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Feb 13, 2015 - Storia&storie, teatro    Commenti disabilitati su La Tragedia Scozzese

La Tragedia Scozzese

MacbethScottishPlayAvete presente la Tragedia Scozzese?

Quella cosa shakespeariana che si rappresenta – facendo i debiti scongiuri – ma non si nomina mai? Mai sul palco – all’infuori di quel che richiede il copione durante prove o spettacolo. Mai, mai, mai dietro le quinte. Ma in platea o in tutto il teatro – almeno non quando attori, regista e tecnici possono sentire.

E tutto perché, a seconda della versione, Shakespeare avrebbe inserito nel testo dei veri incantesimi stregoneschi*, oppure il trovarobe, in mancanza di un calderone adatto, ne avrebbe sottratto uno a delle streghe vere. In either case, per niente divertite, le streghe avrebbero maledetto la tragedia… quando si dice una pessima recensione!  E doveva essere anche una maledizione a effetto rapido, perché narrasi che Hal Berridge, primo interprete di Lady M. nel 1606**, sia morto durante la prima rappresentazione.

Dopodiché bisogna dire che la storia del teatro shakespeariano sia piena di pronunciatori sconsiderati e di increduli puniti, perché alla tragedia scozzese è associato  tutto un catalogo di disastri, a partire dalla rappresentazione datata 1672, ad Amsterdam, in cui il protagonista avrebbe accoltellato il Buon Re Duncan per davvero. O della spaventosa tempesta che infuriò per tutta la durata di una rappresentazione nel 1703. E che dire dei venti morti nei disordini che scoppiarono a New York tra i fan dell’inglesissimo Macready e dell’indigeno Forrest – che recitavano lo stesso ruolo in due teatri diversi? A Laurence Olivier andò abbastanza bene, e il peso di piombo che precipitò dall’impianto luci dell’Old Vic lo mancò di un soffio – ma il Re Duncan e due streghe su tre di una produzione bellica diretta da John Gielgud morirono durante il Blitz. Dopodiché la maledizione si considerò sazia di vite umane, si vede, perché a Charlton Heston non capitò nulla di peggio di una calzamaglia andata a fuoco – con lui dentro – e Sean Connery se la cavò con un’influenza micidiale…

macbeth1Pittoresco. Un filo macabro, se vogliamo, ma pittoresco.

È quasi un peccato che non sia vero nulla…

Nessun ragazzino di nome Hal Berridge risulta nella compagnia di Shakespeare – né in nessun’altra compagnia contemporanea, e la storia non risulta in nessuna fonte dell’epoca. A volte è attribuita a John Aubrey – e in questo caso sappiamo quanto la si possa prendere sul serio. Oserei dire che, se fosse successa una cosa del genere, se ne troverebbe traccia nell’opera di qualche polemista puritano teatrofobo… Per quanto riguarda l’assassinio in scena del 1672, in realtà non c’è nessun M. documentato ad Amsterdam per quell’anno. Ce ne fu una a Londra, una specie di… er, versione musicale con tanto di streghe volanti, in perfetto gusto Restoration. Quindi, magari, rimaneggiamento per rimaneggiamento, è anche possibile che il regicidio avvenisse in scena. E tuttavia, fra gli altri spettatori, c’era anche il pettegolissimo diarista Samuel Pepys: vogliamo pensare che, se un attore avesse usato un pugnale vero per far fuori un rivale in amore nel più pubblico dei modi, Pepys non ce l’avrebbe raccontato? La tempesta del 1703… be’, che dire? La Tragedia Scozzese va in scena da quattro secoli abbondanti: semmai, c’è da stupirsi che abbia incrociato una tempesta sola. I sanguinosi disordini a New York ci furono veramente, ma qualcosa di analogo era successo, per esempio, a Londra a metà Settecento, quando Garrick e Barry si sfidarono a colpi di Re Lear – e a nessuno salta in mente di dire per questo che il Re Lear porti sfortuna. E in quante produzioni cade qualcosa dall’altro, con o senza conseguenze letali? E quanta gente è morta nel Blitz? O prende l’influenza durante uno spettacolo? E la calzamaglia di Heston non prese fuoco per davvero: è solo che per qualche motivo finì impregnata di kerosene, e il kerosene… yes, well.

Macbeth_1884_Wikipedia_cropE quindi signori della giuria, credo che la Tragedia Scozzese si possa senz’altro assolvere da ogni accusa di iettatura – e anzi, che si possa ascrivere la nomea in questione a una combinazione di amore del pittoresco, malignità e al carattere naturale della gente di teatro, cui non pare sano raccontare una storia senza abbellirla almeno un pochino.

Il che non impedisce che in molti teatri, soprattutto nel mondo anglosassone, sia proibitissimo pronunciare il nome che comincia per M., o citare le battute della tragedia in questione al di fuori delle prove e dello spettacolo. I trasgressori vengono spediti fuori dal teatro a pronunciare scongiuri shakespeariani, girare su se stessi, correre attorno all’isolato o a compiere altri esorcismi – credo che ogni teatro abbia il proprio – per poi bussare per essere riammessi.

E sì, è irragionevole e più che un tantino buffo – ma siamo franchi: il teatro non è come il mondo di fuori. Il teatro funziona secondo regole tutte sue, e ci son più cose in scena e dietro le quinte, Horatio , di quante ne sogni la vostra filosofia. Per cui, a parte tutto il resto, perché sfidare sorte, tradizioni e storie?

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* Suona familiare?

** Forse. In realtà, la datazione di gran parte del teatro elisabettiano è a mezza strada fra il sudoku e uno sport violento…

 

Ott 29, 2014 - elizabethana, grilloparlante    Commenti disabilitati su Shakespeare & Marlowe Per Borgocultura

Shakespeare & Marlowe Per Borgocultura

Per cominciare…

Locandina

E qui trovate i dettagli.

Che poi a volte anche le conferenze, come i personaggi, fanno i capricci.

Sono conferenze già fatte più di una volta, si tratta di riprenderle e basta – che ci vuole mai? Si ristampa la scaletta, si rispolvera la presentazione .ppt e via, giusto?

Giusto?

E no. Per niente. Perché al primo tentativo di prova, la chiacchierata non funziona. Suona legnosetta, angolosa. Non lo era, non lo è mai stata – quindi che diamine le prende? Sarà la mancanza d’esercizio – a patto di voler chiamare un mesetto “mancanza d’esercizio”?

Così si ripete ancora – e non solo non funziona affatto, ma continua a voler prendere deviazioni, divagazioni e sentierolini fuori scaletta… Volendo, se ne può fare una questione di principio e interstardircisi, ma a mio timido avviso, dopo la terza prova franata a valle conviene farsene una ragione, decidere che si è più ragionevoli di una conferenza e dimostrarlo riaggiustando la scaletta tanto quanto serve – magari tenendo conto di altre conferenze che si sono fatte nel frattempo.

Ne segue, si capisce, la necessità di riaggiustare con energia anche la presentazione .ppt  – sennò che gusto ci sarebbe? E non vale la pena di illudersi che una rivoluzioncella delle slides sia sufficiente, perché quando la conferenza ha l’aria di sentirsi ibridata a suo gusto, la si prova e si scopre che dura un’ora e mezza.

E allora si taglia, si pota, si sfronda, si combinano slides, si ricomincia daccapo… Insomma, il resto ve lo immaginate. E la morale si è che, nonostante il tema sia sempre quello dei due poeti, pari in dignità, nella bella Londra dove ha luogo la nostra storia, monta la rivalità antica – e molto inchiostro e sangue finto inondano le scene dei teatri*, lo svolgimento è piuttosto diverso dalle occasioni precedenti e da quel che mi aspettavo. E non so se avete notato, ma persino la locandina è piuttosto diversa…

Il che, considerando che è quasi un anno che bagolo in giro di S&M, è decisamente un bene.

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* Con tante scuse al povero Will… non mi sono trattenuta.

 

 

 

Set 15, 2014 - cinema, Shakeloviana    Commenti disabilitati su Shakeloviana: Shakespeare in Love

Shakeloviana: Shakespeare in Love

WillNon ricordo più dove e quando sia successo – forse a Casa Andreasi – ma mi si è chiesto quanto ci sia di storicamente corretto in Shakespeare in Love. E io ho risposto che è pieno di deliberati anacronismi, ma è proprio questo a renderlo così shakespeariano…

Dunque, cominciamo col dire che per questo film ho un debole delle dimensioni della Cornovaglia – e per varie ragioni. In ordine di crescente importanza: una produzione che è una gioia per gli occhi (citerò soltanto le scene di folla a teatro e l’udienza della Regina a Greenwich), un’azzeccatissima colonna sonora, una serie di incantevoli interpretazioni (Dame Judi Dench, Geoffrey Rush e Rupert Everett, giusto per citarne un paio) e una scrittura intelligente – oltre che astuta.

Sì, c’è la canonica storiellona d’amore intrecciata con Romeo&Giulietta, c’è il detestabile fidanzato imposto, ci sono gli scambi d’identità e quantità industriali di licenze artistiche… però poi Norman e Stoppard innestano sul canovaccio tutta una serie di intricati scambi di ruolo e di genere, di dialoghi scintillanti, di spassosi anacronismi intenzionali (la seduta di Shakespeare dallo psicanalista, Henslowe che dice “lo spettacolo deve andare avanti”…) e di in-jokes letterari, come un giovanissimo John Webster assetato di sangue e Marlowe che suggerisce a Shakespeare la trama di Romeo&Giulietta.*Shakespeare-in-Love-period-drama-fans-16117972-500-300

SiL non è storicamente accurato? Verissimo, e nemmeno pretende di esserlo. Fin dalla prima scena Norman e Stoppard mettono bene in chiaro che abbiamo di fronte un gioco narrativo. Dopodiché il gioco è condotto con ironia e intelligenza, e persino la storiellona d’amore e le aspirazioni artistiche di Viola, a prima vista così convenzionali, lo sono assai di meno se invece di prenderle sul serio le si guarda nella prospettiva delle opere di Shakespeare e della storia del teatro elisabettiano.

Ed è qui, se volete, che veniamo al punto, perché… Consideriamo per bene: se c’è un autore sempre pronto a sacrificare allegramente l’accuratezza storica a beneficio dello spettacolo e della riconoscibilità da parte del suo pubblico, ebbene quello è proprio Shakespeare. Parlo, a titolo di esempio, di cose come la folla antico-romana che esulta gettando in aria i cappelli come una folla del tardo Cinquecento londinese. E non è esattamente quello che fa questo film? Non sono in gioco esattamente gli stessi filtri narrativi? Shakespeare è raccontato qui come Shakespeare stesso avrebbe raccontato uno scrittore di tre secoli prima – e questo sfasamento è una delle tante gioie provviste da Stoppard&Norman.

07_copy1_originalInsomma, tutto s’incastra (o viene fatto incastrare) alla perfezione, tutto luccica e scintilla, tutto scorre senza inciampi dall’inizio al non-proprio-lieto fine… E quindi, se vi aspettavate una crisi anafilattica, temo che dobbiate restare delusi. Sono allergica agli anacronismi, è vero – ma qui non si tratta di trasandatezza né di Sindrome della Bambinaia Francese. Un deliberato uso shakespeariano degli anacronismi è qualcosa con cui posso convivere in piena felicità.

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* Sì, è un particolare che mi piace molto. No, non siete stupiti. E l’unico gripe che ho a proposito del Kit Marlowe di Stoppard&Everett è che lo si vede troppo poco. – e nemmeno di questo vi meravigliate oltremodo, vero?

Ago 27, 2014 - teatro    Commenti disabilitati su Sipario – Di Carta

Sipario – Di Carta

PdC

No, d’accordo – è presto. Non è come se il Palcoscenico di Carta aprisse i battenti domani mattina, ma intanto ha una casa virtuale, un siterello tutto suo per le informazioni, i contatti e le notizie…

Il debutto vero e proprio sarà all’inizio del 2015, con l’intramontabile Romeo e Giulietta.

Ci stiamo lavorando su. L’idea è di una meravigliosa semplicità, una volta avviata, ma ci sono questioncelle organizzative, sovrapposizioni temporali, considerazioni di varia natura, complessi riti propiziatori… Come dicevo, ci stiamo lavorando su.

I miei associati a delinquere, naturalmente, sono gli amici dell’Accademia Campogalliani, senza i quali certe piccole follie sarebbero impraticabili…

E che devo dire? Non vedo l’ora di cominciare. Seguo con spirito da sorella minore il progetto originario, The Paper Stage – di cui noi siamo il capitolo italiano. Loro, a Canterbury, sono già alla terza lettura: dopo Romeo e Giulietta e l’Ebreo di Malta di Marlowe, il 15 di settembre si cimentano con la deliziosa Gallathea di John Lyly. Noi non seguiremo esattamente le loro orme – perché se volessimo attenerci strettamente al teatro elisabettiano, ci ritroveremmo limitatissimi dalla scarsità di traduzioni disponibili. E poi vorremmo esplorare un repertorio più ampio…

Credo che ognuno di noi stia privatamente compilando un cartellone dei sogni… Scommetto che non vi stupite poi troppo se vi dico che il mio, oltre a un bel po’ di Marlowe e una spruzzatina di altri elisabettiani, contempla il Don Carlos di Schiller, il Ruy Blas di Hugo, Shaw a volontà e altre eccentricità consimili.

E a dire il vero, chi lo sa? Chissà se il Palcoscenico di Carta avrà successo. Chissà se troveremo lettori, ascoltatori, simpatizzanti. Chissà che cosa leggeremo per davvero. Chissà se, su un piano più personale, leggerò anch’io. Di recitare ho smesso definitivamente, ma leggere è un cavallo di tutt’altro colore… chissà.

Nel frattempo, è singolarmente come aspettare una Santa Lucia differita. Ce n’è di che rendere desiderabile persino gennaio – l’orrido lunedì mattina cosmico.

E voi… se siete a Mantova e vi piace il teatro, fateci un pensierino. Non capita tutti i giorni di esplorare certo teatro – e magari farlo da dentro E dovunque siate, nel frattempo, date un’occhiata al sito, volete?

Ago 11, 2014 - Shakeloviana    3 Comments

Shakeloviana: Titolo Sconosciuto

Sì, be’, questo è un lunedì shakeloviano un po’ diverso dal consueto – perché il libro di cui parliamo è un ricordo, e nemmeno precisissimo.

E a dire la verità, non è nemmeno come se lo avessi letto tutto…

Dunque, cominciamo dal principio. Ero alle medie – il che vuol dire che sono passati ventotto o ventinove anni. Ora d’Italiano, e  invece di ascoltare, leggevo su e giù per l’antologia. Forse erano interrogazioni altrui, perché alle medie ero una brava bambina e facevo quel che mi si diceva di fare e ascoltavo le lezioni… ma tant’è.

Curiosando per l’antologia, che era alta una spanna, mi ero imbattuta in una sezione di brani più lunghi, destinati ad essere letti durante le vacanze. Erano suddivisi per temi, e c’era una sezione dedicata ai ragazzini che praticavano le arti. C’era la storia di Priscilla,  giovanissima allieva della scuola di ballo della Scala, che faceva il topo in una produzione (immagino) dello Schiaccianoci, e c’era qualcuno, forse il coreografo, la cui pronuncia non milanese (diceva “topi” con la o chiusa) era motivo di stupore e ilarità tra le ballerinette…

E c’era Tom. Tom eraBoyPlayer un boy player elisabettiano, probabilmente al Globe. Era in adorazione di Will, il poeta della compagnia, ed entusiasta della sua prima parte importante. Non ricordo quale fosse la parte, né quale fosse la tragedia. Romeo e Giulietta? Può essere. Ma poteva essere anche Amleto… non so. Quel che ricordo è che Tom se ne tornava a teatro tutto trionfante, brandendo una copia pubblicata del testo, che aveva comprato per studiare la parte… solo per ricevere una solenne sgridata da Will. Avvilitissimo e scombussolato, Tom scopriva da un altro attore di avere comprato a caro prezzo una stampa non autorizzata, scritta in base alla memoria imperfetta di un attore mercenario, e piena di errori, omissioni e imprecisioni – il genere di cose che mandava Will fuori dai gangheri. “Studia per bene la tua parte e non preoccuparti,” consigliava l’attore comprensivo. “Vedrai che gli passa.”

Ecco tutto. Quasi trent’anni fa non sapevo nulla di Shakespeare, della Londra elisabettiana, dei bad quartos, dei ragazzini in parti femminili, dei pirati-stampatori, di Gabe Spenser che forse – forse forse aveva venduto Romeo e Giulietta a quel mascalzone di Danter. E di sicuro non sapevo che un giorno queste cose sarebbero diventate la mia passione. Però la lettura mi aveva colpita abbastanza per rimanermi impressa attraverso tre decenni.  Direi che, se il Macbeth al Teatro Romano di Verona, più o meno alla stessa epoca, è stato il mio primo Shakespeare, questa pagina d’antologia è stata il mio primo contatto con la Londra elisabettiana.

Quel che mi dispiace è di non ricordare né titolo, né autore, né se il brano appartenesse a un libro italiano o tradotto, né nulla di utile… Ad essere sinceri, dopo tutto questo tempo, non sono più nemmeno del tutto sicura che il protagonista si chiamasse Tom. Ripetute ricerche nella vecchia riserva di antologie di mia madre non sono servite a nulla, e neppure internet, per una volta, è del minimo aiuto.

Per cui, niente. Oggi non ho titoli per voi. Soltanto il vago ricordo di un libro per fanciulli che mi piacerebbe molto ritrovare. Qualcuno per caso ha idea?

 

Ago 1, 2014 - libri, libri e libri    2 Comments

Dal Lato Sbagliato Della Coperta

Vi ricordate quando parlavamo delle potenzialità narrative degli orfani? Be’, c’è un’altra categoria di personaggi altrettanto dotati in fatto di conflitto originario, ma di solito più complicati: i figli illegittimi.

Possono essere anche orfani, o credersi orfani – e poi scoprirsi provvisti di uno o più genitori, oppure non sanno chi sono, o lo sanno e si risentono… C’è tutta una fenomenologia, ma una cosa è costante: sono malaggiustati. Degli outsider tormentati dal rancore, dal senso d’ingiustizia, dallo stigma sociale… Conflitto a palate!

E non è detto che siano teneri e simpatici come gli orfani – almeno non in tutte le epoche.

EdmundIn età elisabettiana, per dire mica tanto. Prendiamo un autore a caso – Shakespeare.* Per un intelligente, saggio ed energico Faulconbridge, abbiamo l’invidioso e manipolatore Don John in Molto Rumor per Nulla, l’intrigante, rancoroso Edmund in Re Lear, e Calibano della Tempesta, che è proprio un mostro. E in linea generale, nel teatro elisabettiano e giacobita, l’illegittimità tende ad essere sinonimo di cattivo carattere, sregolatezza e morale periclitante nella migliore delle ipotesi, con punte di malvagità pura e semplice.

Ma a questo punto, stiamo parlando di bastardi di sangue reale o molto nobile, giovanotti a un invalicabile passo da un titolo o da una corona, pieni di risentimento e di ambizioni frustrate…

Bisogna aspettare il Settecento di Fielding, per trovare un Tom Jones, trovatello e commoner, illegittimo, ma di buon cuore e principi fondamentalmente sani, al contrario del legittimissimo fratello adottivo, che è un ipocrita di tre cotte. Inutile dire che all’epoca l’idea risultò piuttosto scandalosa – ma la romanticizzazione un po’ risquée dell’illegittimità era dietro l’angolo.

Non ancora in Jane Austen – o non proprio, se consideriamo che l’Emma eponima si considera molto longanime nell’incoraggiare la povera Harriet, di dubbia nascita, ad aspirare a un buon matrimonio… Il fatto è però che le idee di Emma in proposito si rivelano malguidate. In realtà Harriet rimane “improponibile” per un gentiluomo, e alla fine troverà “il suo posto” sposando un contadino ricco.

L’idea che persino l’ombra dello scandalo basti a rovinare una donna e le sue prospettive matrimoniali è ancora in pieno fulgore nei tardi anni Trenta dell’Ottocento, quando la Rose Maylie di Oliver Twist, pur essendo uno di quei miracoli di perfezione femminile che solo Dickens, non può sposare il gentiluomo Harry, perché la sua nascita è dubbia. E sia chiaro, la zia di Harry ha cresciuto Rose e la adora – solo che non si fa. Ci vorrà l’orgia di agnizioni del finale per far trionfare l’amore entro i confini della proprietà sociale.

Andrà meglio, in Casa Desolata, a Esther Summerson, che pur illegittima ha ben due uomini ansiosi di sposarla, e può godere di un lieto fine. Non a caso, tuttavia, il lieto fine arriverà soltanto dopo che entrambi i suoi discutibili e adulteri genitori saranno morti. Un prezzo da pagare c’è sempre… Antony

E la romanticizzazione che si diceva? Be’, tende a riguardare per lo più i personaggi maschili. Come l’Antony di Dumas Père (che di figli illegittimi ne sapeva qualcosina), cupo eroe byroneggiante, reietto dalle reazioni un tantino incontrollate – ma lo si deve capire: fuori dalla società, fuori dalle convenzioni… Non a caso, Dumas Fils, esemplare di prole illegittima, scriverà a sua volta un dramma intitolato Le Fils Naturel – ma con una visione meno romantica, e una decisa rivendicazione dei diritti dei figli naturali.

Victor Hugo nel 1828 mette nella sua Marion Delorme un altro di questi giovanotti illegittimi e fiammeggianti: Didier è di quei primi amorosi e grandiloquenti con vocazione al martirio (proprio e altrui). Una trentina d’anni dopo, con il dramma di Fantine e Cosette nei Miserabili, Hugo mostrerà di saper dipingere l’illegittimità in colori meno melodrammatici e più dolorosi. E se, di nuovo, Didier-il-romantico è un uomo, e Cosette-la-rovinata è una donna, è anche vero che l’irregolarità di Cosette viene ingoiata intera dal pur rigido Monsieur Gillenormand prima quando l’alternativa è perdere di nuovo Marius, e poi quando la fanciulla si rivela ereditiera.

Alla fine dell’Ottocento, l’illegittimità di Billy Budd non è il tema centrale della novella omonima, però di sicuro è la circostanza originaria che dà a Billy la sua sconcertante (e alla fin fine letale) combinazione di fascino e candore.

Ma ci vorrà il Novecento perché la narrativa esplori davvero la situazione dei figli illegittimi dell’uno e dell’altro sesso – gente con una situazione non solo socialmente insanabile, ma psicologicamente distruttiva. Pensiamo allo Zenon Ligres di Marguerite Yourcenar, a perenne caccia di qualcosa che lo affranchi o compensi. O al Razumov di Conrad, così fatalmente ansioso di essere accettato dal padre naturale e dal suo ambiente. O il Michael del desolato The Gardener, insicuro nonostante l’affetto con cui è stato cresciuto dalla zia. O, con un taglio più leggero per genere, ma non per esito, il Meurig di Ellis Peters, più fedele dei parenti legittimi al maniero e al nome che non può ereditare. Il Jean/Kack Dunois di Shaw, il grande amico di Santa Giovanna, lo troviamo un caso senza complicazioni, perfettamente aggiustato nel suo ruolo – ma stiamo parlando di un personaggio piuttosto minore, un simpatico sidekick di sangue reale, cui non si possono dare tormenti privati che distraggano il pubblico dalla Pulzella: l’illegittimità di Dunois è puramente storica e incidentale, e possiamo considerarla irrilevante. Se davvero vogliamo qualcuno cui vada relativamente bene, c’è l’André-Louis Moreau del sabatiniano Scaramouche, che colla sua illegittimità viene a patti nelle turbolenze livellatrici della Rivoluzione – salvato probabilmente, come ci viene quasi promesso fin dalla prima riga del romanzo – dal suo sense of humour…

imagesMa può anche darsi che André-Louis sia solo più fortunato in fatto di contesto, e più abile a nascondere il suo disagio. In generale, se gli orfani hanno conflitto in abbondanza, i figli illegittimi  – almeno fino alla prima metà del Novecento – ne hanno ancora di più, meno risolvibile, dalle conseguenze più amare e più inestirpabili. Per loro, alla situazione dolorosa e alle difficoltà economiche, si aggiungono problemi d’identità negata e sradicamento – combinati con un rifiuto sociale, più o meno esplicito, che chiude la maggior parte delle strade. Non è un caso se il tema ritorna così spesso in letteratura, e se gli esemplari della specie che godono di lieto fine si contano sulle dita di ben poche mani.

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* Dite la verità: vi aspettavate Marlowe, vero? E invece no…

Lug 16, 2014 - elizabethana, Storia&storie    Commenti disabilitati su Notturno Shakespeariano

Notturno Shakespeariano

…E Marloviano, of course.

Vi avevo parlato del mio corso estivo presso la Libera Università del Gonzaghese? Be’, eccoci qui. Quattro serate agostane a bagolare dei nostri due festeggiati nel bellissimo chiostro dell’ex Convento di Santa Maria – sempre che non piova, perché allora si migra alla Millenaria – con postilla culinaria.

Corso14Gonzaga

Si comincia il 1° di agosto con Shakespeare & Marlowe, Poeti in Londra – quello che sappiamo, quello che non sappiamo (più) e quello che s’ipotizza e immagina sull’indocumentata ma inevitabile rivalità poetica tra i nostri due.

Poi si prosegue, venerdì 8, con La Città dei Teatri – una visita ideale alla Londra elisabettiana e al suo turbolento, pittoresco, incandescente mondo teatrale.

Dopo la pausa di ferragosto, si ricomincia il 22 con L’Uomo dei Sonetti – alla scoperta di dubbi, meraviglie, storie d’amore, pennivendolerie e identità misteriose nascosti tra i versi di uno dei cicli poetici più celebri della lingua inglese.

E per finire, il 31 daremo uno sguardo alla fama postuma dell’uno e dell’altro, tra semi-oblio, propaganda puritana, falsificazioni, riscritture, bardolatria, tradizioni teatrali, spiritismo e bizzarrie miste assortite – con Ai Posteri d’Ardua Sentenza.

Intanto potete scaricare qui la locandina in PDF. E poi se siete da queste parti, e se vi va, ci vediamo a Gonzaga in agosto.

 

Giu 16, 2014 - Shakeloviana    Commenti disabilitati su Shakeloviana: Murdering Marlowe

Shakeloviana: Murdering Marlowe

2Vi ricordate lo Will Shakespeare di Clemence Dane?

Ve lo chiedo perché oggi parliamo di un altro play che, pur avendo una certo numero di punti di contatto, non potrebbe essere più diverso.

Come Miss Dane, anche Charles Marowitz tenta la via del verso sciolto. Come Miss Dane, anche Marowitz piazza il giovane Shakespeare all’ombra del giovane Marlowe. Come Miss Dane, anche Marowitz ci mette in mezzo una donna – più o meno contesa, più o meno indecisa. Come Miss Dane, anche Marowitz ci aggiunge una Anne Hathaway abbandonata e attaccaticcia. Come (e più di) Miss Dane, anche Marowitz esplora questioni di individualità artistica e spazi espressivi da trovare. Come Miss Dane, anche Marowitz mette Shakespeare dietro la coltellata fatale a Deptford – sia pure meno… er, direttamente.

E in realtà le somiglianze finiscono qui. In Marowitz, per cominciare, non ci sono bravi ragazzi tormentati. Will è un genio 4ec58402c1655.preview-300insicuro e meschino, divorato dall’invidia al punto che l’omicidio gli sembra un metodo perfettamente sensato per liberarsi del coetaneo più brillante. Kit è pieno di hybris e autodistruttivo, ma sgradevole su tutta la linea – scritto per offrire a Will tutte le motivazioni e tutti i mezzi per l’omicidio, e nemmeno l’ombra di un motivo di rimorso o simpatia. La donna contesa non è una Mary Fitton luccicante e amorale, ma una Emilia Lanier che rimbalza di letto in letto, cercando di manipolare in qualche parvenza di sentimento – o almeno di reazione – due uomini che per lei hanno davvero poco tempo considerando quanto Will sia ossessionato da Kit, e quanto Kit sia ossessionato da se stesso. Anne tenta di essere quella costretta alla prosaicità dalle delusioni, dalla povertà e dall’altrui vaghezza, ma esce piuttosto piatta. Quanto all’individualità artistica, devo confessare che, pur credendo senza un’ombra di difficoltà che Marlowe sia stato una pietra di paragone oltremodo ingombrante, fatico a indurmi ad apprezzare uno Shakespeare ossessivamente, circolarmente intento a ripetersi che oh, se solo non ci fosse Marlowe! È… poco.

E i versi? vi chiederete forse.

Ecco, i versi…

67289-large_0Non ho nulla, ma davvero nulla contro il teatro contemporaneo in versi giambici – a patto che la cosa funzioni. È un “a patto” piuttosto maiuscolo, me ne rendo conto, proprio per il fatto che far funzionare i pentametri giambici in un linguaggio che suoni debitamente elisabettiano e non sia un’infelicità per l’orecchio moderno è un mestiere intricato e delicatissimo. In qualche modo, Clemence Dane ci riesce senza grattare troppo – o almeno così sembra a me, e forse è solo perché con il 1921 si è più indulgenti? Magniloquente, gonfio e purpureo, il linguaggio in versi della Dane è irritante a tratti, ma irritante in quella maniera georgiana che, in qualche modo, funziona. Voglio dire, si vedono immagini come questa qui a fianco, e si capiscono molte cose…

Però si direbbe che il mio livello di tolleranza frani a valle quando si tratta di un autore contemporaneo, perché i pentametri di Marowitz mi rendono un po’ infelice. Non li ho mai sentiti recitare, ma alla lettura mi suonano legnosi e insipidi al tempo stesso. Ripeto, magari sono io, e non è come se preferissi i versi di Miss Dane, ma in qualche modo, lo spudorato tentativo post-vittoriano di riprodurre il linguaggio del Bardo mi irrita meno del dichiarato intento contemporaneo di non voler imitare Shakespeare.

D’altra parte, ci sono varie cose che Marowitz dichiara – tra l’altro di avere costruito il suo play più come un thriller che come un period piece. Considerando quanto è confuso e macchinoso il delitto, non so spingermi ad affermare che ci sia riuscito terribilmente bene.

Morale – un disastro completo?

In realtà no. Ci sono alcune buone cose in questo play. L’atmosfera cupa e claustrofobica, il senso di minaccia, un’idea di fondo bizzarra ma interessante, la frustrazione di Emilia, il momento rivelatore in cui Will si rende conto di non essere poi così machiavellico come credeva… È un peccato che poi l’insieme non funzioni granché.

 

Giu 9, 2014 - Shakeloviana    Commenti disabilitati su Shakeloviana: The English Channel

Shakeloviana: The English Channel

brusteinThe English Channel è un play di Robert Brustein – e no, non parla della Manica.

Con una manciatina di gente in scena, parla di Shakespeare, e di Marlowe, e di arte, e di teatro, e del significato e valore dell’originalità, e del rapporto tra un autore e il suo materiale, e di grandezza, e di debiti, e di un sacco di cose.

E poi, giustificando il titolo, parla di cose che vogliono essere scritte – e di quell’impressione che a volte si ha, di essere… visitati.

“Vengono quando dormo, dice il Will di Brustein, E qualche volta quando non riesco a dormire, e pretendono che li faccia entrare, e gridano con quelle voci fameliche. Chiedono che dia loro vita. E quando ho dato loro vita, ne chiedono di più.”

E questo Will è perfetto per questo – per essere The Channel – perché non ha una personalità terribilmente definita. È una sorta di spugna che assorbe (e annota) tutto quello che sente. È una manciata di cera morbida, pronta a modellarsi su qualsiasi forma  lo colpisca. È un ladro, dice Kit Marlowe. Un ladro di parole, di espressioni, di sentimenti – e occasionalmente di versi. E lo dice con qualche acidità – ma d’altra parte questo Kit non potrebbe mai essere così neutro e flessibile: un radicale fiammeggiante, è sempre lui a parlare in tutti i suoi personaggi. Marlowe foggia l’umanità a sua immagine e somiglianza, mentre Shakespeare foggia sé stesso in forma di varia e molteplice umanità.

Poi però Marlowe muore – e il suo fantasma inappagato offre a Will di essere la sua voce, il canale attraverso cui prendono vita le idee che la pugnalata fatale a Deptford ha, so to say, soffocato in culla.

Uno Shakespeare che scrive sotto preternaturale dettatura? È questa l’impressione che si potrebbe ricavare, dopo avere visto i due poeti alle prese con Emilia Lanier e il giovane Henry Wriothesley per cinque atti. E se ci si fermasse lì, potrebbe quasi essere deludente… Channel190

Ma.

In realtà i cinque atti cambiano d’aspetto quando li si legge incorniciati tra due testi. Prima c’è un’introduzione che spiega come la teoria dello Shakespeare-di-cera sia nata da un insieme di suggestioni* raccolte a teatro, nei libri di Stephen Greenblatt – cui il play è dedicato – e nell’esperienza personale dell’autore. Quell’impressione di essere visitati, ricordate? E poi c’è qualcosa di bizzarro, intitolato “Recensione di un Fantasma”, in cui Richard Burbage, probabilmente il primo Romeo, ironizza  in maniera smaliziata e semi-elisabettianasul play, e sulla mitologia bardolatrica e, già che c’è, sull’antistratfordianesimo:

“Com’è che voi moderni vi sentite obbligati a credere che chiunque possa avere scritto le opere di Shakespeare – tranne Shakespeare?”

E se lo chiedete a me, non ha tutti i torti – ma non è questo il punto. Il punto è che, preso da solo,  The English Channel è un play ragionevolmente brillante, che riprende un’immagine non del tutto nuova di Shakespeare, e strologa sul suo rapporto con la sua ispirazione e la sua opera. A rendere tutto ciò davvero significativo, tuttavia, a gettare luci di taglio sul gioco metateatrale e metaletterario, a radicarlo in una prospettiva a cannocchiale di punti di vista interpretativi, sono quei due arnesi che lo incorniciano come due fermalibri – uno prima e uno dopo.

Mi domando se in scena, privato di questa cornice fondamentale, il play non soffra un po’ e non non rischi di diventare un grazioso giochino metaletterario.

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* Ho sempre trovato curioso che nel numero non ci sia Shaw, il cui Will, in The Dark Lady of the Sonnets, sembra un po’ un progenitore di quello di Brustein…

 

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Apr 27, 2014 - elizabethana, musica    Commenti disabilitati su Macbeth Blues ♫

Macbeth Blues ♫

Hm, d’accordo – l’ho già postato su Scribblings qualche settimana fa, ma è troppo favoloso per lasciarlo solo là….

Chi può resistere a un giovane Leonard Bernstein che coniuga Shakespeare e Billie Holiday? Chi avrebbe mai detto che il blues funzionasse per pentametri giambici?

E buona domenica.