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Shakespeare – La Verità Nascosta (Con Molta Cura)

Quest’anno, per una combinazione di ragioni varie e imprevedibili, del Festivaletteratura non ho visto granché. Però, fra una ragione varia&imprevedibile e l’altra, sono riuscita a vedere una proiezione di Shakespeare – The Hidden Truth, il documentario che racconta le peregrinazioni dell’organista norvegese Petter Amundsen e del dottorando e attore shakespeariano Robert Crompton alla ricerca del santo graal della letteratura anglosassone: i manoscritti originali di Shakespeare.

Che comunque non sono stati scritti da Shakespeare.

O forse sì, ma non è che importi tantissimo.

E se la penultima riga non vi ha sorpresi poi troppo, la seconda potrebbe avervi incuriositi.

Perché di gente che sostiene che il canone shakespeariano è stato scritto da qualcuno di diverso c’è tutta una fauna, negli ultimi secoli – ma un Norvegese secondo cui, in fatto di canone shakespeariano, il Vero Autore è l’ultimo dei problemi… be’, questo è abbastanza inconsueto.

shakespeare, first folio, petter amundsen, rosacroce, oak island, francis bacon, festivaletteraturaAllora, vediamo di andare con ordine. Petter Amundsen, che è un organista, un massone e un occultista appassionato di steganografia, la sua carriera di cospirazionista l’ha cominciata da baconiano. Come altri prima di lui, quando si è messo a fare le pulci al First Folio armato di compassi e goniometri, ci ha trovato un subisso di messaggi cifrati, simboli massonici, acrostici e triangoli che puntavano tutti a Sir Francis Bacon.

Ora, noi sappiamo che il buon Bacon è il capofila dei cosiddetti Veri Autori, grazie agli sforzi dell’omonima ma non imparentata Delia Bacon, a metà Ottocento. In genere, l’attribuzione è contestata sulla base dell’abissale diversità di stile tra le opere di Bacon e quelle shakespeariane, per non parlare del fatto che Bacon ha pubblicato molto nel corso della sua vita, con il suo nome e in un’abbondanza che, insieme ai suoi studi e alle sue attività diplomatiche, non doveva lasciargli molto tempo per il teatro… shakespeare, first folio, petter amundsen, rosacroce, oak island, francis bacon, festivaletteratura

Ma Amundsen sostiene che queste obiezioni non si applicano alla sua teoria, secondo cui poco importa chi abbia scritto tutto quel teatro, perché il punto non è quello. Il punto è l’edizione a stampa del 1623, il First Folio, appunto, di cui potete vedere un bell’e-facsimile qui. Secondo Amundsen, il First Folio contiene una complicata serie d’indizi steganografici e astronomici volti a rivelare Bacon come vero autore e rivelare il misteriosissimo nascondiglio – celato su un’isola canadese – della menorah del Tempio di Gerusalemme e dei manoscritti originali di Shakespeare.

Er… yes.

Tutto si spiega, secondo Amundsen, quando si considera che Bacon era il gran maestro dei Rosa Croce – una specie di ordine segreto – talmente segreto che della sua esistenza si dubita un nonnulla – i cui membri, filosofi e mistici, aspiravano a una “riforma generale dell’Umanità. Con la maiuscola.

E allora Bacon avrebbe scritto il canone shakespeariano* per cominciare a educare l’Umanità – o almeno quella fetta che si trovava a Londra – attraverso il teatro, e nasconderci dentro la mappa del tesoro.

shakespeare, first folio, petter amundsen, rosacroce, oak island, francis bacon, festivaletteraturaE il film mostra Amundsen che conduce per questi sentieri tortuosi Robert Crompton, un giovane studioso shakespeariano inglese, che parte da scettico blu e finisce dubbioso a sondare il fondale cavo di uno stagno sull’isola di Oak Island…

E ammetto che il film è ben fatto, e che la caccia al tesoro diventa appassionante, e che le coincidenze sono numerose. O sembrano numerose – perché, come Robert, non posso fare a meno di pensare che chi cerca coincidenze e segni finisca sempre col trovarne.

Ma…

E probabilmente sapete già che in materia di Authorship Question sono agnostica, per cui non vi stupirà che abbia dei dubbi sulla teoria di Amundsen, vero?

In primo luogo, chiunque abbia scritto le opere di Shakespeare, come sapeva, all’inizio degli anni Novanta del Cinquecento, come scriverle perché le lettere e parole giuste finissero al posto giusto giusto nella versione a stampa in folio nel 1623, per avere tutti quegli acrostici, triangoli massonici e alberi della vita proprio alle varie pagine 53?**shakespeare, first folio, petter amundsen, rosacroce, oak island, francis bacon, festivaletteratura

E sì, Amudnsen mostra un paio di apparenti errori di impaginazione che fanno pensare all’intento di avere pagina 53 proprio dove serve, ma non posso fare a meno di pensare che servisse qualcosa di più complicato di qualche salto di pagina per incorporare tutti quei messaggi cifrati nel testo. Come lo sapeva il misterioso scrittore?

Mi si obietterà che si poteva sempre modificare il testo ad hoc – ed è vero ed era pratica del tutto comune anche senza preoccupazioni mistico-filosofiche. Ma allora mi chiedo: un confronto con le pubblicazioni precedenti in quarto e in octavo, che cominciarono ad apparire fin dal 1594, e che tendevano ad essere pirateria allo stato puro***, evidenzia modifiche tali – soprattutto in corrispondenza delle pagine incriminate – da supportare l’ipotesi?

E tuttavia, mi resta il dubbio più ingombrante: perché?

shakespeare, first folio, petter amundsen, rosacroce, oak island, francis bacon, festivaletteraturaMenorah a parte, secondo Amundsen, sotto Oak Island sono nascosti i manoscritti originali di Shakespeare, conservati sotto mercurio – ma perché diamine i Rosacroce lo avrebbero fatto?

Immaginiamo che davvero il First Folio contenga la chiave della caccia al tesoro: perché prendersi tutto questo disturbo per nascondere, a mezzo mondo di distanza, i manoscritti di Shakespeare? Perché guardate, per noi sono i manoscritti di Shakespeare – ma per i contemporanei di Bacon erano solo i manoscritti di Shakespeare.

No, davvero – pensateci. All’epoca, il teatro si portava dietro ogni genere di stigma sociale ed era considerato una forma d’arte di largo e rapido consumo, certo non la parte della sua produzione cui un autore consegnava eventuali aspirazioni all’immortalità. La pubblicazione era già un segno di notevole successo, e la pubblicazione in folio era una specie inconsueta di consacrazione per dei testi popolari ed effimeri in natura. E d’altra parte, anche ammesso che fossero veicoli per la riforma universale dei Rosacroce, le opere di Shakespeare non contenevano nulla di così percettibilmente rivoluzionario – o non sarebbero passate al vaglio del Master of Revels.

E dunque, perché disperarsi a tramandarne i manoscritti nascondendoli a mezzo mondo di distanza, protetti e rivelati al tempo stesso da un intrico di indizi contenuti nel loro stesso testo? shakespeare, first folio, petter amundsen, rosacroce, oak island, francis bacon, festivaletteratura

Insomma: questa gente avrebbe scritto un vasto corpus di opere teatrali per celarvi il segreto dell’ubicazione… del manoscritto originale delle opere stesse? Di bizantina eleganza – ma perché?

Petter Amundsen era presente alla proiezione ma, per le solite varie&imprevedibili ragioni, non sono riuscita a fermarmi per rivolgergli queste domande. Ho intenzione di farlo per iscritto, e vi farò sapere se e come risponderà. 

Intanto, se siete incuriositi, potete cercare particolari, il trailer del documentario e qualche capitolo introduttivo del libro sul blog in Inglese di Amundsen, qui.

 

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* O l’avrebbe commissionato a qualcun altro – magari Shakespeare stesso – ma allora, che ne è degl’indizi che puntano a Bacon come autore?

** E, se vogliamo, come poteva – lui o il suo committente rosacrociano – essere certo che le opere in questione arrivassero mai alla pubblicazione in folio?

*** Le compagnie tenevano i testi sottochiave gelosissimamente, e nessun attore aveva mai il testo completo. La pratica comune degli stampatori era quella di spedire a teatro uno scrivano che buttava giù tutto quel che poteva…

Set 5, 2013 - elizabethana, teatro    2 Comments

Piccolo Bollettino Diurno

E così comincia a sembrare che non sia del tutto impossibile finire la prima stesura entro il termine che mi sono fissata.

E comincia a sembrare anche che la prima stesura debba sforare il limite delle 12000 parole, ma diciamo la verità: si sapeva.

Incidentalmente, lasciate che vi dica che, dalla lettura integrale e approfondita dei Sonetti, ci si fa l’idea che Shakespeare, se ‘è alcunché di biografico in questa storia, dovesse essere un rompiscatole di tre cotte. Mi sa tanto che oggidì e la Bruna Signora e il Bel Giovane lo denuncerebbero per stalking…

Ad ogni modo, il sipario è vicino.

Lug 15, 2013 - Anno Verdiano    Commenti disabilitati su Librettitudini Verdiane: Macbeth

Librettitudini Verdiane: Macbeth

Questa tragedia è una delle più grandi creazioni umane!… Se noi non possiamo fare una gran cosa cerchiamo di fare una cosa almeno fuori del comune,

scriveva Verdi a Piave ai primi di settembre – questa tragedia era il Macbeth di Shakespeare.

giuseppe verdi, macbeth, shakespeare, francesco maria piave, andrea maffei, marianna barbieri-nini, carlo vareseVerdi era uno shakespeariano furibondo, conosceva la tragedia scozzese a menadito e aveva idee molto precise e dettagliate su come dovesse essere tradotta in libretto. Prima di tutto, voleva brevità e sublimità… e fosse stato tutto qui!

Piave – povero Piave! – ci si mise d’impegno, ma scoprì presto che non c’era modo di accontentare Verdi. Nulla di quel che scriveva andava mai bene. Le lettere di rimprovero si susseguivano, sempre più brusche e sempre più impazienti. I versi non erano mai abbastanza stringati, le parole delle streghe non erano mai abbastanza strane, la Lady non era mai abbastanza incisiva…

Alla fin fine, quando il libretto fu finito – e Verdi scontento come all’inizio – Piave fu pagato ed estromesso dalla faccenda. Il suo nome non sarebbe comparso in copertina, e Maffei avrebbe risistemato le streghe e la Lady sonnambula…

Non posso fare a meno di chiedermi se Solera, da Madrid, sapesse dell’odissea e sghignazzasse tra sé e si sentisse vendicato per l’Attila rimaneggiato.

Ma vediamo un po’ che cosa musicò Verdi in sei mesi di frenesia compositiva…

Atto Primo.

Tutti sappiamo che si comincia con le streghe… Verdi voleva che parlassero in versi tronchi:

I. Che faceste? dite su!
II. Ho sgozzato un verro. E tu?
III. M’è frullata nel pensier
La mogliera di un nocchier:
Al dimon la mi cacciò…
Ma lo sposo che salpò
Col suo legno affogherò.
I. Un rovaio ti darò…
II. I marosi leverò…
III. Per le secche lo trarrò.giuseppe verdi, macbeth, shakespeare, francesco maria piave, andrea maffei, marianna barbieri-nini, carlo varese

Tronchi sono tronchi – e troncati ulteriormente dall’ingresso di un paio di capitani scozzesi. Gente vittoriosa: Macbeth (talora detto anche Macbetto per esigenze metriche), generale di fiducia del buon Re Duncano, e Banco.

Ora, le streghe salutano Macbeth come signore di Glamis e Caudore*, nonché re di Scozia.

E Macbeth, che delle tre cose è soltanto la prima, ma forse qualche pensierino alle altre due l’aveva fatto, trema.

“E io?” chiede Banco. Oh, lui non sarà re – ma i suoi figli sì.

E le streghe svaniscono, lasciando i due generali comprensibilmente scossi…

Tanto più che l’ingresso successivo è quello di un messaggero reale: in premio per la battaglia vinta, il buon Duncano concede a Macbeth la signoria di Caudore, appena levata a un vassallo ribelle…

Ops.

giuseppe verdi, macbeth, shakespeare, francesco maria piave, andrea maffei, marianna barbieri-nini, carlo vareseMa allora, se uno dei vaticini rispondeva a verità… Macbeth impiega meno di una sestina a fare due più due e a decidere che non, non, non è il tipo del golpista. E intanto Banco è meno compiaciuto di quanto dovrebbe o potrebbe essere un buon amico…

Chi ha tutta l’aria di volersi divertire un sacco sono le streghe, che tornano per un attimo a promettere cose sinistre. Ma d’altra parte, questo è Shakespeare – per non parlare di Verdi! Saremmo delusissimi del contrario, giusto?

Intanto, al castello… Oh d’accordo, non “intanto”, ma tanto tempo dopo quanto ne basta perché arrivi un messaggero a cavallo, Lady Macbeth legge la lettera con cui il consorte le racconta quel che sta accadendo. E subito capiamo che Lady M. è fatta di un’altra pasta: la sua prima preoccupazione sembra essere per la carente malvagità di Macbeth.

E in effetti, ricordate che aveva detto di non voler fare nulla di truce? Però

Pien di misfatti è il calle
Della potenza, e mal per lui che il piede
Dubitoso vi pone, e retrocede!

Oh well, poco male. Gli uomini vanno guidati – ed è per questo che ci sono le mogli, giusto? Ci penserà lei a spingerlo sul trono, costi quel che costi.

E chi ti va ad arrivare proprio al momento giusto? Ma il buon Re Duncano, con Macbeth al seguito.

Trovi accoglienza quale un re si merta,

sibila Lady M. – e noi di questa donna cominciamo proprio ad avere paura.

Dopo di che, ai Macbeth ricongiunti basta il più scarno dei recitativi ad accordarsi sull’accoglienza in questione. Lui esita: e se si fallisce? Forse lasciato a se stesso rinuncerebbe, ma Lady M. è inflessibile: se non ora, quando?

E infatti, qualche ora più tardi, appena il re si è ritirato al suono di musica villereccia, Macbeth comincia a vedere pugnali dappertutto, trema, si agita e poi prende il coraggio a quattro mani e va ad agire.

Quando rientra, stravolto e con un pugnale in mano, diventa subito chiaro che l’omicidio a sangue freddo non è il suo mestiere. Sente le voci, trema, delira… Lady M. è scossa a sua volta, ma molto più lucida e un nonnulla disgustata. Quando né ordini né incoraggiamenti** né sarcasmo servono a nulla, è lei a rientrare nelle stanze del re per lasciare il pugnale e sporcare di sanguegiuseppe verdi, macbeth, shakespeare, francesco maria piave, andrea maffei, marianna barbieri-nini, carlo varese le guardie.

Così i gufi bubbolano, Lady M. depista, il marito di Lady M. si sente arrivare addosso l’insonnia cronica da rimorso e…

Chi bussa?

Macbeth è pronto a perdere la testa. Per fortuna c’è sua moglie ad avere la brillante idea di farsi trovare a letto. I due sposi e complici si dileguano, ciascuno con le mani insanguinate e, quando Banco e il nobile Macduff scoprono il cadavere di Re Duncano, ricompaiono con le mani pulite e l’apparenza del più profondo sbigottimento.

Sono persino capaci di unirsi al coro che maledice gli ignoti assassini – e nessuno si stupisce se la maggior parte dei registi rende la maledizione di Lady M. più convinta di quella del marito. 

E sipario.

Al giungere dell’Atto Secondo, il figlio di Duncan è fuggito in Inghilterra e tutti lo credono colpevole, e Macbeth è re di Scozia ma, come molti re all’opera, non è che dorma proprio bene.

Rimorso? Ssssì, ma più che altro, continua a pensare alla seconda metà della profezia, quella che riguarda i figli di Banco.

E lo si può anche capire: tutta quella fatica per poi passare la corona alla prole altrui? Giammai.

E guardate come Lady M. gli lascia credere che sia sua l’idea:

LADY:
Egli e suo figlio vivono, è ver…

MACBETH:
Ma vita immortale non hanno…

LADY:
Ah si, non l’hanno!

MACBETH:
Forz’è che scorra un altro sangue, o donna!

Ma sì, che vogliamo mai? Omicidio più, omicidio meno… E se Macbeth deve sforzarsi per convincersi, è chiaro che invece Lady M. ci prova gusto. Lei lo voleva proprio, questo trono – e non sarà certo un Banco qualsiasi a levarglielo, che diavolo!

E non so se, al posto di Banco, sapendo quel che Banco sa e dubitando quel che Banco dubita e sospettando quel che Banco sospetta, me ne sarei andata a spasso per il parco di Macbeth a notte fonda e senz’altra compagnia che un figlio ragazzino. Dopodiché non vedo che possa davvero lamentarsi quando un allegro coretto di sicari gli zompa addosso nel buio, vi pare?

Intanto, al castello i Macbeth intrattengono regalmente il coro e Macduff (che è un tenore della varietà non amorosa, e finora non è servito a granché – ma abbiate fiducia). E c’è forse un che di forzata gaiezza in questi due – ma come biasimarli? Tanto più che arriva un sicario ad annunciare che Banco è morto, ma il figlio no… ops. Questo vanifica un po’ tutto, vero?

giuseppe verdi, macbeth, shakespeare, francesco maria piave, andrea maffei, marianna barbieri-nini, carlo vareseMa non davanti agli ospiti. Nell’ansia di fare buon viso a cattivo gioco, Macbeth si lagna dell’assenza di Banco… finché non ne vede il fantasma tranquillamente seduto a tavola.

E allora, capite, perde un pochino la testa. Ora, tutto si può dire di Macbeth, ma non che sia un codardo. Invece di fuggire strillando, si rivolge allo spettro, lo apostrofa, lo interroga, lo minaccia… Peccato che lo veda soltanto lui. Gli ospiti sono, non del tutto incomprensibilmente, sconcertati, e Lady M. è livida:

E un uomo voi siete?
Vergogna, signor!

Tra l’altro, il fantasma è intermittente: ogni volta che Macbeth tenta di minimizzare o la sua consorte riprende il brindisi, eccolo che fa bubu settete di nuovo. Macbeth farnetica, Lady M. si chiede che razza di mozzarella abbia sposato, e gli ospiti si dileguano quatti quatti – perché non c’è nulla come un’apparizione di fantasmi per rovinare una cena. L’ultimo ad andarsene è Macduff, cui comincia a balenare qualche ombra di sospetto.

E mentre cala il sipario, che resta da fare a un povero usurpatore omicida, se non decidere di cercare quelle imbroglione tendenziose delle streghe e cantargliene quattro?

Atto Terzo

È il momento della caverna regolamentare. Questa è oscura anziché orrida – ma caverna è. E ci sono le streghe, col calderone. E, ad opera del cavalier Maffei, giuseppe verdi, macbeth, shakespeare, francesco maria piave, andrea maffei, marianna barbieri-nini, carlo varesecantano così:

I. Tre volte miagola la gatta in fregola.
II. Tre volte l’upupa lamenta ed ulula.
III. Tre volte l’istrice guaisce al vento.

TUTTE:
Questo è il momento.
Su via! sollecite giriam la pentola,
Mesciamvi in circolo possenti intingoli:
Sirocchie, all’opera! l’acqua già fuma,
Crepita e spuma.
(gettando nella caldaia)

I. Tu, rospo venefico
Che suggi l’aconito,
Tu, vepre, tu, radica
Sbarbata al crepuscolo
Va’, cuoci e gorgoglia
Nel vaso infernal.

II. Tu, lingua di vipera,
Tu, pelo di nottola,
Tu, sangue di scimmia,
Tu, dente di bòtolo,
Va’, bolli e t’avvoltola
Nel brodo infernal.

III. Tu, dito d’un pargolo
Strozzato nel nascere.
Tu, labbro d’un Tartaro,
Tu, cuor d’un eretico,
Va’ dentro, e consolida
La polta infernal.

Tutte: (danzando intorno)
E voi, Spirti

Negri e candidi,
Rossi e ceruli,
Rimescete!
Voi che mescere
Ben sapete,
Rimescete! Rimescete!

giuseppe verdi, macbeth, shakespeare, francesco maria piave, andrea maffei, marianna barbieri-nini, carlo varesePittoresco, nevvero? Arriva Macbeth a chiedere lumi, e gli si propone una consultazione con gli spiriti – i quali gli dicono: a) di guardarsi da Macduff – e a questo ci aveva già pensato da solo; b) di star sicuro che nessun nato da donna può nuocergli; c) che il suo trono sarà saldo finché non si muoverà il bosco di Birna(m). Data la non elevatissima densità di gente non nata da donna e boschi semoventi nella Scozia dell’epoca, Macbeth potrebbe fermarsi qui e andarsene a dormire contento…

E magari lo farebbe, se fosse un tenore. Ma essendo invece un baritono, ha una mente logica e gli viene il dubbio: ma se è così invincibile, come la mettiamo con la discendenza di Banco?

Le streghe cercano di eludere la domanda, ma poi gli mostrano una processione di spiriti coronati scortati dallo spettro di Banco.

Ma… si stupisce Macbeth. Eh sì, replicano le streghe. I calcoli Macbeth può farseli da solo e, facendoseli, sviene.

E qui nell’edizione riveduta per la Francia del ’65 (quella che per lo più s’esegue oggidì), c’è un balletto di spiriti aerei che si suppone debba rinfrancare il nostro povero usurpatore.

E arriva Lady M., e Macbeth, rinfrancato ma scosso, le racconta delle nuove profezie. Con logica impeccabile, Lady M. decide che sono tutte vere tranne l’ultima e comunque, nel dubbio, meglio liberarsi una volta per tutte di Macduff con moglie e figli e del figlio di Banco.

E questa volta Macbeth non fa più nemmeno finta di esitare. Siamo in ballo e balliamo, giusto?

Sipario. giuseppe verdi, macbeth, shakespeare, francesco maria piave, andrea maffei, marianna barbieri-nini, carlo varese

Atto Quarto – e si direbbe che Macbeth si sia lasciato prendere un nonnulla la mano. Non solo ha sterminato la famiglia di Macduff, ma ha messo a ferro e fuoco la Scozia nella sua caccia, tanto che cori interi di profughi se ne stanno a lamentarsi molto pateticamente appena al di qua del confine inglese.

Ma comincia a sembrare che i Macbeth possano aver fatto i conti senza l’oste, perché non solo Macduff è ancora vivo e affamato di vendetta, ma c’è anche Malcolm (il figlio di Duncano, ricordate?), che arriva parimenti intenzionato conducendo molti soldati inglesi e, in un momento d’ispirazione tattica, ordina a tutti quanti di provvedersi di un ramo mimetico dai rami del bosco.

Quale bosco? Il bosco di Birna(m).

Oh oh…

Intanto al castello, da una parte una sonnambula Lady M. ha le ben note difficoltà igieniche:

Di sangue umano
Sa qui sempre… Arabia intera
Rimondar sì piccol mano
Co’ suoi balsami non può.

giuseppe verdi, macbeth, shakespeare, francesco maria piave, andrea maffei, marianna barbieri-nini, carlo vareseE dall’altra Macbeth si dibatte tra rimorso, paura, ferocia, solitudine e rimpianto…

E sì, potevano pensarci prima – ma, forza di Shakespeare e di Verdi, noi non siamo capaci di restare insensibili alla disperazione dell’uno e dell’altro.

Dopodiché tutto comincia ad assumere l’inconfondibile forma di una pera.

Lady M. muore – se di affanno, suicidio o altro non è chiaro – e Macbeth la prende in maniera… stramba.

Ma non basta, naturalmente, e arriva una sentinella ad annunciare che, o prodigio, la foresta di Birna(m)… er, si muove.

E Macbeth si scuote un po’ di più. Ma è un fiero signore della guerra scozzese: di nuovo, invece di scappare strillando, impugna la spada e va ad affrontare il suo destino.

Che gli si presenta nella forma di… Macduff. giuseppe verdi, macbeth, shakespeare, francesco maria piave, andrea maffei, marianna barbieri-nini, carlo varese

Oh, d’accordo. Avremmo preferito qualcuno di un po’ più.. un po’ meno… Però state a sentire: quando Macbeth lo invita a levarsi di torno, perché nessun nato da donna può fargli un baffo, Macduff si svela. Non so se conti come un’agnizione, ma sta di fatto che il nostro tenore-non-amoroso è nato con parto cesareo. Tecnicamente non è nato da donna.

Vatti a fidare delle streghe.

E sì, è un inqualificabile cavillo, ma che vogliamo farci? Macduff e Macbeth escono di scena duellando, e tutti sappiamo come va a finire. E poi tutto succede offstage, e Macduff rientra trionfante, e il coro esulta, e Malcolm si proclama re, e la Scozia è liberata, e tutti sono molto felici, e noi parteggiavamo per il baritono, ma fa lo stesso.

Sipario.

Ecco qui. Quando ebbe messo tutto in musica, Verdi cominciò a seguire le prove con la ferocia incontentabile di un gallo da combattimento. Le prove furono un massacro creativo. Sopravvivono le lettere in cui Verdi istruisce puntigliosamente il baritono Carlo Varesi, primo Macbeth. Marianna Barbieri-Nini, la prima Lady Macbeth (scelta perché era brutta e di voce aspra come Verdi voleva), scrive nelle sue memorie di avere provato un certo duetto non meno di centocinquanta volte, prima che fosse cupo e “quasi parlato” come lo voleva il compositore…

giuseppe verdi, macbeth, shakespeare, francesco maria piave, andrea maffei, marianna barbieri-nini, carlo vareseMa Verdi aveva ragione: nel marzo del 1847 il Macbeth debuttò alla Pergola di Firenze, e fu un successo maiuscolo – con la possibile eccezione del libretto.

A quanto pare c’è un intrecciarsi di nemesi beffarde, quando si tratta di libretti. Vi ricorderete che il nome di Piave non compariva, ma si sapeva che l’autore era lui. A Firenze Piave non era popolare – e che le stroncature dei versi fossero un po’ partito preso lo dimostra il fatto che i pezzi più presi di mira furono proprio il coro delle streghe e la scena del sonnambulismo. Quelli di Maffei. Quelli di cui il povero Piave era del tutto innocente.

 

 

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* Cawdor, in realtà. E a dire il vero non so nemmeno se valga la pena di cominciare con la toponomastica scozzese ad uso dei melomani…

** Yes well, dubito che l’equivalente operistico di “dormiamoci su e domattina andrà tutto meglio” sia fatto per funzionare in caso di assassinio.

L’Uomo Che Voleva Essere Shakespeare III

E il venerdì, più puntuale delle rondini a primavera, torna William Henry Ireland. Lo ritroviamo in spasmodica attesa della prima di Vortigern and Rowena a Drury Lane. La sua tragedia shakespeariana. Immaginatevelo, questo ragazzino di ventuno anni, che col peso della più maiuscola frode letteraria dei suoi tempi sullo stomaco, si torce le dita in un misto di sovreccitata anticipazione, sogni di gloria e terror panico.

E in mezzo a tutto questo, due giorni prima del fatidico debutto, Malone fece scoppiare la sua bomba editoriale.

shakespeare, william henry ireland, edward malone, john kemble, richard sheridanEdward Malone era un altro bardolatra, un avvocato irlandese fiammeggiante e un pochino squadrellato a sua volta. In anni successivi lo si sarebbe scoperto colpevole di cose riprovevoli come furto e tagliuzzamento di documenti originali, ma nel 1796 aveva una considerevole reputazione – e la usò tutta per distruggere la collezione Ireland in quattrocentoventiquattro pagine di furibonda requisitoria illustrata con tavole fuori testo. Lo spelling dei supposti autografi, concionava Malone nel suo libro, non era elisabettiano; lo stile non era elisabettiano; una considerevole parte del lessico non era elisabettiana; le firme non somigliavano poi così tanto a quelle conosciute… tutto era falso, falso, spudoratamente e criminalmente falso.

Il libro fu un successo immediato, per cui immaginatevi che genere di pubblico riempisse platea e palchi del Drury Lane due giorni più tardi. Il teatro era pieno di giornalisti, curiosi e claques rivali: quella organizzata da Sheridan, quella voluta da Malone e varie altre a spese dell’uno o dell’altro giornale o fazione. E poi c’erano bardolatri di ogni colore, appassionati di teatro, fan di Kemble, partigiani degli Ireland e feroci maloniani… shakespeare, william henry ireland, edward malone, john kemble, richard sheridan

È quasi un miracolo che i due primi atti riuscissero ad andare bene – e ad essere persino applauditi – in questa atmosfera incandescente. William Henry, nascosto nei camerini col cuore in gola, cominciava a sperare che dopo tutto, dopo tutto… e poi entrò in scena un attore giù di voce e lievemente buffo – e fu il disastro. Parte del pubblico non aveva aspettato altro: cominciarono gli sghignazzi, i lanci di bucce d’arancia, le contestazioni, gli insulti – e intanto gli attori s’innervosivano viepiù. Persino Kemble fu fischiato, e quando l’attore che interpretava il malvagio rimase incastrato sotto il sipario, in platea si scatenò una vera e propria rissa.

All’epoca non era cosa tanto inconsueta o tanto grave da far sospendere una rappresentazione, ma di certo il Vortigern non ebbe repliche – e la pur pilotatissima reazione del pubblico, con l’inglorioso naufragio della tragedia ritrovata, era tutta acqua al mulino di Malone.

Era finita. Nei mesi successivi critiche, dubbi e scherno fioccarono su Samuel Ireland, che tutti consideravano responsabile della frode – se frode era. Oh sì, c’era ancora chi credeva al sonetto, alla professione di fede e al pagherò, ma il Vortigern era stato un duro colpo, e la credibilità shakespeariana di Samuel era irreparabilmente franata a valle. In tutto ciò, il vecchio incisore biasimava suo figlio – ma non per avere falsificato alcunché, bensì perché non voleva presentargli Mr. H., il misterioso proprietario dei documenti, che avrebbe potuto chiarire tutta la faccenda…

Come suol dirsi all’opera, O umana cecità sei pertinace. Samuel non volle mai rassegnarsi all’idea che i suoi autografi fossero falsi. E quando William Henry, sfinito dalla tensione e dalla vergogna, finì per confessare, il padre non gli credette. E non perché avesse fede nell’onestà di suo figlio, sapete, ma perché lo considerava troppo stupido per avere architettato – e meno ancora realizzato – un piano del genere.

È la beffa finale. È ciò che fa di William Henry Ireland un personaggio semitragico. È il motivo per cui questa storia sarebbe perfetta per un romanzo…

shakespeare, william henry ireland, edward malone, john kemble, richard sheridanWilliam se ne andò di casa per sposare una fanciulla dal passato interessante, che mantenne pubblicando romanzi gotici, le sue tragedie – e soprattutto, il suo più grande successo, un libro sulla sua incredibile frode. Inutile dire che suo padre era inorridito, non aveva la minima intenzione di essere scagionato in quel modo e anzi negava, negava e negava con ferocia che ci fosse alcunché di vero in quei deliri a stampa. Samuel Ireland morì nel 1800, convinto che la sua collezione shakespeariana fosse autentica e senza mai essersi riconciliato con quell’orribile ragazzo, quel figlio stupido e disonesto, la sua vergogna, la sua rovina, il più fatale errore della sua vita.

Depresso e diseredato, William seguitò a campare con i suoi romanzi gotici e le sue satire da poco, e un secondo libro sulla sua vicenda di falsario. Ma siccome anche allora vivere di scrittura non era soverchiamente confortevole, seguitò anche a integrare le entrate al modo che gli riusciva meglio: producendo falsi falsi autografi shakespeariani.

No, davvero.

Avete letto bene: falsi falsi autografi. Falsi dei suoi falsi. shakespeare, william henry ireland, edward malone, john kemble, richard sheridan

Perché vedete, immagino che Samuel si rigirasse nella tomba, ma se non era riuscito a diventare celebre scrivendo, William aveva fatto centro nel momento in cui aveva confessato di avere condotto per il naso accademici, principi, scrittori e primi ministri. Non solo le sue Confessions furono un secondo successone, ma i collezionisti cominciarono a offrire discrete somme per i suoi falsi. Molti collezionisti. Tanti che, una volta esauriti i pezzi della collezione paterna – e la domanda continuando inabbattuta, William non vide ragione di deludere tanti ammiratori e rinunciare a una fonte di reddito. E allora cominciò a produrre manoscritti originali del Vortigern, dell’Enrico e del sonetto di Anne come se piovesse.

Falsi falsi.

Cosicché è vero, quando nel 1821 l’incorreggibile William Henry annunciò di avere scoperto il testamento di Napoleone, l’Inghilterra si fece quattro risate. E quando qualche anno più tardi se ne uscì con il carteggio tra Giovanna d’Arco e il Delfino, nessuno finse nemmeno di crederci.

Epperò, quest’Inghilterra smaliziata continuava a comprare i falsi falsi, e mi domando – mi domando…

shakespeare, william henry ireland, edward malone, john kemble, richard sheridanMi domando se l’ex ragazzo stupido si aspettasse davvero di essere creduto con il suo falso Napoleone e la sua falsa Pulzella. Se non gli fosse solo parso il caso di ricordare all’Isoletta che lui era ancora lì, il pittoresco falsario confesso – e in tutta discrezione, qualcuno voleva per caso acquistare l’ultimo, ultimissimo falso shakespeariano che ancora gli restava tra le mani?

Oh, non saprei, ma dal ragazzino che marinava la scuola e si costruiva di nascosto armature di cartone e carta stagnola, potrei anche aspettarmelo. E mi piace figurarmelo così, William Henry, mentre il sipario si chiude: un po’ triste, al pensiero di quel padre che non era capace di credergli, ma con un accenno di sorriso beffardo e un po’ storto mentre fa marketing delle sue frodi e delle sue bugie.

See? Not so very stupid after all, am I?”

L’Uomo Che Voleva Essere Shakespeare II

Rieccoci qui, e riecco William Henry Ireland.

Lo avevamo lasciato – ricordate? – a mangiarsi le unghie in attesa degli esperti di cose shakespeariane che dovevano esaminare i suoi autografi del bardo.

Ebbene, i due studiosi arrivarono, esaminarono, cogitarono, mormorarono, interrogarono un tremebondo William, elucubrarono ancora un po’ e, alla fne, dichiararono i documenti autentici.

shakespeare,william henry irelandCon tutta la Londra bene, capitanata da gente come il principe di Galles, il primo ministro Pitt e James Boswell, che fioccava nel suo salotto per vedere le reliquie autenticate, Samuel Ireland era al settimo cielo. Ma chi aveva l’impressione di vivere in un sogno era William Henry.

Ce l’aveva fatta.

E se ce l’aveva fatta, perché fermarsi?

Il parto successivo fu un sonetto d’amore dedicato ad Anne Hathaway, poi vennero dei libri a stampa annotati a margine, e poi addirittura un manoscritto del Re Lear– ma non una copia fedele dal First Folio, oh no. Perché vedete, se Shakespeare aveva un difetto agli occhi dei suoi adoratori di epoca georgiana, era il suo humour di grana non proprio finissima. E così, nel copiare, il nostro giovanotto non seppe trattenersi dal purgare il tutto, anticipando in questo i celebri fratelli Bowdler. E non v’immaginate la gioia pubblica nello scoprire che dopo tutto il Cigno di Stradford era più fine dei suoi ribaldi curatori postumi… shakespeare,william henry ireland

Londra, con Samuel in testa, sembrava intenzionata a bere qualsiasi elaborata fandonia William preparasse. Doveva essere una sensazione inebriante per il ragazzo troppo stupido per ricevere un’istruzione, lo scrivano di ripiego, il figlio insoddisfacente. E se tutti avevano creduto al suo sonetto, se il suo Lear sanitizzato era piaciuto persino più dell’originale, che cosa gl’impediva di lanciarsi in qualcosa di più grosso ancora? Qualcosa di suo?

E fu il Vortigern.

shakespeare,william henry irelandUn inedito, capite? Vortigern e Rowena, per la precisione. Una tragedia storica tratta dal buon vecchio Holinshed, fonte d’ispirazione per tutti i tragediografi elisabettiani. Samuel Ireland, in brodo di giuggiole, montò una campagna pubblicitaria e vendette i diritti a nessun altro che Richard Sheridan, , perché rappresentasse la straordinaria trouvaille al Drury Lane, con l’astro delle scene, John Kemble, nel ruolo del protagonista.

Tutto sembrava predisposto per il trionfo segreto di William, vero? Peccato che Sheridan cominciasse presto ad avere dei dubbi. Peccato che una tragedia intera fosse tutt’altro che qualche sonetto e una manciata di versi cambiati. Peccato che Kemble annusasse il falso…

Le prove si trascinarono, e intanto la straordinaria fortuna di William cominciava a mostrare la corda. Procurarsi la carta antica e l’inchiostro finto-antico diventava difficile e sospetto, e ci fu un terribile pomeriggio in cui un amico, piombato nello studio legale a sorpresa, trovò William intento con tutto l’armamentario per la falsificazione, c’era il celebre avvocato bardolatra Edward Malone che cominciava a gettare dubbi sugli autografi, c’era l’occasionale articolista che si faceva beffe dell’approssimativo Inglese elisabettiano di William, c’era Samuel che voleva a tutti i costi conoscere il misterioso Mr. H…. e sapete che cosa era peggio di tutto? Dopo il primo moto di entusiasmo, Samuel aveva perso interesse per il ruolo di suo figlio nella faccenda. A lui interessavano gli autografi, e anzi, semmai era un po’ impaziente nei confronti di William, che non ne portava a casa con sufficiente regolarità.

shakespeare,william henry irelandCredo che a questo punto il nostro giovanotto cominciasse a sentire tutto il suo piano sfilacciarglisi tra le dita – ma che poteva fare? E poi c’era il Vortigern. William voleva convincersi che, una volta rappresentato con successo il Vortigern, tutto si sarebbe sistemato. Nessuno avrebbe più osato dubitare, e suo padre si sarebbe ritenuto soddisfatto. Sì, per fortuna c’era il Vortigern.

E consolandosi con l’idea della prima imminente, William Henry continuava a scrivere come un dannato. Non posso fare a meno di farmi qualche domanda sul suo principale. Che cosa credeva che facesse il suo scrivano, da solo tutto il giorno nello studio? Si sarà pur accorto che il lavoro legale non procedeva granché… Possibile che non avesse il minimo sentore della nuova frode shakespeariana che si consumava sotto il suo tetto? Un altro dramma storico, nientemeno: un Enrico II.

shakespeare,william henry ireland, john Kemble

E questa volta il nostro falsario aveva le idee un po’ più chiare, e il nuovo lavoro era più articolato, più complesso, più solido, senza le ingenuità e gli angoli tagliati del Vortigern. Era quasi un peccato non avere atteso un po’, non avere imparato un po’ meglio il mestiere prima di gettarsi in pasto ai teatri… Ma ormai era fatta. Nonostante i tentennamenti di Sheridan e il sarcasmo di Kemble, la prima era stata fissata per il 2 di aprile del 1796 – e William voleva esserne certo: il successo del Vortigern avrebbe travolto tutti e tutto.

Come andrà la prima del Vortigern? Come accoglierà il pubblico londinese l’inedito giovanile del bardo? Riuscirà il nostro eroe a trionfare ancora una volta?

Scopritelo nel prossimo episodio de… L’Uomo Che Voleva Essere Shakespeare!

L’Uomo Che Voleva Essere Shakespeare

Ma come è possibile che non abbia mai postato a proposito di William Henry Ireland – uno dei più pittoreschi personaggi del circo para-shakespeariano? Non solo un bardolatra ossessivo, ma anche il più straordinario–

Ma no, non anticipiamo e, per una volta, cominciamo dall’inizio.

shakespeare,william henry irelandWilliam Henry, nato a Londra nel 1775, era il figlio illegittimo di Samuel Ireland, antiquario, autore di guide turistiche e incisore di fama – che si occupò di lui e lo crebbe con più senso del dovere che calore. Il babbo avrebbe voluto farne un continuatore, ma William sembrava non avere talento per nulla: non studiava, non assorbiva nulla, non mostrava il minimo interesse per nessuna materia, marinava le lezioni…

“Troppo stupido per ricevere un’istruzione,” sentenziò uno dei vari presidi che lo rimandarono a casa come caso disperato.

Alla fine il padre si rassegnò all’idea di un figlio stupido, e supplicò un amico avvocato di assumerlo come garzone di studio.

E William, in tutto ciò? Be’, William in realtà un interesse ce l’aveva: il teatro. Non fa meraviglia che i suoi risultati scolastici fossero quelli che erano, visto che il ragazzo passava tutto il suo tempo a bighellonare da ingresso degli artisti a ingresso degli artisti (e non era come se a Londra ce ne fossero pochi…) e a costruire di nascosto teatrini in miniatura e armature di cartone. shakespeare,william henry ireland

Forse avrebbe passato la vita in anonima eccentricità se, nell’estate dei suoi diciassette anni, il suo distratto e deluso padre non se lo fosse trascinato dietro a Stratford, in cerca di documentazione e memento shakespeariani. Stiamo parlando del 1793, quando la bardolatria era un esantema abbastanza nuovo – e Samuel Ireland era un apripista. Ma non un apripista straordinariamente astuto: gli indigeni gli rifilarono senza difficoltà ogni genere di paccottiglia – non ultimo lo sgabello su cui il Cigno di Stratford si era seduto per corteggiare Anne Hathaway…

Il supposto stupido William se ne rese conto – anche se non subito – e non ebbe cuore di disilludere il padre, che nel frattempo aveva pubblicizzato le sue trouvailles a destra e a mancina, ed era soltanto deluso di non essere riuscito a trovare uno scritto autografo.

E fu qui che William ebbe il suo colpo di genio: perché non poteva procurarlo lui, un autografo shakespeariano? Dopotutto non sarebbe stato più fasullo dello sgabello che tutta Londra ammirava, giusto?

shakespeare,william henry irelandEr… forse no – ma a William pareva di sì. Dopo tutto era il figlio di un incisore e aveva ricevuto una formazione artistica, per non parlare della pazienza e manualità che aveva acquisito costruendo teatrini. E per di più, lavorava in uno studio legale che custodiva nei suoi archivi ogni genere di documento vecchio di secoli. La carta non era un problema, e l’inchiostro falso-antico non era affatto impossibile da trovare.

William lavorò e si esercitò e ben presto fu capace di falsificare un contratto tra Shakespeare e John Heminges. 

Samuel ci cascò in pieno e, per la prima volta in vita sua, cominciò a rivalutare quel figlio che aveva sempre considerato irreparabilmente stupido.

Grazie al falso contratto casa Ireland diventò un luogo felice – anche perché, sull’onda dell’entusiasmo e incoraggiato dalla nuova stima del padre, William non vedeva ragione di fermarsi, e cominciò a sfornare un falso dietro l’altro. Da dove saltavano fuori? Dalle carte di Mr. H., un anziano, anonimo e, ça va sans dire, del tutto fittizio gentiluomo. Nella sua gioia, il credulo Samuel ingollò beatamente Mr. H., un pagherò, una bozza di lettera, una professione di fede protestante…shakespeare,william henry ireland

O forse non così beatamente. Il giorno di Natale del 1794, quando William si era ormai convinto di avere scoperto la via della felicità, il padre fu colto da un improvviso sussulto di buon senso, e si dichiarò intenzionato a far esaminare i documenti.

Terrore e sgomento! Come poteva William sperare di superare l’esame di due esperti? E però, come poteva opporsi a un’idea tanto ragionevole? Era disastrosamente chiaro che, nel dar corso al suo colpo di genio, il giovanotto si era lasciato sfuggire qualche particolare…

E qui, abbiate pazienza, finisce la prima puntata.

Che ne sarà di William Henry e dei suoi documenti shakespeariani? Verrò smascherato? E come reagirà il padre ingannato?

Per saperlo, non perdete la prossima puntata de… L’Uomo Che Voleva Essere Shakespeare

(♫ accento di musica finto-elisabettiana)

 

 

 

Mar 6, 2013 - anglomaniac, Poesia    2 Comments

Nuove-Vecchie Poesie (In Numero di Cinquanta)

rudyard kipling, thomas pinney, poesie ritrovate, letteratura ritrovataA volte si è fortunati.

A volte si crede di aver letto proprio tutto quello che c’era da leggere di un autore che si ama – il che magari dà anche un senso di compiutezza, ma è triste pensare di non avere più nulla da scoprire. E le riletture, ne avevamo parlato, pur avendo il loro genere di fascino e di gioie, sono un cavallo di tutt’altro colore.

Non ho bisogno di dirlo: è un problema che riguarda i lettori di poeti (e prosatori) estinti. O ritirati, perché ultimamente si sentono autori che si ritirano, sostenendo di avere scritto tutto quel che avevano da dire. O pubblicato tutto quel che avevano da pubblicare – cosa molto diversa. Epperò, finché l’autore è vivo, la speranza c’è: magari cambierà idea, magari ci ripenserà, magari, magari… È capitato.

Ma se l’autore è defunto?

Be’, ci sono sempre le trouvailles.

Come Menandro, che si credeva perduto, e invece ogni tanto riaffiora a bocconi e spizzichi. E a volte anche meglio di così: se ben ricordo il Dyskolos ricomparve più o meno intero alla fine degli anni Cinquanta – dopo quasi ventiquattro secoli di oblio.

O come i juvenilia dei fratelli Brontë, tutto un piccolo corpus narrativo e poetico, scritto in caratteri minuscoli su quadernini cuciti a mano o sparso in centinaia di lettere, riemerso dalle carte della parrocchia di Haworth – largely ad opera di Juliet Barker.

E non cominciamo nemmeno con il Cardenio – il supposto Shakespeare perduto, che è come l’araba fenice: che ci sia ciascuno lo dice, e ogni tanto qualcuno sostiene di averlo ritrovato. C’è stato Theobald nel Settecento, c’è stato un grafologo nei nostri anni Novanta – peccato che non siamo affatto certi che il perduto Cardenio fosse di Shakespeare affatto, perché tutto quel che abbiamo è un’inaffidabilissima attribuzione della metà del Seicento. E d’altra parte la storia delle supposte trouvailles shakespeariane è variegata, pittoresca e lastricata d’infondatezze.

Ma tutto ciò è per dire che a volte succede, a volte si è fortunati.

E anche straordinariamente pazienti, determinati e abili, come Thomas Pinney, uno studioso americano, specialista di Kipling. Per anni Pinney ha razzolato per archivi navali, carte di famiglia, pacchi di lettere ritrovati, of all places, in un appartamento di Manhattan in ristrutturazione… E ha raccolto cinquanta poesie inedite. Cinquanta.

Per lo più sono componimenti degli ultimi anni, amarissimi, tesi, pieni di rabbia e disillusione, mille miglia lontano dal britannicissimo idealismo di If, o dai crepuscoli di The Recall. Non che Kipling sia mai un poeta particolarmente gioioso, ma l’ultimo Kipling è – non c’è altra parola – aspro. 

Domani le poesie riscoperte vedono la luce nella nuova Cambridge Edition of the Poems of Rudyard Kipling, tre annotatissimi volumi illustrati, con copertina rigida. 

Alas, i tre tomi (quattro kg e un po’…) sono inavvicinabili. Posso solo aspettare che Pinney decida di pubblicare i cinquanta new-found ancient poems in qualche forma un po’ meno proibitiva. Ho fiducia: prima o poi capiterà.

Nel frattempo posso sbizzarrirmi a immaginare come debba essere cercare, cercare, cercare e alla fine mettere le mani su un inedito ritrovato. Non vorreste essere stati al posto di Pinney? Io tanto…

E posso anche continuare a considerarmi fortunata: credevo di avere finito con Kipling – e invece c’è ancora qualcosa da scoprire.

Gen 6, 2013 - elizabethana, teatro    2 Comments

La Dodicesima Notte

Avete festeggiato, ieri sera? Avete eletto Re (o Regina) del Disordine chi ha trovato il penny d’argento nella torta? Avete danzato e festeggiato sotto i rami di vischio?

No?

Nemmeno io, a dire la verità… Però ho cenato da amici, e immagino che conti almeno un po’.

Ma d’altra parte, noi siamo tame. Ai tempi di Shakespeare sì, che sapevano come solennizzare la vigilia dell’Epifania. Magari con una commedia scrittapposta, come The Twelfth Night – or What You Will, una storia di travestimenti, inganni, equivoci, beffe e triplici nozze, perfetta per la bisogna, e probabilmente rappresentata per la prima volta a Whitehall la Dodicesima Notte del 1601, quando Shakespeare era ormai tanto celebre da scrivere per la vecchia regina in persona.

E quattrocentododici anni e un giorno più tardi, lasciate che vi proponga La Dodicesima Notte (o almeno la prima parte…) in una deliziosa versione animata – e badate alla meravigliosa voce del narratore, che è Nando Gazzolo.

E se adesso vi punge vaghezza, qui dovreste trovare il resto, e qui invece qualche versione in lingua originale.

Felice domenica, e felice Epifania.

Set 5, 2012 - editing, elizabethana, teatro    Commenti disabilitati su Piccolo Bollettino Notturno

Piccolo Bollettino Notturno

E anche Send Me Away (ovvero Deptford Parte I) è a posto.

Mi piaceva quando l’ho scritta e mi piace ancora. Buon ritmo, buone voci, buon conflitto. Peccato che serva più che altro da rampa di lancio per l’arrivo di Will nella scena successiva e per l’omicidio in quella dopo… Così l’ho potata da 1700 a 1200 parole, e adesso è più ragionevole.

Siccome non si butta mai nulla, tuttavia, ho salvato a parte parecchie battute cassate, che andranno benissimo per un altro play che sto progettando.

E che, a dire il vero, stavo progettando già da prima… ma questa è letteralmente un’altra storia.

Comunque, le mie intenzioni di finire la seconda stesura prima del Festival sono andate a farsi benedire, e per il resto della settimana il tempo da dedicare alla revisione sarà pochino…

On the other hand, si è già visto che a volte, meno tempo c’è più si combina, giusto?

Stiamo a vedere.

Esserci O Non Esserci

shakespeare, amleto, fantasmi, eleanor prosser, vincent price, john gielgud, laurence olivier, richard burtonQuesto è il problema. Se sia meglio portare il fantasma in scena come uno spirito incarnato o suggerire la sua incorporeità per mezzo di luci blu, velari e macchina della nebbia – o magari non mostrarlo affatto. Spettro, apparizione, voce disincarnata, ossessione folle – e con un’idea registica dire che si è messo fine al dibattito sulla natura dell’ectoplasma vendicativo…

Perché il fatto è, vedete, che quando Shakespeare scrisse il suo Amleto, i fantasmi nell’Inghilterra riformata erano una vexata quaestio. Per i cattolici, naturalmente, erano anime del purgatorio, tornate a chiedere preghiere, esigere vendetta o sistemare faccenduole lasciate indietro. Ma la riforma aveva fatto piazza pulita di purgatorio, limbo e altre consimili sistemazioni provvisorie: una volta morti si ascendeva o si sprofondava in luoghi da cui nessuno tornava più.shakespeare, amleto, fantasmi, eleanor prosser, vincent price, john gielgud, laurence olivier, richard burton

Però i fantasmi c’erano – pochi dubitavano dell’esistenza di apparizioni spettrali. Il problema era come spiegarle… La risposta protestante era, come spesso accadeva, il diavolo. Non di fantasmi si trattava, ma di forme create illusoriamente (o abitate – su questo non c’era accordo) dal demonio al fine di sconvolgere le menti più impressionabili*, spingerle a compiere azioni riprovevoli come la vendetta e/o il suicidio e, già che ci si era, rastrellarne le anime.

Ma questi erano gli strologamenti dei teologi e dei re**, e l’opinione generale era che le anime dei morti tornassero indietro eccome. Magari non erano affatto raccomandabili, magari avevano davvero a che fare con il diavolo, ma erano propio fantasmi.

shakespeare, amleto, fantasmi, eleanor prosser, vincent price, john gielgud, laurence olivier, richard burtonE la questione cessa di sembrare di lana caprina quando si guarda che cosa ne fa Shakespeare, portando in scena il fantasma di Amleto senior. Bernardo e Marcello, i primi a vederlo, non sanno bene che cosa pensarne ma, a ogni buon conto, chiamano e mandano avanti Orazio, perché Orazio sa il Latino e quindi è in grado di conversare con l’apparizione – e presumibilmente scacciarla, se necessario.

Orazio ha studiato a Wittemberg, e quindi arriva armato di accademico, filosofico e teologico disprezzo per tutto l’armamentario superstizioso medievale***. E infatti parte arringando lo spettro come se fosse un diavolo… E bisogna dire che allo spettro non piace molto essere perentoriamente invitato a parlare “per il cielo!”…

Questo potrebbe significare che si tratta in effetti di un diavolo cui non piace sentir nominare le cose superne, oppure che si tratta di un fantasma legittimo, offeso dal sospetto di Orazio. La faccenda rimane ambigua in una maniera che doveva essere accettabile per il Master of Revels e molto eccitante per un pubblico elisabettiano.

Diavolo? Fantasma? Fantasma? Diavolo?shakespeare, amleto, fantasmi, eleanor prosser, vincent price, john gielgud, laurence olivier, richard burton

La cosa buffa è che il filosofico Orazio si converte subito all’idea del fantasma, mentre Amleto, com’è nel suo stile, dubita. Ci saranno anche più cose in cielo e in terra che in tutta la filosofia di Orazio, ma perbacco, questa preoccupante apparizione vuole spingere il nostro tetro giovanotto a commettere peccato… diavolo o fantasma? Fantasma o diavolo?

E poi tutti sappiamo come va a finire.

Ora, la complessiva ambiguità dell’ectoplasma danese incarnava senza scioglierlo uno dei grandi dubbi dell’epoca, e l’Inglese medio si riconosceva nel rovello di Amleto: è o non è un fantasma? Defunto in cerca di giustizia (of sorts) o diavolo tentatore? È più indegno trascurare la volontà del trapassato o rischiare l’influenza diabolica? Eccetera, eccetera.

shakespeare, amleto, fantasmi, eleanor prosser, vincent price, john gielgud, laurence olivier, richard burtonIn termini di pratica teatrale, la faccenda si traduceva in un attore in armatura che entrava in scena (da destra o da sinistra?), faceva le sue declamazioni con voce stentorea**** e poi si affrettava a cambiarsi per interpretare un’altra particina o due.

E così rimase per vari secoli, e ci vollle il Novecento perché qualcuno cominciasse a porsi la questione in termini più registici che teologici.

Intanto, qualunque cosa l’apparizione fosse, bisognava in qualche modo segnalarne il carattere preternaturale. La voce da stentorea cominciò a farsi eterea ed echeggiante, la presenza scenica si sciolse in diluvii di nebbia, garze, tulli, luci blu, nebbia artificiale, ombre, proiezioni e – al cinema – trasparenze e doppie esposizioni.shakespeare, amleto, fantasmi, eleanor prosser, vincent price, john gielgud, laurence olivier, richard burton

Per esempio, nella versione olivieriana del 1948, il fantasma è un’armatura dalla celata semichiusa, avvolta in vortici di nebbia. Ricordo di avere visto, a Cardiff negli Anni Novanta, una produzione studentesca in cui il fantasma se ne stava dietro un canovaccio nero. Al momento giusto, un piazzato bianco illuminava l’attore, per dare l’impressione di un’immagine sfocata che emergesse dal buio. 

shakespeare, amleto, fantasmi, eleanor prosser, vincent price, john gielgud, laurence olivier, richard burtonOra, non è che questo ingentilimento e questa rarefazione dello spettro avessero eliminato del tutto l’opzione diavolo-cadavere-animato/posseduto, che ricompariva periodicamente nella forma di fantasmi-scheletri o fantasmi-zombi. E tuttavia, la tendenza ebbe uno sviluppo logico in altre direzioni: lo spettro scomparve del tutto quando i registi cominciarono a ipotizzare che non fosse un fantasma affatto – ma un caso di possessione, una proiezione dell’inconscio di Amleto o un sintomo della sua follia.

Per esempio, a New York nel 1964, John Gielgud diresse Richard Burton in una produzione quasi ghost-less: al momento fatale, un’ombra indistinta si proiettava sullo scenario, e Burton/Amleto faceva conversazione con la voce del regista in quinta – una soluzione di cui Gielgud era particolarmente orgoglioso. Ma la storica del teatro Eleanor Prosser era meno entusiasta:

Tutti i versi erano squisitamente salmodiati nel tono tremulo di un santo morente – tutti tranne quelli troppo spudoratamente rivoltanti oppure osceni. Quelli – la descrizione dell’avvelenamento e l’immagine della lussuria che si pasce di letame – erano cassati. Ma in queste produzioni moderne, abbiamo mai modo di essere davvero spaventati o scossi da quel che il Fantasma dice, e da come lo dice?*****

E poi, nel 1980, Vincent Price interpretò a Londra un Amleto interamente senza fantasma. Le battute del defunto babbo le diceva lui, con una voce diversa

[U]n grugnito tipo teatro Noh, che suonava come un tritarifiuti shakespeariano,

ricorda l’attore e regista shakespeariano Paul Whitworth, prima di esprimere tutta una serie di dubbi: c’è il fatto che scegliere proprio Vincent Price per una faccenda di (forse) possessione sembrava singolarmente poco sottile; c’è il non del tutto trascurabile particolare che anche Bernardo, Francesco, Marcello e Orazio vedono il fantasma senza che Amleto sia nei paraggi; c’è la conseguenza che così Amleto, anziché scivolare gradualmente nei guai di una causa che si presenta con qualche merito di giustizia, appare fin dall’inizio matto da legare e matto da legare rimane fino alla fine.

E non so quali e quanti Amleti abbiate visto in vita vostra, ma sono certa che le apparizioni del fantasma variavano attraverso tutta la gamma – a riprova del fatto che, se gli Elisabettiani non avevano le idee chiare in fatto di spettri, non le abbiamo del tutto nemmeno noi. Anima in pena, diavolo, follia, inconscio represso? L’ambiguità deliberata di Shakespeare in proposito lascia spazio alle interpretazioni – anche quelle che non avrebbero avuto un senso definito a cavallo tra Cinque e Seicento.

La cosa importante è che il Fantasma non è una pittoresca particina secondaria, né un comodo device letterario. Nato come espressione di un dilemma che la riforma protestante si trascinava dietro come le catene di Marley, rimane un fulcro concettuale di tutto il dramma: la risposta registica alla domanda “che cosa è il Fantasma?” la dice lunga su chi è Amleto – e su chi siamo noi che ne interpretiamo la storia. 

È davvero calzante, non credete, che proprio questo fosse il ruolo in cui Shakespeare saliva in scena a incontrare il suo pubblico? 

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* Tra l’altro, un temperamento malinconico (leggi depressivo, in modern parlance) esponeva particolarmente a questo genere di attacchi. Amleto, per dire.

** Per dire, Giacomo VI e I era un appassionato (e bilioso) demonologo, ossessionato da streghe, diavoli e apparizioni, su cui scrisse abbondantemente – e si capisce che l’opinione di un re tendeva a fare testo. Poi viene da chiedersi se, quando era ancora solo VI, detestasse il conte di Bothwell perché lo riteneva uno stregone, o se dicesse che era uno stregone perché lo detestava…

*** Disprezzo molto elisabettiano e riformato, si capisce.

**** Leggenda e il solito Aubrey vogliono che Shakespeare recitasse il ruolo del fantasma – dal che i biografi deducono che non dovesse essere un attore straordinariamente bravo, ma possedesse polmoni di tutto rispetto.

***** Eleanor Prosser, Hamlet and Revenge, 1971. (Traduzione mia)