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Dedica Un Racconto Al Tuo Autore Preferito – Due

Oggi vi segnalo (un po’ in ritardo, ammetto – mi cospargo di cenere il capo) un delizioso concorsino letterario: la seconda edizione di Dedica un racconto al tuo autore preferito, organizzato da Ferruccio Gianola.

Concorsino perché vi si richiedono racconti miniature di non più di 600 battute. Battute, badate bene. Non parole.

Delizioso perché come altro descrivere questa faccenda di dediche letterarie e di acronimi?

Personalmente ci sto ancora strologando (si direbbe che aappartenga al genere di gente per cui 600 battute sono un rovello più arduo di 6000 parole), ma intanto spargo la voce: rendete omaggio ai vostri idoli letterari, Mesdames et Messieurs. Dopo tutto, se foste idoli letterari, che genere di omaggio apprezzereste di più? Mazzolini di crisantemi, grani d’incenso o 600 battute di obliqua e letteraria dichiarazione d’amore?

A’ Chacun Ses Obsessions

Tendo ad essere riluttante quando mi trovo davanti a un meme – tendo a pensare che gratifichi più il blogger che i lettori. Tendo a chiedermi chi vorrà davvero sapere dieci cose di me, o che musica ho nell’iPod, o quali sono i luoghi che vorrei visitare… E così in genere tergiverso. A volte (ai limiti della scortesia, temo) persino quando sono invitata.

In questi giorni, però, ho intravisto in giro due esemplari della specie che mi attraggono da matti. Sarà che mi ci sono imbattuta su due dei miei blog prediletti, e sia Davide Mana che Alessandro Forlani ne hanno cavato altrettanti post con i fiocchi, sia come sia – in uno dei due mi sono infilata senza invito particolare, perché si tratta di scrittura, di temi ricorrenti, qualcosa a mezza strada tra fari lungo la costa e Alisei costanti.

Ossessioni, le chiama qualcuno in giro per la blogosfera – e non è del tutto inaccurato. Temi cui si ritorna, intenti perseguiti, passioni consolidate – qualcuna deliberatamente, qualcuna quasi da sè. Tutti ne abbiamo una manciata, non è vero?

Ebbene, ecco la mia costellazione.

meme,ossessioni,scrittura1) L’Inafferrabilità della Storia – In principio erano i libri di scuola, così rassicuranti con le loro interpretazioni univoche e le loro vicende sotto vetro. Poi cadde il Muro di Berlino e il vetro si ruppe: la storia succedeva in pratica, era fluida e travolgente e piena di correnti sotto la superficie, e il mondo poteva cambiare nel giro di una notte… Allora cominciai a studiare storia sul serio, scoprendo la varietà sconfinata di punti di vista, interpretazioni e letture, e la quantità di cose perdute che non sappiamo più, che non sapremo mai, e il variare di equilibri attraverso i secoli, e il peso della sconfitta, delle leggende, della letteratura. E così scrivo narrativa (e teatro) a sfondo storico, e tendo a scegliermi protagonisti minori, o sconfitti, o maltrattati attraverso i secoli – non per mettere ordine, ma per amore di questa iridescenza del passato. Ciò è poco scientifico, ma molto narrativo. ossessioni letterarie

2) Menzogne, Bugie, Fanfaluche, Omissioni – I miei narratori sono inaffidabili, le mie storie sono oblique, i miei personaggi mentono, i miei protagonisti tendono a mentire più di tutti, ad avere secondi fini, a manipolare il prossimo. Nella migliore (o peggiore) delle ipotesi, sono costretti a mentire pur non volendolo fare. D’altra parte, che cosa c’è d’interessante nella nuda e cruda verità? Alle storie servono conflitto, dubbi, sorprese, svolte inattese, domande, tesori nascosti, segreti rovinosi – senza contare il fatto che tutta la letteratura è, in via di principio, una vasta menzogna consensuale, e il rapporto tra arte, rappresentazione, convenzione e menzogna è affascinante di per sé. Ronald B. Tobias diceva che every story is a riddle, e aveva ragione da vendere. Trovo che la sincerità sia una virtù sopravvalutata nella vita – e del tutto dull in un romanzo. O a teatro.

3798118720.jpg3) Metanarrazione – Il modo in cui le storie nascono, cambiano, si raccontano, influenzano la realtà e ne sono influenzate mi interessa quasi quanto le storie stesse. A volte persino di più. Non dico che non mi capiti anche di scrivere qualche storia letterale, ogni tanto – ma se mi si offre la benché minima possibilità di intrecciare un filo metaletterario alla mia trama, chi sono io per oppormi? Piani temporali sovrapposti, gente che si racconta inaffidabilmente, scrittori che si scrivono, storie viste attraverso gli occhi di gente che le legge, possibilità alternative, teatro nel teatro… Tutto quel  che può servire a mostrare più di un’angolazione o più di uno strato mi rende ridicolmente felice. E sì, lo so: ho una mente contorta. prometheus_brings_fire_to_mankind.jpg

4) A (generally thwarted) Need for Better Colours – Le mie storie sono piene di gente che aspetta, immagina, prefigura, s’illude, si affanna per qualcosa che non può avere. O che, quando arriva, non è come doveva essere. Ho un debole per le cause perse, per la sconfitta, per l’irreparabile momento in cui l’attesa e la battaglia sono terminate, ed è troppo tardi per tutto tranne il rimpianto. Qualcuno dei miei personaggi s’illude davvero, altri sono perfettamente consapevoli di quel che stanno facendo – ma per tutti, alla fin fine, la vita sta nella cerca e non nel risultato. Nessuno ottiene mai quel che vuole – nemmeno quando sembra che sia così.

ruscha-the-end.jpg5) Cambiamento Irreparabile ed Epocale – Quel che un sacco della mia gente scritta vuole è difendere il proprio mondo. Solo che non può, perché il mondo in questione sta finendo, tramontando, cambiando per sempre. Non c’è modo di tornare indietro – la scelta è tra l’adattarsi al cambiamento e sposare oltre ogni ragionevolezza la causa del declino. I miei protagonisti, per lo più, scelgono la seconda opzione, perché ciascuno è sentimentale a modo suo, ed è così che lo sono io. L’ho già detto che nessuno ottiene mai quello che vuole?old_england_09.jpg

6) La Vecchia Inghilterra – La storia inglese, la lingua inglese, la letteratura inglese, il nonsense il paesaggio inglese, le città inglesi hanno – forse qualcuno di voi lo avrà notato – una certa tendenza a comparire nella mia conversazione e nelle mie storie. Adoro quest’isoletta che, da terra di conquista, è diventata il centro del mondo e poi, quando ha cessato di esserlo, ha continuato a comportarsi come se lo fosse. È la commistione di arroganza, spirito di contraddizione, culto della riservatezza, assurdità e ingegno, credo. E so bene che quell’Inghilterra che è principalmente un’idea, quella in cui mi riconosco così bene, sotto molti aspetti non c’è più – ma questo non cambia le cose. Lasciatemi giocare con la mia Inghilterra immaginaria, please

7) Kit Marlowe – Anche questo, dite6a00d8341cc27e53ef0147e38c3701970b-200wi.jpg la verità, l’avevate intuito. Da qualche anno, Kit è la mia ossessione in carica. Prima c’è stato (a lungo) Annibale Barca, e prima ancora il Barone Rosso, e Manfredi di Svevia… Marlowe è diventato una specie di figura del coraggio intellettuale: un uomo che coltivava  apertamente ogni genere di idea eterodossa in un’epoca in cui le idee eterodosse conducevano alla forca (preceduta da tortura e seguita da sbudellamento, annegamento e squartamento), che scriveva storie di aspirazione, ambizione e rovina, che descriveva menti alla perenne ricerca di conoscenza infinita… ecco, un uomo così è fatto per essere raccontato a teatro e nei romanzi. E badate, inclino a credere che di persona dovesse essere insopportabile, ma fa lo stesso. Dopo tutto è parte di una collezione di ossessioni – dove è scritto che deve avere una logica?

E non dico che sia tutto, ma di sicuro è tutto molto ricorrente.

E voi? Che cos’è che tornate a scrivere? O che tornate a leggere?

Elogio Del Taccuino

appunti,scrittura creativa,processi mentali,taccuini,kafka,leopardi,chatwin,fogazzaro, henry james, moleskineIl bigliettino salta fuori da un libro che non prendevo in mano da un po’ di tempo. Scivola di tra le pagine e plana a terra con vago errore, come i petali del Petrarca.

Foglio quadrettato di un notes pubblicitario – residuato della vita precedente – con orrido logo fuxia e nero e un diluvio di numeri telefonici, di segreteria, di fax…

Ma sopra ci sono delle annotazioni in vari colori:

1) a biro blu, uno snippet di dialogo in Inglese. Kit Marlowe che dice qualcosa a Thomas Walsingham. Non mi dispiace affatto: ci si sentono la voce beffarda, l’intento di provocare e, al tempo stesso, il fondo di leggera ansia del figlio del calzolaio che non ha ancora imparato fin dove può spingersi con il suo aristocratico mecenate – coetaneo in adorazione del poeta di genio, ma pur sempre quello che ha in mano i cordoni della borsa.

2) ancora a biro blu, tre righe di descrizione – e neanche queste mi dispiacciono del tutto. Marlowe-related a loro volta, sospetto, a giudicare dalle candele e dalla stanza rivestita a pannelli di quercia.

3) penna a inchiostro gel viola: un’idea per un post. Neanche del tutto indecente. Ve la ritroverete qui, un momento o l’altro.

3b) con la stessa penna viola, un adolescenzialmente entusiastico LIKE THESE!!! con tre punti esclamativi e tanto di freccette in direzione del dialogo e della descrizione. Arrossisco.

4) penna a inchiostro gel verde: altra idea per un altro post. Anche questo verrà un giorno e – tanto perché lo sappiate – con i nomi non abbiamo ancora finito.

5) biro blu diversa dalla prima: scrawl scarabocchiato in condizioni un tantino estreme, si direbbe, e in tutt’altra direzione rispetto agli altri. THE COMPANY, dice. Non so, mi par di ricordare che sia un film che parla di una compagnia di danza classica… vi dice nulla?

Sono sproporzionatamente felice di avere ritrovato questi appunti. Li userò tutti, in un modo e nell’altro, ma avrei potuto sopravvivere anche senza. E tuttavia inciampare in questa carotatura di pensieri volanti, ideuzze e noterelle misti assortiti mi è piaciuto da matti.

È anche un sostegno alla teoria secondo cui tenere sempre a portata di mano qualcosa su cui scrivere è una sana, produttiva e soddisfacente idea per uno scrittore – teoria provata dalla quantità di scrittori che la pratica(va)no.

Fogazzaro aveva sempre un quadernetto in tasca. Lo si sapeva, ma si credeva che ne fossero rimasti pochi o nessuno. Di recente ne sono saltati fuori parecchi, pieni di annotazioni, appunti e rimuginamenti – pietruzze grezze che poi si ritrovano lucidate e incastonate nelle opere finite.

Di Leopardi vogliamo parlare? Lo Zibaldone è forse IL taccuino letterario per eccellenza. Secondo Iris Origo, biografa classica del Giacomo, l’idea gli fu suggerita dall’abate Antonio Vogel, secondo cui ogni letterato avrebbe dovuto avere un piccolo caos per iscritto, un taccuino di sottiseries, adrersa, excerpta, pugillares, commentaria… una riserva da cui potesse uscir letteratura come il sole, la luna e le stelle erano emerse dal caos.

I Quaderni Azzurri di Kafka forse non erano precisamente dei taccuini, ma di sicuro erano più piccoli dei suoi abituali diari e, che se li portasse dietro o meno, ci annotava aforismi, appunti e strologamenti filosofici.

Henry James usò i taccuini per tutta la sua carriera, annotandoci idee, possibilità, tratti di caratterizzazione per i suoi personaggi, nomi e indirizzi, osservazioni personali, commenti, impegni, e ogni genere di minuzia anche solo vagamente letteraria – tra l’altro la sua solenne decisione di abbandonare per sempre il teatro dopo il fiasco di Guy Domville. Sono un documento affascinante e se ne può leggere qualcosina qui. appunti,scrittura creativa,processi mentali,taccuini,kafka,leopardi,chatwin,fogazzaro, henry james, moleskine

Bruce Chatwin era un consumatore seriale di taccuini – e li voleva tutti di un particolare tipo: quelli che poi, usciti di produzione e ripresi da una ditta italiana, sarebbero diventati i Moleskine. E non si capisce fino in fondo perché i Moleskine debbano essere conosciuti universalmente come “i taccuini di Hemingway”, quando in realtà erano quelli di Chatwin.

Insomma si direbbe che la storia della letteratura sia piena di taccuinatori compulsivi, e non è particolarmente strano. Da un lato un taccuino, con quelle pagine che sembrano supplicare “riempimi! riempimi!” è un magnifico incentivo a scrivere. E poi, più seriamente, più si è esercitati a cogliere idee in ogni dove (e lo scrittore medio lo fa tutto il tempo), più le idee si presentano. Ma essendo creature dispettose, temperamentali e di pessimo carattere, le idee arrivano a tradimento, germogliano irrepressibilmente e, se non si è pronti a dar loro retta, si offendono e si dileguano. Non c’è modo di dire a un’idea “aspetta, ne riparliamo fra dieci minuti – quando non starò guidando/facendo la spesa/facendo yoga/calcolando un tetto/trapiantando le begonie/prendendo sonno.” L’idea va catturata immediatamente e imprigionata, altrimenti è perduta. E spesso e volentieri l’unico modo per riuscirci è l’immemorabile tradizione del taccuino – da portarsi sempre dietro.

Perché, come dice MacNair Wilson, “Tutto quel che vale la pena di essere ricordato, vale la pena di essere scritto.”

Serendipità Storica

assedio di costantinopoli, mehmed secondo, romanzi storici, diana gabaldonÈ successo di nuovo.

Vi ricordate del mio romanzo/due romanzi/trilogia sull’assedio di Costantinopoli, eterno work in progress? E vi ricordate del mercante d’olio?

Ebbene ieri sera, nel corso di una di quelle campagne notturne a caccia di informazioni oscure, mi è capitato sotto il mouse un articolo di una rivista americana a proposito di Ciriaco da Ancona. Ora, Ciriaco da Ancona era un erudito quattrocentesco, forse precettore del sultano Mehmed e forse no, ma quello che mi ha dato la pelle d’oca è stato trovare, in una nota all’articolo, un riferimento a un segretario greco, al servizio di Mehmed durante l’assedio, di nome Dimitrios Apocaucos Kiritzis. 

Perché il fatto è che la mia prima stesura contiene un segretario greco di nome Demetrios – solo che di Kiritzis non sapevo nulla. A quanto pare è una figura molto oscura, citata in un paio di fonti di scoperta relativamente recente, e non se ne parla in nessuno dei miei autori di riferimento. Il mio Demetrios era del tutto fittizio – o così credevo.

Per cui sì, è remotamente possibile che ne abbia letto di sfuggita in qualche tomo di storia ottomana o bizantina. E poi invece è possibile che sia successo di nuovo quello che Diana Gabaldon chiama historical serendipity, ovvero particolari fittizi che, ex post facto, si rivelano non solo plausibili, ma, in qualche misteriosa maniera, veri.

E se è così, è la seconda volta che succede. E se è la seconda volta che succede, si direbbe che questo libro voglia proprio essere scritto. E se questo libro vuole proprio essere scritto, chi sono io per ignorare tutti questi segni del destino?

E sì, lo so: mi sto incartando in discorsi dalle allarmanti sfumature new age… è che non capita tutti i giorni questa gradevole sensazione di essere sulla giusta strada. Non capita spesso che la storia dia di queste strizzatine d’occhio. Non capita spesso di incappare in serendipità siffatte. Lasciate che mi ci crogioli un po’.

 

L’Itala Giuditta

Mi piace l’idea che ciascuno celebri l’Unità dedicando all’occasione un po’ di quel che sa fare meglio. Come sapete, io scrivo.

E dunque, Signore e Signori, Lettori Diletti, Italians, Citizens, Friends, non senza un pizzico di orgoglio vi presento la mia novella risorgimentale-steampunk che, si dà il caso, è anche il mio primo libro elettronico: L’Itala Giuditta – Opera Steampunk in Cinque Atti.

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L’Itala Giuditta.pdf

 

 

 

 

 

 

Vi si parla di moti, d’opera, di macchine volanti e di signore ostinate. Cliccate sul link per scaricare il PDF. Per ora c’è solo quello, ma si prevedono sviluppi.

E intanto che ci siamo, ecco anche il (piccolo) booktrailer:

Buon Centocinquantesimo!

 

Se poi voleste
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Feb 5, 2011 - scribblemania    Commenti disabilitati su Febbre Creativa

Febbre Creativa

Questo sarà un post solo limitatamente lucido.

Il fatto è che l’anno scorso il vaccino anti-influenzale mi ha scatenato una reazione violenta: una settimana di febbre, dolori e gioie varie…

No, naturalmente il fatto è un altro. Il fatto è che quest’anno ho deciso di non vaccinarmi – l’influenza non poteva essere peggio della reazione al vaccino, giusto? Ed ero felicemente giunta in febbraio sana. Se si eccettua un mese di bronchite in novembre, ma quella è un’altra faccenda. Poi ho avuto la cattiva idea di felicitarmi con me stessa in proposito, and of course I jynxed it. Ieri mattina mi sono alzata con l’impressione di non stare del tutto bene, poi mi è venuta la febbre, e poi… credetemi: non volete i particolari.

Nondimeno devo, devo, devo scrivere. Teatro. Atteso. Ansiosamente atteso. Il genere di attesa che genera telefonate, sguardi significativi, richieste specifiche, velati solleciti via mail… Quindi scrivo lo stesso, l’ho fatto ieri e lo farò anche oggi.

Ciò che mi rode, tuttavia, è la circostanza che ora v’illustro. Ieri pomeriggio (37,7 C°), riapro il file e rileggo quel che ho scritto quando i miei centigradi interni erano nella norma. E inorridisco, e mi domando come ho potuto scrivere ciò, e casso di slancio due pagine – senza prima averle copiate da un’altra parte. E poi riscrivo, e alla fin fine non sono del tutto insoddisfatta del mio lavoro. Nel frattempo, con l’approssimarsi della notte, il termometro segna trentotto e due, and counting.

Considerando che in genere cesso di connettere alla prima linea di febbre, che non avevo chiuso occhio in tutta la notte, che continuavo a interrompermi, che ho la testa piena di biglie di vetro – e continuano a ruotare*: starò combinando qualcosa di sensato, o a influenza smaltita vorrò fare harakiri con una penna stilografica? L’aver cancellato sdegnosamente due pagine che, da lucida, mi erano parse buone mi agita più che un pochino…

Stanotte non è andata affatto meglio. Anzi: ogni volta che mi appisolavo sognavo Virgilio, Creusa, Turno e compagnia cantante. Chissà, forse avrei fatto bene a prendere qualche appunto. E immagino che adesso mi rimetterò al lavoro. O forse no. Facciamo un patto: se rileggendo quel che ho scritto ieri vengo assalita da nuove furie distruttive, metto da parte tutto e aspetto che mi passi la febbre. E magari cerco di recuperare quel che ho cancellato ieri. Se invece mi piace ancora, vado avanti e, quando questa cosa virgiliana andrà in scena, potrò dire al pubblico della prima** che scriverla è stato un lavoro febbrile. Che pun meraviglioso, vero?

E sono certa che c’è una fallacia logica grossa come l’Oregon, nel patto che ho appena stretto con me stessa, ma al momento mi sfugge. Quindi forse, per essere prudenti, quale che sia il responso, le pagine cancellate le ripesco, eh?

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* Avete mai provato a soffregare tra loro due biglie di vetro? Fatelo e sappiatemi dire.

** Compagnia che, alla prima, chiama l’autore sul palco a “dire due parole”.

Gen 22, 2011 - scribblemania    Commenti disabilitati su Narrativa Lampo

Narrativa Lampo

Le linee guida di Glimmer Train impongono un limite massimo di 12000 parole per storia. Non c’è limite minimo – anche se raramente una storia al di sotto delle 500 parole suona completa.

Altrove le storie al di sotto delle 500 parole sono ricercate specificamente e fatte oggetto di appositi concorsi, sotto il nome di flashfiction. Il che non significa che a GT abbiano torto, anzi: la difficoltà sta, appunto, nel raccontare in maniera compiuta una storia in 500, 400, 200 o 100 parole*.

E’ difficile. Tanto difficile che la maggior parte di ciò che va sotto il nome di flashfiction non è costituita da storie, ma da bozzetti descrittivi, squarci di prosa poetica, fettine e altre cose sperimentali. Non storie. Le storie sono rare, col risultato che il genere è complessivamente noioso da leggere. Non so se esista davvero gente che legge per diletto l’altrui flashfiction, e non la sto consigliando come lettura.

Sto consigliando di scriverne, cavallo di tutt’altro colore: dover infilare tutti gli elementi di una storia – trama, personaggi, conflitto, atmosfera, descrizione – in poche centinaia di parole è un lavoro di cesello, perché obbliga a considerare il peso e la necessità non solo di ogni frase e concetto, ma di ogni singola parola. Che cosa è davvero essenziale? Che cosa può essere sottinteso? Come indurre il lettore a immaginare tutto quello che non c’è spazio per dire?

Favoloso esercizio che costringe a guardare da vicino la propria scrittura, ad analizzarla al microscopio – o meglio: con una lorgnette da gioielliere. Si possono fare sconcertanti scoperte sul proprio rapporto con gli aggettivi, per esempio. O sulla natura delle proprie costruzioni sintattiche, o sul proprio metodo di caratterizzazione. O sui propri inizi… oh, gli inizi!

Naturalmente, scrivere bozzetti descrittivi non vale. Bisogna sforzarsi di farne una storia, una storia, una storia. In 500 parole prima, poi in quattrocento e via amputando – magari di 50 in 50. Quand’è che smette di essere una storia? Qual’è il limite dell’irrinunciabilità? Che cosa segna il confine tra la potatura e la lobotomia?

Attenzione: il gioco genera assuefazione e dipendenza.

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* Una volta ho partecipato a una cosa chiamata 60 Words Epics. Era un tantino estremo…

Potando “A Soul For Cunning”

Ieri credevo di passare una giornata di vacanza e di guardare Fire Over England. Credevo. Invece salta fuori – all’ultmissimo momento, si capisce – che i termini di un certo premio letterario a cui voglio tanto partecipare scadono martedì. E questa volta ho il racconto perfetto. Scritto per tutt’altro, è vero, ma assolutamente perfetto anche per questo. Così vado sul sito e, per prima cosa, constato un dettagliuzzo che proprio non ricordavo: massimo 5000 parole.

Cribbio.

E dico cribbio perché ASfC (il presunto racconto perfetto) è più lungo. Un bel po’ più lungo. E che si fa? O si lascia perdere o si passa la domenica a potare drasticamente. Io ho potato drasticamente, e la faccenda è andata così:

8.35 – Rapido calcolo: devo amputare 923 parole su 5923. Tanti auguri.

8.37 – Cominciamo con una seria rilettura…

8.50 – …e decidiamo che no, non è umanamente possibile. Il racconto funziona, è davvero piuttosto buono, e mi piace tanto così com’è, con tutti i suoi pezzi, parole, ramoscelli là dove li ho messi – ciascuno per una buona ragione. Fine della storia. 

9.15 – Però…

9.18 – Non è un peccato lasciar perdere? Mi piace questo premio, mi piace proprio tanto. Ci ho già provato diverse volte, con racconti che non erano buoni nemmeno la metà di questo. Hm.

9.20 – Ok, vediamo se non c’è davvero niente da fare.

9.21 – Ulteriore rilettura. E per dimostrare che faccio sul serio, faccio una copia di ASfC in un altro file .doc, pronto per essere potato. Mi sento come se stessi legando il mio gatto al tavolo della vivisezione.*

9.28 – A un certo punto della rilettura, mi viene l’uzzolo di contare quante parole ci sono in una pagina. Risposta: circa la metà di quelle che devo tagliare. Oh. E sì, è sempre circa un sesto del totale, ma così fa ancora più impressione.

9.31 – M’imbatto in uno speech tag particolarmente elaborato che in effetti potrei tagliare. Lo faccio, rileggo il paragrafo e… ehi! Scorre persino meglio! Adesso sono più vicina all’obbiettivo. Di ben 7 (sette) parole.

9.37 – Incoraggiata dal piccolo successo, ricomincio daccapo: leggo ad alta voce, elimino un aggettivo qui, una similitudine là…

9.45 – Continuo.

9.55 – Continuo.

10.03 – In uno sprazzo di lucidità mi chiedo dove credo di arrivare una parola alla volta, ma continuo. Sprazzo molto breve.

10.08 – Inciampo in un passaggio… non è un cattivo passaggio, ma forse non è del tutto necessario? Ci penso su, provo a sistemare mentalmente il paio di riferimenti che resterebbero in sospeso. Potrebbe anche funzionare.

10.14 – Agisco. Mica male, no? Hm. Però, anche sistemando qui e spostando là, la transizione suona forzatella anzichenò. Sono così grata a chiunque abbia inventato quella simpatica funzione ANNULLA. Ci avrei guadagnato 40 parole, ma tirem innanz.

10. 24 – Arrivo alla fine e, tutto sommato, non sono insoddisfatta della ripulitura. Peccato non averla fatta prima di spedire a GT… E siamo a 5486 parole. Non è favoloso? 437 andate; ne restano solo 486.

10.25 – Peccato che non siamo ancora a metà strada e non veda bene che cos’altro potrei tagliare senza menomare seriamente la storia.

10.26 – Per la seconda volta oggi, ci rinuncio. Proprio non c’è modo.

10.27 – Migro in cucina e comincio a dare una mano col Christmas Pudding: taglio la mela a pezzettini, spremo l’arancia e il limone, e sbaglio a pesare tre tipi diversi di uva passa- del che mi accorgo solo dopo avere innaffiato col brandy abbondanti quantità di frutta secca non necessaria. Il tutto, naturalmente, perché sono troppo occupata a rimpiangere di non partecipare al premio… Mi s’ingiunge di togliermi di torno e lasciar lavorare la gente, al che mi preparo un’altra tazza di tè. E c’intingo dentro due biscotti al cioccolato – mai una buona idea.

11.06 – Oh, che diavolo! Mi rimetto al computer, ben decisa a far vedere ad ASfC chi è che comanda. Dopo tutto sono già a metà strada, giusto? Che può mai volerci?

11.07 – Questa volta si fa sul serio – con metodo: pondero con cura la trama, passo in rassegna i personaggi in cerca di gente superflua, enuncio in un paragrafino il concetto originario, così da poter sfrondare tutto quello che non è strettamente attinente.

11.29 – Peccato che la trama sia già molto condensata, i personaggi soltanto due e il concetto tale da richiedere praticamente tutto quello che c’è per essere comprensibile. Ho lavorato per benino, sono stata stringata, essenziale, concentrata, non ho mai divagato e, quel che si poteva sfrondare, l’ho già sfrondato tra le 9.31 e le 10.24. Non è che andiamo molto bene.

11.30 – Adesso basta. Ricomincio da capo, brandendo un metaforico machete. Ogni tanto individuo un paragrafo o due che forse, con la debita cautela e una certa dose di sacrificio, potrebbero essere amputati senza eccessivo pregiudizio. Così ci penso tetramente per un paio di minuti e poi salta sempre fuori qualche ragione per cui non si può.

 11.47 – Però… però… All’improvviso trovo una sezione – un’intera sezione! – che, inclinata a quarantacinque gradi, tinta di violetto e guardata con la coda dell’occhio, potrebbe latamente definirsi una digressione. Una vasta digressione, anche: 415 parole, vale a dire nove decimi dei miei problemi risolti in un colpo solo – magari un po’ meno, considerando la necessità di coprire il buco con una transizioncella…

11.50 – A dire il vero, molta della roba in questione mi piace davvero. La tentazione, tuttavia, è forte…

11.56 – Ok, chiudiamo gli occhi e pensiamo all’Irlanda. CANC.

11.57 – Tra l’altro, a taglio effettuato, mi accorgo che ci sono altre 47 parole dispensabili, visto che servivano solo a introdurre quella che, tutto considerato, forse era davvero una digressione. CANC. CANC. E mi mancano solo 24 parole. Irlanda, aspettami!

11.59 – Però, pensandoci bene… Non è detto che ASfC debba rimanere per sembre sotto le 5000 parole, mentre invece una versione pre-sfrondamento (ripulità ma non amputata) potrebbe sempre farmi comodo, prima o poi. Dove ho letto che la lungimiranza è la virtù dei grandi? Annullo gli ultimi tre CANC, seleziono tutto, copio, incollo in un terzo file .doc, lo salvo con uno di quei nomi utili e significativi che non riuscirò a ricordarmi quando ne avrò bisogno**, torno al mio file, cancello di nuovo la digressione e mi sento molto più in pace con me stessa e il creato universo. Ora, quelle 24 parole…

12.11 – Mi si chiede se mi secca molto apparecchiare la tavola, nutrire il gatto e ricordarmi di prendere l’antibiotico***. Salvo accuratamente quel che resta di ASfC e mi dedico ad apprestare il desco famigliare.

13.42 – Mi rimetto all’opera. Per prima cosa faccio un conteggio parole e il computer mi dice 5016. Come sarebbe a dire 16? Non me ne mancavano 24? Colta da panico, controllo di non avere cancellato qualcosa di troppo… No, è tutto a posto, salvo la mia capacità di effettuare semplici calcoli aritmetici.

13.58 – Mentre controllo che i tagli non si siano lasciati dietro incongruenze, mi rendo conto che la soluzione più semplice è eliminare un altro paragrafo. CANC qualche riga e, come per magia, tutte le potenziali incongruenze da potatura sono prodigiosamente sparite. E per di più, il conteggio parole risulta 4953. E vai!

14.02 – Rileggo tutto da capo. Ad alta voce. Per sicurezza. E ogni tanto tagliuzzo ancora qualche fogliolina vagabonda.

14.12 – Ripristino una riga di descrizione che avevo eliminato con particolare riluttanza.

14.26 – Mi coglie il dubbio che, essendo adesso ASfC destinato all’Irlanda, forse sia meglio modificare lo spelling in British English. Tutto da capo, con l’aiuto del controllo grammaticale di Word.

14.39 – E a questo punto, credo proprio che ci siamo. 4568 parole. Salvo e lascio riposare per un’oretta – dedicandomi nel frattempo alla seconda fase del pudding.

16.27 – Se vi dicono che per la seconda fase del pudding basta un’oretta, non credeteci. Torno al computer, stampo la nuova versione di ASfC e, armata di tazza di tè e pennarello rosso, m’installo nella poltrona di fianco al fuoco per un ultimo controllino. Ci sono cose più facili che fare un ultimo controllino con 6 kg di soriano ronfante in grembo, ma pizzico nondimeno una virgola indebita, due errori di battitura e uno spazio doppio.

17.04 – Inserisco le correzioni, stampo un’altra copia e la piazzo sulla tastiera per l’ultimissimo controllo – domani mattina. In tutta franchezza, non voglio sentir nominare ASfC per almeno dodici ore, grazie.

E questo era ieri. Adesso mi dedico all’ultimissimo controllino e poi ASfC (versione breve) parte attraverso l’etere con destinazione Irlanda. Wish me luck!

 

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* Forse a questo punto, per evitare di sembrare isterica, farò bene a spiegare che ASfC è già stato revisionato, parzialmente riscritto, decapitato due volte, asciugato quanto si poteva e levigato con ogni cura – prima di essere mandato a Glimmer Train.

** Voi vi ricordereste qualcosa come polishedasfc.doc fra un anno o due?

*** L’avevo detto che da due settimane e un po’ sto godendo le gioie di una bronchite irriducibile?

Nov 16, 2010 - scribblemania    2 Comments

Cattive Abitudini

Nella scrittura, come in tutte le cose, ci sono buone idee e cattive idee. E, come in tutte le cose, non è così facile distinguere le une dalle altre, perché ci sono idee controproducenti tout court, e idee apparentemente pessime, che però per qualcuno funzionano come la panacea.

* Editare mentre si scrive, per esempio, è una pessima idea. Se pretendo di non procedere fino a quando pagina 1 non sarà perfetta in ogni sua virgola, allora posso star fresca. Confesso che per me c’è voluto del bello e del buono per imparare che una prima stesura è solo una prima stesura, ma prima di revisionarla è meglio averla completata. Un po’ per la cronica insicurezza degli scrittori, un po’ perché la procrastinazione può prendere le forme più disparate, un po’ (nel mio caso) per deformazione professionale, la tentazione di dare una sistematina anziché procedere è sempre forte. Particolarmente insidiosa, perché si ha l’impressione di lavorare e invece non è così. Provate a immaginare di limare il vostro primo capitolo alla perfezione, scrivere gli altri ventitre capitoli e, solo allora, accorgervi che il primo capitolo dopo tutto non vi serve…

* Scrivere a un computer connesso a Internet è un’altra abitudine non eccessivamente sana. Perché magari ci si stacca dal proprio .doc solo per un attimo, solo per controllare la data di fondazione di quel tal giornale milanese, ma poi da quello si divaga su un’affascinante storia della stampa nell’Italia pre-unitaria e, mentre si è lì, ecco il cinguettio che annuncia l’arrivo di una mail – che sia il cliente da cui si aspettano notizie con tanta ansia? Come si fa a non dare un’occhiata? Invece no, è gente che sostiene di non avere ricevuto la vostra fattura di agosto (e aspettano adesso a dirvelo?), seguita da una comunicazione via FaceBook a cui dovete assolutamente rispondere. E mentre siete lì, aggiornate il vostro stato per dire quanto vi è difficile concentrarvi stamattina, e poi controllate anche su Amazon, per vedere se vi hanno spedito il benedetto libro dall’America o no… Ehi! Ma non stavamo scrivendo?

* By the same token, ho fatto disinstallare dal mio portatile (le cui magagne di connessione ho lasciato volontariamente irrisolte) anche tutti i giochi. Chi non ha mai pensato di fare una piccola pausa con un solitario o una partitellina a Campo Minato? Dopo tutto, quando si è proprio bloccati, fare qualcosa di diverso per cinque minuti può essere una buona idea, no? Ne riparliamo quando i cinque minuti si saranno gonfiati in un’oretta buttata al vento.

* Questa non è una forma di procrastinazione come le altre, ma per me è un danno inverecondo: state scrivendo qualcosa che, per un motivo o per l’altro (diciamo una scadenza o autoimposizione), dovete proprio scrivere. E intanto vi germoglia un’idea per qualcosa di diverso e molto attraente. Qualcosa per cui non avete tempo, né adesso né nell’immediato futuro. Qualcosa che vi piacerebbe proprio tanto scrivere… Ma non si può, e allora ricacciate l’Idea Intrusa in un angolino buio e vi rimettete all’opera da bravi. Ma naturalmente l’II non vuole saperne di essere ricacciata in un angolino buio, e più tentate d’ignorarla, più vi piomba addosso a tradimento, sempre più interessante, sempre più ricca di possibilità. Allora cedete per un’ora: prendete il vostro quaderno (o file) delle idee e buttate giù l’Idea Intrusa con annessi e connessi – e probabilmente vi ritrovate con materiale sufficiente per una trilogia. Be’, adesso è lì, annotata con cura, pronta ad aspettare che siate liberi per occuparvene… E questo dovrebbe risolvere il problema. Per me, francamente, tende a non risolverlo affatto. anzi: sentendosi presa in considerazione, l’II seguita a germogliare in ogni possibile direzione, sviluppando boccioli troppo belli per essere ignorati… e così io apro in tutta buona fede l’atlante storico per controllare la diffusione delle linee telegrafiche del Regno di Sardegna nel 1857, ma poi com’è che mi ritrovo a contemplare una carta della Repubblica di Venezia nel 1468?

* Risultato delle cattive abitudini summentovate, prese singolarmente o in una qualsiasi combinazione, è spesso il ridursi all’ultimissimo momento. Di sicuro non è bello fare le quattro scrivendo furiosamente, notte dopo notte, nel tentativo di concludere l’opus entro mercoledì, eppure non posso fare a meno di ammettere che tende a funzionare. A parità di fattori, non c’è nulla come una bella scadenza incombente per rendere alacri e creativi e pervicaci fino alla fatidica paroletta di quattro lettere…

Il che sembrerebbe, tutto sommato, contraddire il succo di questo post, provando che la procrastinazione non è un vizio ma una virtù – conducendo come conduce a esplosioni di creatività da panico. Hm, non sono sicura che la logica di questa conclusione sia del tutto solida, ma al momento suona attraente.

Magari, cinque minuti per un solitario li ho, dopo tutto?

Ott 23, 2010 - scribblemania, teatro    Commenti disabilitati su Non sapevo che scrivessi per l’infanzia…

Non sapevo che scrivessi per l’infanzia…

BibiPiegh3.jpgIl titolo del post è qualcosa che mi sento ripetere spesso ultimamente – in pratica, ogni volta che accenno al debutto di Bibi e il Re degli Elefanti.

Non vi eravate dimenticati di Bibi, vero? Stasera alle 6, a Gonzaga (MN), presso l’Arena Spettacoli della Fiera Millenaria. Sono in fibrillazione. Non ho mai visto le prove, ho avuto contatti sporadicissimi con la prim’attrice, solo un po’ più frequenti con la costumista (costumista di lusso: nientemeno che Francesca Campogalliani, presidente dell’Accademia teatrale omonima), ho lo stomaco pieno di farfalle e la sensazione che le 6 di stasera non arriveranno mai.

Ma non è questo il punto. Il punto è che più di una persona ha reagito levando le sopracciglia e dicendo, con variabili gradi d’incredulità: Non sapevo che scrivessi per l’infanzia…

Tendo a rispondere che non lo sapevo nemmeno io, perché è il genere di risposte che si dà, e perché Bibi è nato in modo bizzarro, a metà via tra una commissione e una scommessa, per poi catturarmi completamente mano a mano che procedevo. Tra l’altro, è una storia contemporanea, giusto? Non mi si può più accusare di non scrivere mai nulla di contemporaneo – ma non divaghiamo.

Il fatto è che qualche volta, lo confesso, scrivo per l’infanzia. Ci sono le fiabe che ho scritto per la Scuola Materna Farinelli, c’è Bibi e il Re degli Elefanti, e poi adesso ho un adorabile figlioccio, per il quale ho cominciato a scrivere storie.

E’ una strana esperienza, scrivere per i bambini. Il linguaggio, il tono, i colori – è tutto diverso. Avevo editato storie per bambini, e quindi me n’ero occupata non solo da lettrice, ma scriverne ha richiesto una serie di affascinanti esercizi: bisogna ricordarsi molto bene della bambina che si era, e scrivere per lei senza dimenticarsi che sono passati decenni tra quella bambina e i piccoli lettori odierni. Bisogna ritrovare il senso di magia che si vedeva racchiuso nelle storie – non necessariamente nelle favole, ma nel fatto che pagine bianche e parole nere contenessero ogni possibile genere di personaggi, posti e vicende. E al tempo stesso…

Maria Rosaria Berardi, un’autrice per fanciulli del tutto fuori moda, chiudeva una sua Nota dell’Autore augurandosi che il suo romanzo piacesse ai piccoli lettori. “E se vi piacerà, sarà perché avrò saputo scriverlo tenendo gli occhi fissi al lumicino che brilla laggiù, dietro i cancelli chiusi del giardino incantato della mia infanzia.”

Linguaggio sentimentale e un po’ fané, mi rendo conto, ma il concetto mi piace ancora. Ci sono dei cancelli chiusi, tra me e i miei otto anni – l’età della mia protagonista Bibi, l’età dei miei piccoli spettatori – ma da questa distanza, il mio mestiere è recuperare il senso d’incanto di allora e trasmetterne almeno la luce e il gusto a un’altra generazione di bambini.

Fra qualche ora saprò se ci sono riuscita – almeno un po’ – per questa volta.