione Amsterdam, o Vienna, o altrove – e, una volta arrivata, si ritrova a visitare negozi di tatuaggi, ospedali, organi storici, pensioncine, ristoranti ungheresi e altri luoghi bizzarri. Senza sapere perché.

O meglio – il perché lo sa benissimo: suo marito è un romanziere che si documenta di prima mano. Va a visitare le città, cerca i posti, parla con la gente, fa domande… Solo che non ne mette a parte sua moglie. Non fino in fondo. Questo lo so per avere visto un documentario in cui Irving discuteva dettagliatamente il suo processo creativo, e la moglie compariva ogni tanto a raccontare come, leggendo il romanzo finito, le capiti in continuazione di “scoprire” perché siano andati nell’un posto o nell’altro, o perché abbiano incontrato la tale o tal’altra persona. E magari ogni tanto, a lavori in corso, alla signora Irving capita di chiedere qualche informazione, qualche indizio – ma ottiene ben poco.

Irving è il genere di scrittore che si tiene ben vicine le carte, e lo fa con tutti. Con l’amico medico cui si rivolge per sapere se è possibile morire in un modo o nell’altro, con gli sconosciuti che intervista per avere informazioni tecniche, e persino con i membri del suo team di ricerca… Ebbene sì: ci sono scrittori che hanno un team di ricerca, gente che trova il giusto ospedale, la giusta segheria, il giusto detective olandese, i giusti organi da sentir suonare. E però, come la signora Irving, non sa di che si tratta fino alla fine.

Mi chiedo se sia più affascinante o frustrante: beneficiare di occhiate oblique a un romanzo in corso, coglierne questo o quello scampolo, domandarsi come debbano combinarsi tra loro… E continuare a domandarselo fino alla fine – e poi, di solito, trovarsi di fornte a qualcosa di del tutto inaspettato. La consorte e l’assistente intervistate nel documentario ne parlano come se fosse divertente ed elettrizzante – ma non posso fare a meno di chiedermi, e ho la sensazione che, personalmente, diventerei matta.

Ad ogni modo, non è il tipo di tormento che io infligga ad amici, parenti e affini. agastheatre400

Anzi.

Pare che, fin dalla prima giovinezza, possieda una certa tendenza a discutere di quel che sto scrivendo. A discuterne in vasta e particolareggiata abbondanza. Con chiunque mi stia a sentire. O anche se non mi si sta poi troppo a sentire. Per quanto, negli anno, abbia fatto sforzi per imparare a contenermi, “Che cosa stai scrivendo, Clarina?”  o “E come va il romanzo, Clarina?” sono ancora domande pericolose. Pericolose nel modo per cui abbattermi a sediate, dopo un po’, si configura come legittima difesa. E stavo per dire “senza nemmeno il beneficio dei viaggi”, ma non è del tutto vero. Benché sia difficile portare alcunchì in epoca elisabettiana, ho trascinato amici e famigliari in giro per Londra inseguendo posti, ipotesi, tracce residue, vecchie mappe… Mi sono rivista in qualche fotografia, intenta a tenere concioni con un luccichio matto negli occhi…

E non lo so, ma vedendo il documentario in questione mi è sorto il dubbio: forse amici, parenti e affini preferirebbero che lavorassi à la John Irving?

 

Lug 31, 2015 - elizabethana, Spigolando nella rete, Storia&storie, tecnologia    Commenti disabilitati su Paesaggi Sonori

Paesaggi Sonori

Paris1739Sono stata recentemente introdotta al concetto di paesaggio sonoro*, con questa cosa meravigliosa. Una passeggiata 3D per la Parigi del 1739 – ma questo non sarebbe nulla se il video, realizzato da ricercatori dell’Université Lyon-2, non fosse accompagnato dalla ricostruzione di suoni, voci e rumori vari… E devo dire che per me questo aspetto auditivo fa tutta la differenza possibile.  Non ho nulla contro le ricostruzioni 3D – anzi, mi piacciono molto – ma non sono mai altro che questo: ricostruzioni 3D. Invece la ricostruzione sonora è un viaggio nel tempo molto più convincente e immersivo.

Dopo essermi incantata a proposito della Parigi settecentesca, naturalmente mi sono chiesta se non ci fosse nulla del genere a proposito della Londra elisabettiana – e me lo sono chiesto per piacere e per documentazione, perché se la ricostruzione sonora è così efficace, perché non provare a servirmi di un paesaggio sonoro a fini descrittivi?LondonSound

E così mi sono messa a caccia – e quel che ho trovato è Hark! The Acoustic World of Elizabethan England, un meraviglioso documentario radiofonico che fa proprio quel che dice l’etichetta. Quasi un’ora di ricostruzione di quel che un Elisabettiano sentiva ogni giorno della sua vita. Le circostanze sonore così familiari da non badarci nemmeno più. Il paesaggio sonoro dei miei personaggi. È favoloso a sentirsi e, anche se non avete tanto interesse nel periodo da ascoltare tutto quanto, vi consiglio vivamente di fare anche solo un piccolo esperimento – possibilmente con un buon paio di cuffie.

Tra l’altro, all’inizio sentirete esporre l’affascinante idea che tutti i suoni emessi non si spengano affatto, ma seguitino a viaggiare a distanze sempre maggiori – e quindi siano ancora tutti là fuori, da qualche parte… “In teoria, con la giusta tecnologia, potremmo sentire la voce di Shakespeare che recita il fantasma nel suo Amleto…” Non so quanto sia solido dal punto di vista scientifico, ma trovo il concetto assolutamente meraviglioso – sia per la permanenza di tutti i suoni, sia per la teorica possibilità di recuperarli. Nel frattempo, però, in attesa della “giusta tecnologia”, mi piace pensare che l’immaginazione, la ricerca e l’indagine del passato possano fare da ponte, e recuperare almeno l’ombra dei suoni perduti.

________________________

* Grazie, D.

Apr 8, 2015 - scribblemania    Commenti disabilitati su Francobolli di Viaggio

Francobolli di Viaggio

stampparis“Immagina di tenere un diario,” mi si è detto una volta. “E immagina di avere a disposizione, per ogni giorno, soltanto il retro di un francobollo. Uno di quelli grossi e celebrativi, se vuoi – ma tutto quel che puoi fare è scriverci una frase. Un posto, una persona, un’immagine, un’impressione – non importa. Una singola, vivida cosa che vuoi ricordare per quel giorno.”

L’idea mi è sempre piaciuta, in quella maniera vaga e ariosa, in cui piacciono le idee carine – sapete quello che intendo. E ci ho anche provato, una volta o due, e apprezzato la distillazione, la ricerca di vividezza ed efficacia… Ho provato, ho persistito per qualche giorno, una settimana, una volta persino un mese, e poi ho lasciato perdere.

Per un motivo o per l’altro, mi è tornato in mente giusto un anno fa, la prima sera di una piccola spedizione parigina. L’ho proposto ai miei compagni di viaggio, e insieme abbiamo deciso di adottare il gioco: ogni sera, durante la cena, scambiavamo e discutevamo i nostri francobolli.

A volte erano scorci di paesaggio e fette di città, a volte erano terrine di cozze al Quartier Latin, a volte scampoli di musica inaspettata, a volte una libreria speciale, o la popolazione multietnicissima sul Metro, o il profumo del caffè… Stamp

E l’ho riproposto di nuovo ai compagni di viaggio di Londra, qualche settimana fa, e il risultato è stato lo stesso: dagli acquitrini e canali attorno a Roydon al ritratto di John Donne alla Portrait Gallery, dalle colonne dipinte del Globe al fish&chips al Garrick’s Arms… E se me ne dimenticavo io, era il resto della comitiva, quando ci sedevamo a cena, a ricordarmelo: “E i francobolli?”

È stato divertente, è stato interessante, è stato rivelatore sul modo in cui funzionava ciascun francobollatore. Ci ha indotti a osservare, a cercare e a pensare.

Così comincio a domandarmi se non potrei provarci di nuovo. In viaggio – d’ora in poi sempre – ma non solo. Trovare ogni giorno la Singola Cosa, raccoglierla in una singola frase senza perderne la consistenza, scegliere tra le possibilità… A parte tutto il resto, deve, deve, deve essere un buon esercizio di scrittura, non pensate?

 

Ott 26, 2014 - elizabethana, Storia&storie, teatro    Commenti disabilitati su Muse Di Fuoco

Muse Di Fuoco

MuseDal celeberrimo Henry V di Laurence Olivier, datato 1944, il celeberrimo prologo recitato da Leslie Banks.

O for a Muse of fire, that would ascend
The brightest heaven of invention,
A kingdom for a stage, princes to act
And monarchs to behold the swelling scene!…

Bello, vero? Eccolo nella traduzione di Goffredo Raponi:

Oh, aver qui una Musa tutto fuoco
per poterci levar sempre più in alto
nell’immaginazione,
verso più intense e luminose sfere!
E un regno per scenario,
principi per attori,
una platea di re per spettatori
di questa grande rappresentazione!
Vedremmo allora agir, come dal vero,
su questa scena, il bellicoso Enrico,
nel portamento simile ad un Marte,
recandosi al guinzaglio come cani
impazienti di agire al suo comando,
la fame, il ferro, il fuoco…
Perdonate, cortesi spettatori,
le nostre disadorne e anguste menti
se abbiamo osato presentarvi qui,
su questo nostro indegno palcoscenico,
sì grandioso argomento.
Come potrebbe mai questa platea
contenere nel suo ristretto spazio,
le sterminate campagne di Francia?
Come stipare in questa “O” di legno
pur solo gli elmi che tanto terrore
sparsero per il cielo di Azincourt?
E perciò, vi ripeto, perdonateci;
ma se può un numero, in breve spazio,
con uno sgorbio attestare un milione,
che sia concesso a noi, semplici zeri
d’un sì grande totale, stimolare
col nostro recitar le vostre menti.
Immaginate dunque che racchiusi
nella cinta di queste nostre mura
si trovino due regni assai potenti,
e che le loro contrapposte fronti
alte erigentesi su opposte sponde
separi un braccio di rischioso mare.
Sopperite alle nostre deficienze
con le risorse della vostra mente:
moltiplicate per mille ogni uomo,
e con l’aiuto della fantasia
createvi un poderoso esercito.
Quando udrete parlare di cavalli
pensate di veder cavalli veri
stampar l’orme dei lor superbi zoccoli
sopra il molle terreno che le accoglie.
Sarà così la vostra fantasia
a vestire di sfarzo i nostri re,
a menarli dall’uno all’altro luogo,
saltellando sul tempo,
e riducendo a un volger di clessidra
gli eventi occorsi lungo diversi anni;
e a questo fine vogliate permettere
a me, Coro, d’entrare in questa storia,
e di pregarvi qui, in veste di Prologo,
di ascoltar con benevola pazienza
il dramma che vi andiamo a presentare,
e con molta indulgenza giudicarlo.

E avete badato all’incantevole ricostruzione della Londra tardoelisabettiana e del Globe? Ah, non so. Adoro quest’aria di teatrale irrealtà, questa luce dorata, quest’atmosfera… A parte tutto il resto, la Londra elisabettiana è piacevole immaginarsela così.

E buona domenica.

Ago 24, 2014 - elizabethana, teatro    2 Comments

Shakespeare In Love – In Teatro

Pur adorando il film, in qualche modo speravo che la faccenda arrivasse a teatro. È così perfetta per succedere su un palcoscenico, che si ha l’impressione che sia così che Stoppard & Norman l’hanno immaginata fin dal principio.

E adesso è al West End, a Londra – neanche terribilmente fuori mano, a voler proprio vedere…

Oh well.

Buona domenica, o Lettori.

Grand Tour (Virtuale)

Anche voi siete inchiodati a casa dal lavoro? Oppure esiliati sulla costa adriatica*? O altrimenti impossibilitati a preparare un bagaglio piccolo piccolo e saltare sul primo treno – o aereo – o altro simpatico mezzo di locomozione?

Vi capisco, sapete. Stessa barca.

Però questo non significa che non possiamo proprio fare nulla che somigli almeno un po’ a un viaggio – benedetta sia la Rete.

Per esempio, parliamo di musei. Non ce n’è quasi uno che non abbia il suo tour virtuale.

Cominciamo con una città a caso – diciamo Londra.

E diciamo di cominciare dalla National Gallery, con questo tour che vi consente di visitare 18 sale e il loro contenuto in notevole dettaglio. E se poi nelle diciotto sale non trovaste i vostri prediletti, c’è sempre la vastissima collezione online.

E intanto che siamo a Londra, dovete solo uscire in Trafalgar Square, girare a sinistra e attorno all’edificio per trovare la National Portrait Gallery, dove c’è modo di vedere in faccia una quantità di personaggi: sovrani, artisti, soldati, avventurieri, scienziati… sono (quasi) tutti lì. La collezione è vasta e  navigabile secondo una varietà di criteri. Per esempio, potete cercare gli autoritratti di pittrici, oppure i ritratti di Rupert Brooke o Joseph Conrad, o il ritratto di Riccardo III che ispirò a Josephine Tey The Daughter of Time

E non vogliamo parlare del British Museum? Gli Online Tours consentono di esplorare per conto proprio una discreta fetta delle collezioni – per cultura, per singolo oggetto o per tema. Per dire, the history of writing, anyone?

Qualcosa del genere potete fare anche con le National Galleries of Scotland, che potete esplorare per artista o per soggetto, oppure seguendo i percorsi tematici proposti dal sito. Le riproduzioni, benché non enormi, sono ottime. Provate a dare un’occhiata al ritratto di Stevenson dipinto da Girolamo Nerli.

E adesso basta Regno Unito- o quasi – e facciamo un rapido salto a Madrid per una visita al Prado. Si può con Google Earth, che offre riproduzioni di grandi dimensioni e altissima risoluzione (“Vi potete avvicinare abbastanza da osservare la singola pennellata o la craquelure della finitura…”. Tutt’altro che male sono anche le riproduzioni cui si può accedere dal sito del museo, ma la navigazione è un po’ macchinosa: a meno che non mi sia sfuggito qualcosa, è necessario cercare per singola opera o autore – e tuttavia ne vale del tutto la pena. 

Poi ci sono punti di accesso che consentono di visitare un certo numero di musei e collezioni, come i meravigliosi Google Art Project ed Europeana – due tra i miei posti virtuali preferiti.

Se non avete ancora sperimentato Google Art Project, fateci una capatina. Scegliete fra 155 musei e collezioni di tutto il mondo, ammirate le magnifiche riproduzioni in ogni minutissimo dettaglio, riunite i vostri prediletti nella vostra galleria personale – vi avverto: è uno di quei posti in cui si rimane catturati per ore e ore, rimbalzando dalla Tate Modern** al Getty Museum, dal Pergamon Museum di Berlino, all’Hermitage ai Musei Capitolini…

E un altro straordinario non-posto in cui passare ore è Europeana, una miniera di immagini, documenti, oggetti, video e audio provenienti da un’incredibile quantità di collezioni sparse per tutta l’Europa. Potete smarrirvi tra mostre e ricerche, oppure potete scatenarvi in una caccia al tesoro. Poi quest’autunno ci tornerete in cerca di documentazione per il vostro romanzo/articolo/saggio/dissertazione/esame, ma adesso ci andiamo in vacanza, perbacco.

E dunque accendiamo il ventilatore, procuriamoci un ghiacciolo alla menta e godiamoci il Grand Tour.

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* “Due mesi a Cattolica, si rende conto?  Due mesi. A Cattolica. Due. Mesi. A. Cattolica. È la morte civile…” (cit.)

** Ve l’avevo detto che non avevamo ancora finito del tutto con l’Isoletta…

Ago 11, 2011 - grillopensante, Londra, Poesia    Commenti disabilitati su Recessional

Recessional

Questo non è proprio un post. E’ una segnalazione legata a una serie di riflessioni scambiate con M.B. a proposito di quel che succede in Inghilterra in questi giorni.

Kipling scrisse questa poesia nel 1897 e la intitolò Recessional – la parola che, nella liturgia anglicana, indica il canto che accompagna l’uscita solenne del celebrante al termine del rito. Uno strano, triste, profetico dono per il Giubileo di una regina al colmo della sua gloria…

Recessional

God of our fathers, known of old—
Lord of our far-flung battle line—
Beneath whose awful hand we hold
Dominion over palm and pine—
Lord God of Hosts, be with us yet,
Lest we forget—lest we forget!

The tumult and the shouting dies—
The Captains and the Kings depart—
Still stands Thine ancient sacrifice,
An humble and a contrite heart.
Lord God of Hosts, be with us yet,
Lest we forget—lest we forget!

Far-called our navies melt away—
On dune and headland sinks the fire—
Lo, all our pomp of yesterday
Is one with Nineveh and Tyre!
Judge of the Nations, spare us yet,
Lest we forget—lest we forget!

If, drunk with sight of power, we loose
Wild tongues that have not Thee in awe—
Such boastings as the Gentiles use,
Or lesser breeds without the Law—
Lord God of Hosts, be with us yet,
Lest we forget—lest we forget!

For heathen heart that puts her trust
In reeking tube and iron shard—
All valiant dust that builds on dust,
And guarding calls not Thee to guard.
For frantic boast and foolish word,
Thy Mercy on Thy People, Lord!
Amen.

Feb 17, 2010 - Genius Loci    Commenti disabilitati su Bloomsberries: la Londra scintillante di Virginia Woolf

Bloomsberries: la Londra scintillante di Virginia Woolf

Virginia.jpgTorniamo a Londra, ma è un’altra Londra. Niente più orfanotrofi, vicoli bui, nebbia e acque torbide del Tamigi, thank you very much. E d’altra parte, Virgina Woolf née Stephen non è una giornalista che scrive romanzoni melodrammatici con l’ansia di catturare il pubblico settimana dopo settimana, ma una sperimentatrice senza patemi economici, presa tra cene letterarie e balli, una bipolare di buona famiglia con tendenze suicide.

Siamo in un altro mondo.

Un mondo che comincia con il quartiere bene di Kensington, dove Virginia nasce nel 1882 da una famiglia d’intellettuali tardo-vittoriani collocata, dice Quentin Bell, sul gradino più basso della classe medio-alta. la famiglia è numerosa e molto agiata, le ragazze vengono educate privatamente e la casa, tutta legni scuri, tende di velluto e tappezzerie scarlatte, è frequentata da un bel mondo fatto di relitti vittoriani. Tra un tè delle cinque e una passeggiata a Kensington Park, ecco le note buie: una sorellastra demente*, un fratellastro dedito agli abusi sui piccoli di casa, e poi i lutti. Prima la madre, poi la sorellastra, poi il padre, e intanto Virginia, la brutta e ostinata Virginia, che vuole studiare Greco e Storia, passa di esaurimento in esaurimento.

E’ nel 1904, dopo la morte del padre, che Vanessa, la sorella maggiore, raccoglie Virginia e i fratelli e si sposta dalla sicurezza bon ton di Kensington nelle acque inesplorate di Bloomsbury. group_plane_picture.jpgIn termini di proprietà sociale, Bloomsbury è terra di confine, con le sue pensioni, le sue botteghe e il suo tono bohémien, ma è proprio quello che i giovani Stephen vogliono: basta con le porcellane e le tradizioni, basta con la compassatezza e le convenzioni. “Eravamo pieni di esperimenti,” scriverà Virginia molti anni più tardi. “Intendevamo fare senza tovaglioli, e bere il caffé alla sera, anziché il tè alle cinque.” Curioso concetto di ribellione. Ma non è tutto. Nella casa di Gordon Square** gli Stephen cominciano a riunire settimanalmente gruppi di amici e compagni di studi, giovani intellettuali e artisti altrettanto pieni di sacro entusiasmo. E’ la nascita del Gruppo di Bloomsbury.

Bizzarro gruppo, i Bloomsberries (come li si chiama con intento non proprio benevolo***), eccentrici assetati di genialità: contano tra loro nomi come Virginia, E.M. Forster, John Maynard Keynes, e Roger Fry, ma la loro influenza come movimento intellettuale, come gruppo, è difficile da discernere. La stampa contemporanea e i membri di altri gruppi li descrivono come una clique di squilibrati orribilmente snob, intenti ad osannarsi o coprirsi d’insulti secondo le circostanze, presenziare a tutte le feste possibili e a trasgredire tutte le regole per il gusto della trasgressione. In effetti, è difficile seguire le girandole dei loro amori****, e molti di loro sembrano alternare storie extraconiugali e obiezione di coscienza con pari e indiscriminata disinvoltura.

londdockarial1961.jpgIn quest’aria effervescente e livorosa, Virginia scrive e sperimenta. Il suo primo romanzo, La Crociera, esce nel 1915, con un successo limitato. Ci vorranno i racconti di Notte e Giorno, e poi La Stanza di Jacob e soprattutto la Signora Dalloway e Gita al Faro per affermarla. E intanto Virginia affina le sue sperimentazioni, a metà tra il flusso di coscienza e una visione caleidoscopica: l’occhio si sofferma sugli oggetti, ne coglie un frammento, un colore, un contorno, un gioco di luce, e ricompone queste tessere scintillanti come un mosaico. Spesso, a subire questa decostruzione è Londra. Saggi e romanzi ce la mostrano in perpetuo movimento, con le sue folle, i suoi mercati, i parchi, le luci notturne, le bancarelle chiassose di Oxford Street, i fiumi di volti illuminati dai lampioni, le terrazze di Mayfair, gli omnibus a Piccadilly. Virginia ama Londra e la percorre spesso a piedi. “Londra di per sé mi attrae sempre, mi stimola,” scrive nel suo diario,” mi offre drammi, storie, poesie, senza che debba disturbarmi a fare altro che muovere le gambe per la strada… Non c’è riposo più grande che camminare da soli per Londra.”

Purtroppo per lei, gli psichiatri ritengono che la frenesia cittadina non giovi ai suoi nervi, e così Leonard Woolf, suo marito dal 1912, la trascina in campagna a Richmond al minimo accenno di crisi, vale a dire piuttosto spesso. Ma Virginia non può stare lontana da Londra, dove pulsa “la vita vera”. Londra è il suo palcoscenico, il suo ambiente, il suo campo di esplorazione. E’ a Londra che cerca le sue ispirazioni e mette in scena i suoi personaggi, la Londra delle feste e delle pensioncine d’affitto, dei parchi e dei negozi. 

london_political.gifLa Signora Dalloway e Gli Anni, i suoi romanzi più londinesi, disegnano una sorta di geografia sociale della città. Il mondo di Clarissa Dalloway è circoscritto tra Westminster (il centro del potere e della politica), Regent Park, i negozi raffinati di Oxford Street, le strade signorili e quiete di St.James, e poi di nuovo a casa, chiudendo il cerchio. Il resto di Londra fa soltanto capolino: a Bloomsbury alloggiano di passaggio Peter Walsh, l’amore di gioventù che Clarissa non ha voluto sposare perché non era abbastanza, e Septimus Warren Smith, il veterano traumatizzato che si ucciderà la sera del ricevimento; mentre un autobus per lo Strand e l’Army&Navy Store costituiscono il limite cui si spinge la ribellione della figlia di Clarissa. Ne Gli Anni, invece, la famiglia Pargiter parte da Kensington, proprio come gli Stephen, e poi si disperde. Gli spostamenti di ciascuno coincidono con una traiettoria interiore e sociale. Il figlio più piccolo diventa avvocato a Chelsea, zona un poco audace, ma abbastanza alla moda: accettabile per uno scapolo che non sente ragioni e non vuole mettere la testa a posto; una cugina sposa un lord e conseguentemente vive a Mayfair; una sorella, malmaritata a uno straniero squattrinato, finisce nella parte buia di Westminster, gli alloggi da pochi soldi all’ombra dell’Abbazia; la cugina Sara, anima perduta, si prostituisce in uno degli innominabili quartieri sulle rive del Tamigi. Significativamente, la sorella sposata in Irlanda torna a Londra e organizza una riunione di famiglia in quello che rimane della vecchia casa di Kensington, la parte che non è stata venduta e trasformata in uffici…oxford_street.jpg

Anche Virginia avrebbe voluto richiudere il cerchio, tornare al “grembo materno” di Kensington? Forse. Invece i suoi problemi mentali peggiorano, gli amici si disperdono o muoiono, la guerra incombe, le bombe tedesche divorano bocconi della sua Londra, vie, case e palazzi, mentre la sua biografia dell’amico Roger Fry non incontra successo…

Virginia s’incupisce e si estrania fino a quando, un giorno di marzo del 1941, esce dalla casa di Richmond “per una passeggiata”, e si getta nello stagno con le tasche piene di sassi.

Forse a Virginia pareva di no, ma a noi della sua Londra resta molto. Possiamo girare la città con i suoi romanzi e i suoi saggi come guida, raccogliendo di pagina in pagina impressioni, scorci, lampi di colore, l’accendersi di un lampione, un riflesso sull’acqua, e “[a]llora si vede Londra nella sua interezza… Londra affollata, fatta a pezzi e ricomposta, con le sue cupole a sovrastare la città e le sue cattedrali a vigilarla; i suoi comignoli e le sue guglie; le sue gru e i suoi gazometri; e quella fuliggine perenne che né primavera né autunno riescono a spazzare via.”

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* Sir Leslie Stephen aveva sposato in prime nozze l’ultima figlia di William Makepeace Thackeray (La Fiera delle Vanità, Le Avventure di Barry Lindon…), che però era morta dopo avergli dato una figlia con un grave handicap mentale. Julia Stephen era a sua volta vedova, con tre figli di primo letto. Leslie e Julia ebbero poi quattro figli: Vanessa, Thoby, Virginia e Adrian.

** E’ solo la prima di una lunga serie. In una frenesia di nomadismo urbano, gli Stephen/Bell/Woolf e i loro amici migreranno negli anni, non solo di civico in civico attorno a Gordon Square, ma per tutta Bloomsbury: Tavistock Square, Fitzroy Square, Mecklemburg Square e Brunswick Square…

*** Il gioco di parole è difficile da spiegare in Italiano. Bloom significa germoglio oppure fioritura (to bloom, fiorire), mentre berry significa bacca. Di conseguenza, Bloomsberries diventa qualcosa come fiorin di fragola, o fragolette in fiore, o qualcosa di altrettanto ironico.

**** A un certo punto Vanessa, la sorella di Virginia, viveva con il marito separato Clive Bell, i loro due figli Julian e Quentin, la nuova compagna di Clive, Duncan Grant (amante di Vanessa), Angelica Bell (figlia di Vanessa e Duncan, ma riconosciuta da Clive) e l’amante (uomo) di turno di Duncan… Come dire? Tutti insieme appassionatamente?

Gen 27, 2010 - Genius Loci    3 Comments

Fumo e Nebbia: La Londra Scura di Charles Dickens

Dickens.jpgCharles Dickens, questa icona della britannicità, questo iper-londinese tra gli scrittori londinesi, non nasce affato a Londra. Invece ci arriva a dieci anni, strappato alla gaia e marittima Portsmouth, alla scuola che amava, alla confortevole certezza di essere figlio di un gentiluomo moderatamente agiato…

Immaginate di trovarvi all’improvviso in un quartiere poco meglio che squallido in una città che passa da uno a sei milioni di abitanti nel giro di un secolo… sudicia, buia, affollata, puzzolente, pericolosa, traversata da un fiume che era una cloaca a cielo aperto, perennemente avvolta in una cappa di fuliggine e fumo: ecco come doveva apparire Londra al piccolo Charles. Per di più, suo padre John era un impiegato amministrativo di basso rango, scarsamente assennato* e alquanto prolifico. Quando, a furia di coltivare velleità sociali irragionevoli, finì in prigione per debiti, toccò a Charles, il maggiore tra i figli maschi, lasciare la scuola e la famiglia** e, abitando a pensione, lavorare in una fabbrica di lucido da scarpe. Poi va detto che si trattò solo di qualche mese passato a incollare etichette sulle bottiglie. Ben presto, Dickens padre ereditò da una nonna una somma sufficiente a pagare i creditori, così la famigliola lasciò il carcere di Marshalsea e il piccolo Charles fu recuperato dalla fabbrica e rispedito a scuola. Fine dell’infanzia tragica: onestamente, credo che possiamo risparmiarci qualche lacrimuccia quando leggiamo delle traversie del piccolo David Copperfield.

A diciassette anni, il nostro ragazzino era giovane di studio presso un avvocato al Temple, dove si supponeva che svolgesse quella sorta di apprendistato informale che, all’epoca, poteva condurre a qualche ramo della professione legale. In realtà Charles non aveva nessun interesse per l’avvocatura, e impiegava la maggior parte del suo tempo osservando la fauna londinese che popolava gli studi legali e studiando da sé la stenografia. A diciannove anni stava già mettendo a buon frutto tanto la sua capacità di osservazione quanto la stenografia, lavorando come cronista giudiziario per diversi giornali. Il giovanotto aveva occhio e un bernoccolo istintivo per il bozzetto descrittivo. Qualche caporedattore impiegò poco tempo a spedirlo a Westminster come cronista parlamentare dapprima, e poi a pubblicare i suoi sketches, bozzetti di vita londinese.

Nel 1833, a 23 anni soltanto, Dickens era conosciuto ed apprezzato, sotto lo pseudonimo di Boz, da tutti gli strati della popolazione londinese, e nel frattempo aveva fatto esperienza di vari ambienti destinati a giocare ruoli fondamentali nella sua futura vita di narratore: le fabbriche, le prigioni, i tribunali, quei quartieri in cui legioni di londinesi lottavano ferocemente per mostrare qualche grado di rispettabilità o signorilità…

Nel 1836 il Morning Chronicle cominciò a pubblicare le puntate settimanali di The Pickwick Papers, più che un romanzo vero e proprio, un susseguirsi di episodi alla maniera di Smollet, di Fielding e di altri autori settecenteschi. Le prime puntate non ebbero un successo travolgente, ma l’introduzione di Sam Weller, il valletto di Mr. Pickwick, con la sua parlata cockney e la sua combinazione di astuzia e buon senso, mandò le vendite alle stelle. Dickens aveva dimostrato di saper ritrarre i Londinesi, e Londra lo ripagò da allora con incessante adorazione e un’insaziabile appetito per i suoi lavori.Immagine2.jpg

Dickens non si tirò indietro. Dopo The Pickwick Papers vennero, nel giro di pochi anni, Oliver Twist, Nicholas Nickleby e The Old Curiosity Shop, tutti ambientati a Londra, tutti pubblicati a puntate su vari periodici. Diciamocelo: era una vitaccia: ogni dannata settimana (oppure ogni quindici giorni nei casi più fortunati) bisognava produrre un capitolo di tot parole, non di più e non di meno, che terminasse lasciando qualche personaggio in difficoltà tali da costringere il lettore a comprare il numero successivo. E non c’era posto per i ripensamenti: se al capitolo XVI si decideva che il personaggio X sarebbe riuscito meglio come un bon vivant irresponsabile anziché un malvagio vero e proprio, non si poteva tornare indietro, perché i primi quindici capitoli erano già stati pubblicati… Scrittori meno abili affondavano a dozzine su queste difficoltà.

Dickens invece prosperava in quell’atmosfera frenetica. Riempiva i suoi romanzi di sottotrame e personaggi minori, di conversioni a 180 gradi e di coincidenze improbabili, ma lo faceva con tanto estro che il pubblico era in delirio. E lui adorava il contatto con il pubblico, le lettere dei lettori, era sommerso dagl’impegni, dalle letture pubbliche, dalle produzioni teatrali amatoriali. E ciò benché nel frattempo avesse messo su famiglia con l’infelice Catherine Hogarth. Povera Kate, con un marito stravagante, irresponsabile, iperattivo, pieno di fascino e di capricci! Ma forse Dickens non aveva un gran bisogno di felicità domestica: era troppo preso dai suoi successi letterari, dall’ambiente frizzante e vivace del giornalismo londinese…

Paradosso: se c’è un autore che critica aspramente Londra, i suoi mali, la sua corruzione e le sue ingiustizie, questo è proprio Dickens. La gestione degli orfanotrofi e delle scuole, le lentezze del sistema giudiziario, le disparità sociali, l’aspetto disumanizzante dell’industrializzazione, le leggi sulla povertà, l’allignare della criminalità negli slums, pochi sono gli aspetti della vita cittadina che sfuggano alla sua censura. Addirittura, in The Old Curiosity Shop c’è un tentativo abbastanza scoperto di un’equazione tra Città e Corruzione dell’Umanità, cui corrisponde un associazione speculare tra campagna e vita incorrotta e semplice. Eppure, togliete Dickens da Londra, ed eccolo perduto! Cosa farebbe il Nostro senza le redazioni dei giornali, senza i teatri, senza le strade affollate, senza la calca attorno ai tribunali, senza la varia, affaccendata, viva umanità che sgomita nelle vie di Londra? Lo ammetterà lui stesso, molti anni più tardi, quando faticosamente occupato con la prima stesura di Dombey&Son in Svizzera, confiderà a un amico: “Lontano da Londra non so scrivere!”

E nel frattempo, piovono i successi: A Christmas Carol (Canto di Natale), forse la storia più famosa di tutta la letteratura inglese; David Copperfield, il prediletto e più autobiografico tra i suoi romanzi; Bleak House (Casa Desolata), con la sua feroce denuncia di un sistema giudiziario incancrenito; Little Dorrit, che punta il dito contro la prigione per debiti***; A Tale of Two Cities (Le Due Città), l’unico romanzo storico insieme al meno fortunato Barnaby Rudge; e poi Great Expectations (Grandi Speranze), e Our Mutual Friend (Il Nostro Comune Amico)… tutti così profondamente impregnati dello spirito, dei costumi, delle abitudini e dei vizi di Londra… Leggete dei pescatori di cadaveri annidati come ratti lungo il Tamigi, della sarta delle bambole che va a vedere le signore davanti alla Royal Opera House per copiare gli stili degli abiti, del giovanotto assunto per catalogare una biblioteca nelle stanze piene di muffa al Temple, della pittrice di ritratti in miniatura che vive in affitto accanto alla buona famiglia decaduta a Camden Town, delle piccole aziende nella City, degli imbalsamatori, delle ragazze da marito, dei venditori di ballate agli angoli di strada, degli spazzini a nolo, dei ladruncoli, degli avvocaticchi, delle levatrici, delle vecchie madri tiranniche… C’è tutto un mondo nelle pagine di Dickens, e per la maggior parte, questo mondo si agita nelle vie di Londra. Anzi, Londra stessa è un personaggio a pieno titolo: sempre scura, nebbiosa, fredda, un po’ crudele, con i suoi campanili che bucano il cielo grigio, con il fiume opaco, buono appena per i suicidi e il contrabbando, con le vie sporche e gli appartamenti pieni di muffa, i ponti deserti dove la gente si accoltella. Londra non è mai accogliente, di rado appare gaia, ma è sempre vivida, reale e pittoresca insieme.

Immagine4.jpgUno dei tanti misteri alchemici che resero questo scrittore disordinato e affannoso, crudele e allegro l’idolo della sua città. Quando morì, nel 1870, Dickens era immensamente popolare. Centoquarant’anni più tardi, lo è ancora, i suoi romanzi sono letti in tutto il mondo, e quanta gente forma la propria idea di Londra prima di andarci, sulle pagine di Canto di Natale, di Oliver Twist e di David Copperfield****? E il fatto è che della Londra di Dickens resta sorprendentemente molto, a volerla cercare. Passeggiando intorno a St.Paul in una giornata bigia, traversando i cortili del Temple sotto la pioggia, rispondendo al bigliettaio cockney dell’autobus in Fleet Street, attraversando il vecchio Mercato delle Mele a Covent Garden, ecco che David, Amy Dorrit, Mrs. Nickleby, i fratelli Pinch, Sam Weller, Dick Swiveller e tutti gli altri ci vengono incontro.

La Londra di Dickens, quella che ha nutrito i lavori di Dickens, quella che Dickens ha immortalato e, in parte, creato – quella Londra è ancora al suo posto.

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* E forse nemmeno terribilmente onesto: è possibile che il suo precipitoso trasferimento a Londra fosse il frutto di qualche colpevole leggerezza nel maneggiare il denaro destinato alle paghe della Royal Navy.

** Com’era d’uso all’epoca, moglie e figli “a carico” vivevano in prigione con il detenuto.

*** Tribunali, prigioni, fabbriche… suona familiare?

**** Confesso di essermi allarmata quando ho saputo che a Londra avrei abitato in una residenza universitaria a Southwark… perché Southwark, ai tempi di Dickens, era uno slum per nulla raccomandabile.

Gen 12, 2010 - Genius Loci    Commenti disabilitati su Genius Loci

Genius Loci

Bene, è giunto il momento di riscuotersi dall’accidia post-vacanziera, dalla tendenza al lamento da Lunedì Mattina Cosmico, dal salterellar di palo in frasca. E’ giunto il momento di concentrarsi su una nuova serie di post a tema.

Perciò, dalla settimana prossima, avrà inizio – rullo di tamburi… – Genius Loci, ovvero scrittori e città.

Questo nasce da una serie di lezioni tenute, nel quadro di un corso in collaborazione, presso la UTE di Mantova, e prevede cinque puntate con un’abbondanza di illustrazioni, letture, aneddoti, storia e letteratura, senza trascurare il minimo indispensabile di geografia. Nell’ordine (o forse no) avremo:

* Londra e Dickens

* Parigi e Dumas père

* Vienna e Joseph (non Philip) Roth

* Londra (di nuovo, sì…) e Virginia Woolf

* Edimburgo e Stevenson.

Considerando un’introduzione generale a mistica e realtà del rapporto scrittori/città, e un congedo per tirare le conclusioni a cose fatte, ciò significa che per sette settimane ci occuperemo di genio dei luoghi, luoghi del genio, luoghi e genio. Sette settimane a partire dalla prossima ci dovrebbero portare, se la matematica e il calendario non sono un’opinione (debatable matters, both of them), agl’inizi di marzo, quando nei prati fioriranno le violette e sbocceranno le margherite. E per allora si vedrà.

E sì, lo so: tre su cinque sono autori britannici… Ma d’altra parte non è una novità: io sono un’anglomane malata e convinta e voi, alla fin fine, ve lo aspettavate, nevvero?

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