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Nov 20, 2011 - cinema    2 Comments

L’Eleganza Del Bardo

Questa settimana va così – abbiate pazienza: Shakespeare in ogni dove e in tutte le salse.

Le prime recensioni di Anonymous sono (prevedibilmente) così così.

Cate mi segnala il non esaltante parere in proposito di Rotten Tomatoes (sito generalmente degno di fiducia), mentre Massimo Bertarelli dice che è sontuosamente noioso e tagliato con l’accetta. Hm. A quanto pare, fa rimpiangere la grazia di Shakespeare in Love – e d’altra parte Stoppard è Stoppard, giusto?

Così credo che posterò qui una piccola scena di SiL, a riprova del fatto che a volte, quando si è davvero strepitosamente bravi e si sa fino in fondo quel che si fa, l’accuratezza storica si può allegramente sacrificare – purché lo si faccia in superlativa e intelligente scrittura.

Buona domenica!

Shakespeare Chi?

Oggi esce Anonymous, di Roland Emmerich.

E no, non sono oxfordiana – why, non sono nemmeno anti-stratfordiana – e temo di non avere un briciolo di fiducia né in Emmerich né in Orloff.

E però.

Da un lato ne avete tutti fin sopra i capelli della mia infatuazione nei confronti del posto e dell’epoca: potrei mai trascurare un film ambientato in epoca elisabettiana – e che parla di teatro? Giammai.

E d’altro canto è pur vero che attorno alla fama postuma del buon Will nei secoli si è prodotta la fauna più straordinaria…

william-shakespeare.jpgDi solito sono gli scrittori a fare cose folli per amor di letteratura, ma – in questo come sotto altri aspetti – William Shakespeare sembra essere un caso a sé. A contare le stramberie commesse nei secoli attorno alla nachleben del Bardo c’è da rimanere basiti.

A partire dal dibattito di base: che cosa sappiamo dello Zio Will? Tutto quel che c’è da sapere, appena quanto basta, una ragionevole quantità di cose, o non sappiamo un bottone? Inutile dire che le opinioni in materia divergono selvaggiamente: c’è chi lo fa sembrare l’uomo del mistero, poco più di una cifra nascosta dietro lo straordinario corpus di opere che si sa, e chi sostiene – non del tutto a torto – che per essere stato un teatrante di epoca elisabettiana (categoria popolare fin che si vuole, ma non proprio socialmente comme il faut), si è lasciato dietro un considerevole numero di tracce. 

La domanda successiva è: che cosa si deduce da quello che si sa? Una sorprendente quantità di gente sembra dedurne che Will Shakespeare non può avere scritto le sue opere, che era una specie di prestanome, un autore mediocre, attore, mezzo impresario e mezzo mercante di granaglie, un provinciale poco meglio che illetterato, pronto a vendere il suo nome per consentire a qualcun altro di pubblicare di nascosto tutte quelle opere geniali.

Chi altro di preciso? Su questo c’è ogni genere di sconcertante ipotesi.

Marlowe.jpgComincio con la legione di neo-marloviani, secondo i quali Kit Marlowe non morì affatto a Deptford nel 1593 ma, dopo avere inscenato la rissa fatale per sottrarsi ai potenti nemici che si era procurato nella sua attività di spia, fuggì sul continente e continuò a scrivere indisturbato, spedendo a Shakespeare un capolavoro dietro l’altro perché li pubblicasse sotto falso nome. La teoria si presenta sotto varie forme che possono coinvolgere o meno lo spymaster Francis Walsingham e suo nipote Thomas (qualche volta indicato come l’amante di Marlowe), Walter Raleigh e la Scuola della Notte, la Grande Elisabetta in persona e chi più ne ha più ne metta.

Parlando di Elisabetta I, c’è anche chi sostiene che sia stata proprio lei a scrivere le opere di Shakespeare, solo che non stava bene che una regina scrivesse teatro, e quindi… Però gli elisabettisti sono una sparuta e malconsiderata minoranza, nulla a che vedere, per esempio, con i baconiani o gli oxfordiani.

Francis_Bacon.jpgI baconiani – quelli secondo cui Shakespeare-l’Autore era in realtà il filosofo e saggista Francis Bacon – annoverano nelle loro file uno dei più singolari personaggi del serraglio: Delia Bacon, una signora nata nel Connecticut nel 1811, un po’ squadrellata ma piena di fascino, considerando che riuscì  a coinvolgere nella sua ossessione innumerevoli finanziatori ed editori e persino (postumamente) gente come Henry James, Mark Twain e Helen Keller (quella di Anna dei Miracoli). Persino Delia-Bacon.jpgHawtorne, a suo tempo, si lasciò indurre a scrivere una prefazione al suo libro, cosa di cui poi si pentì, data la sprezzante accoglienza che il libro in questione ricevette negli ambienti accademici. La povera Delia, mai troppo stabile di suo, finì col morire in manicomio, ma la sua teoria fece scuola e generò una branca particolare: non si contano i crittografi che, anagrammando versi con un puntiglio e un’ingegnosità degni di miglior causa, trovarono oscuri riferimenti al buon Bacon.

Edward_de_Vere.jpgUn altro e ben distinto bunch è quello degli oxfordiani, gente il cui argomento primario sembra essere che il figlio di un guantaio di Stratford, provvisto di un’educazione sommaria e autore di un testamento in cui non compare un singolo libro, non può avere scritto tutte quelle opere raffinate, complesse, piene di riferimenti a luoghi esotici, viaggi per mare, campi specialistici come diritto e medicina e usi di corte. E allora, dicono costoro, capitanati dal mestro di scuola inglese J.T. Looney, chi meglio di Edward de Vere, 17esimo conte di Oxford? Eccolo lì il raffinato cortigiano, viaggiatore e autore occasionale… Temo che la causa oxfordiana non sia precisamente aiutata dal fatto che in Inglese Looney si pronuncia come loony, vale a dire “matto”, ma la cosa non sembra avere scoraggiato illustri sostenitori come John Galsworthy, Sigmund Freud (almeno per un certo tempo), Orson Wells e Sir Derek Jacobi.

Non è finita qui, c’è anche chi tifa per la bella e colta Lady Mary Sidney, con o senza la collaborazione del suo celebre fratello, Sir Philip Sidney, oppure per Walter Raleigh, o per William Stanley, conte di Derby, o per un’altra quarantina di candidati in ordine sparso.

Ora, diciamolo piano perché il dibattito è violento ai limiti della fisicità, ma tutte queste teorie tendono a fare acqua in un modo o nell’altro: Marlowe era… be’, un tantino morto per scrivere; Bacon condusse una vita politicamente e intellettualmente molto piena anche senza infilarci l’opera omnia di Shakespeare, e poi aveva l’abitudine di pubblicare a suo nome, proprio come Oxford, il quale oltretutto, essendo morto nel 1604, avrebbe dovuto preparare in anticipo una considerevole parte della sua opera, lasciandola da pubblicare postuma. Improbabilità analoghe affliggono anche tutte le altre teorie…

E tuttavia, se vi siete fatti l’idea che gli spostati stiano tutti in campo anti-stratfordiano, provvedo subito a correggere l’impressione.

Dove vogliamo mettere, per esempio, William Henry Ireland che, a cavallo tra Sette e Ottocento, per william-henry-ireland.jpgattirare l’attenzione e l’affetto del padre – incisore celebre e studioso shakespeariano dilettante – cominciò a produrre falsi autografi del Cigno di Stratford? Cominciò con qualche firma e con l’occasionale documento, e fu creduto anche dagli esperti del tempo. Il padre, che fino ad allora aveva creduto di avere un figlio stupido, nel suo entusiasmo diede a tutta la faccenda molta più pubblicità di quanta William ne desiderasse, innescando un meccanismo che portò il ragazzo a cimentarsi addirittura con il supposto manoscritto di una tragedia perduta, Vortigern and Rowena. L’opera fu persino rappresentata, seppur senza un gran successo, nientemeno che dalla compagnia di Sheridan e Kemble. Poi il povero William fu smascherato da Edmond Malone, un avvocato irlandese e studioso di letteratura, col risultato che la sua frode venne esposta, il padre lo disconobbe e diseredò… una storia triste.

Malone.pngMalone, d’altronde, mancava a sua volta di qualche venerdì: aveva l’abitudine di prendere a prestito documenti antichi di enorme valore (come i registri parrocchiali di Stratford per l’epoca rilevante) e non restituirli se non dopo molti anni, e talvolta tagliuzzati. E questo era considerato uno studioso serio, figuratevi un po’ voi!

Si potrebbe continuare con l’eccentrica coppia americana che dedicò buona parte della sua vita e del suo patrimonio a fare ricerche negli archivi inglesi – e sempre si credette spiata e perseguitata dai servizi segreti di Sua Maestà Britannica; o con Freud che, dopo essere stato un oxfordiano si convertì all’altrettanto bizzarra convinzione che lo Zio Will fosse in realtà un Francese di nome Jacques Pierre; o con la gente che vuole il Bardo italiano (specificamente siciliano) o tutto fuorché inglese. Potrei sbagliarmi, ma credo proprio di ricordare un tempo in cui Gheddafi giurava sull’origine maghrebina di Sheik Spear.

Non del tutto sorprendentemente, tutto questo marasma pseudo-accademico ha dato origine anche a una certa quantità di letteratura narrativa. Qui mi limiterò a citare tre titoli: The Propagation of Knowledge, un racconto di Kipling in cui Stalky, Beetle e M’Turk fanno sfoggio delle teorie di Delia Bacon ai danni del detestato professor King; Il Manoscritto di Shakespeare, di Domenico Seminerio, che ambienta il dibattito in Sicilia e mostra una versione all’acqua di rose della scrittura un romanzo storico; e il ripetutamente citato History Play di Rodney Bolt, meraviglioso gioco letterario che si fa garbate beffe delle teorie marloviane e del mondo accademico, a mezza strada tra una sciarada, un saggio e un romanzo storico.

Ma se volete qualche lume in più su questa narrativa anti-stratfordiana, date un’occhiata a questo articolo, il mio primo intervento bardocentrico su Thriller Magazine – perché, di nuovo, la fauna è abbondante e bizzarra.

Ce n’è di gente bizzarra al mondo, vero? E per di più, date loro una causa di qualsiasi tipo e vi solleveranno una quantità di polvere, accademica e otherwise.

Nov 13, 2011 - teatro    Commenti disabilitati su Richard, Laurence, Peter

Richard, Laurence, Peter

Volevo fare un post domenicale semiserio sulla voce di Laurence Olivier, ma mentre cercavo qualche clip adatto mi sono imbattuta in una chicca – chicchissima.

Allora, prima guardate questo – Now is the winter of our discontent (dal Riccardo III) nella celeberrima versione di Sir Laurence Olivier:

Sì, lo so: alla fine c’è anche un pezzetto di necrologio della BBC. Pazienza. E adesso guardate Peter Sellers che imita il Richard di Olivier – sul testo di A hard day’s night, dei Beatles:

Capito che cosa intendo, quando parlo di post semiseri sulla voce di Laurence Olivier? Buona domenica a tutti.

Feb 25, 2011 - Poesia    2 Comments

Nei Versi Sciolti Si Può Inciampare

Sapendomi incuriosita dalla tecnica poetica legata all’Inglese, M.J. mi segnala un sito – il cui link verrà forse in seguito. Non ora, e forse in futuro, per un motivo specifico.

Quando l’ho visitato seguendo la segnalazione di M.J., ho trovato con delizia una serie di spiegazioni molto chiare di tipi di metro e generi relativi. Scopro che, accanto a forme meno inattese, esistono cose con nomi come Teacup Dictionary e Kyrielle. Incantevole! Sì, forse qua e là semplificano un tantino, ma come introduzione mi sembra perfetta…

…Finché non inciampo nella pagina del Blank Verse, o verso sciolto. Versi non rimati, spiega PD, spesso (ma non sempre) pentametri iambici. Il primo a introdurre il Blank Verse è stato Shakespeare.

Come, prego? Shakespeare?

Ed è qui che tiro il freno a mano, perché è una bugia grossa come una casa. Se c’è stato un iniziatore del BV è stato Marlowe, e nemmeno lui l’ha inventato  del tutto. Già prima di lui qualche autore aveva usato davvero una successione di pentametri iambici tutti uguali. Marlowe creò il BV inglese inserendoci movimento e varietà attraverso una serie di accorgimenti tecnici che spezzavano la regolarità dei versi, non solo modificandone il ritmo, ma rendendolo adattabile alla situazione drammatica.

Poi è vero che Shakespeare ha portato la tecnica a incredibili vertici di raffinatezza, ma lo ha fatto partendo dal lavoro di Marlowe.

La falsa attribuzione mi ha lasciata perplessa, e mi ci avrebbe lasciata anche se Kit Marlowe non fosse la mia ossessione in carica. Devo dedurne che i redattori di PD non sappiano la storia della letteratura? E allora perché dovrei fidarmi della loro guida alla poesia? Devo dedurne altrimenti che la sappiano benissimo, ma abbiano ipersemplificato perché il lettore medio conosce Shakespeare e non ha mai sentito nominare Marlowe? E perché vorrei fidarmi della guida alla poesia di chi non crede che un aspirante poeta possa fare un piccolo sforzo di pensiero e di memoria? In fondo basterebbe molto poco: “Il BV fu introdotto per la prima volta da Marlowe e poi perfezionato da Shakespeare.” Troppo difficile?

Adesso sono costretta a decidere se trovare questa gente antipatica o se diffidare anche delle loro tazze di tè e delle loro kyrielles…

Feb 21, 2011 - Spigolando nella rete    2 Comments

Dieci Romanzi Che Non Avrei Creduto Di Vedere Trasformati In Videogioco

Il commento di Renzo a questo post mi ha fatto venir voglia di indagare un pochino, e le indagini hanno dato risultati inattesi.

Cominciamo col dire che mi aspettavo i gazillioni di giochi per il computer ispirati a Tolkien, Terry Brooks e imitatori vari, e non sono sorpresissima delle lunghe serie di hidden object games ispirati ad Agatha Christie e ad Arthur Conan Doyle. Tutto sommato, anche Enid Blyton e Nancy Drew (serie, non autrice, perché non esiste un unico autore di Nancy Drew) non sono nulla di inatteso. Stevenson? Ci sta tutto: Lo Strano Caso e L’Isola Del Tesoro… com’era possibile che gli sviluppatori non si lasciassero tentare? E anche personaggi come Dracula, Alice, Frankenstein, Tarzan, James Bond e Conan il Barbaro sono scelte naturali, come pure tutto ciò che ha a che fare con Cthulhu e il Mago di Oz*. Parimenti immagino che Richard Scarry, Peter Pan, Mamma Oca, gli animali di Esopo e i Fratelli Grimm, questi beniamini dei piccoli, dovessero diventare giochi. Sono un po’ più sorpresa, semmai, da titoli come Ivanhoe, Viaggio al Centro della Terra, Il Giro del Mondo in Ottanta Giorni (e non una volta sola) e Caccia a Ottobre Rosso.

Poi ci sono le cose davvero bizzarre, quelle che non mi sarei mai aspettata di vedere adattate (anche più di una volta) in forma di videogioco. E se confesso di avere sobbalzato un nonnulla davanti al Grande Gatsby segnalato da Renzo, ecco qui altre sorprese:

1) Fahrenheit 451 – in cui si vestono i panni di Montag (ovviamente), tanto vecchio da essere uscito in floppy disk.

2) L’Odissea – no, forse di questo non sono stupita davvero. Voglio dire, è una delle più fantastiche avventure di tutti i tempi, per cui… forse questi non era il migliore degli adattamenti possibili, se è recensito come “il peggior gioco del mondo – un insulto a Omero e all’intelligenza del giocatore”…

3) Salome – non perché Oscar Wilde non meriti attenzione, ma dalla descrizione del gioco, intitolato Fatale, non riesco assolutamente a capire come funzioni, né che cosa si possa fare di preciso. Non so perché ma l’idea di salvare il Battista in un finale alternativo mi sembrerebbe… shall we say bizzarra?

4) Harlequin – allora, chiariamo: Harlequin non è un romanzo, è l’equivalente anglosassone delle nostre collane Harmony. E chi l’avrebbe mai detto? Esiste un titolo, Hidden Object Of Desire, in forma di uno di quei giochi in cui bisogna trovare gli oggetti in mezzo alla confusione. Il romanzo è allegato in PDF, dice la pubblicità. Suono genre-snob, se dico che non ho parole?

5) I Miserabili – per una volta, sembra basato sul romanzo e non sul musical. Molto filosofico e complesso, mi par di capire – ma d’altronde, essendo basato su tanto tomo…

6) Il Mondo di Sofia – voglio dire, Il Mondo di Sofia! Personalmente, trovavo Gaarder irritante in libro, per cui mi sembra difficile immaginare qualcuno che voglia anche giocarci al computer… ma d’altra parte, si sa, la Clarina ha strane antipatie.

7) Amleto – e non una volta sola. Anche se, a dire il vero, Castle Elsinore sembra più che altro una di quelle avventure in cui si esplorano cunicoli e sale con le bifore, a caccia di tesori. Hamlet sembra più interessante, un’avventura testuale in cui, nei panni di Amleto, si interagisce con gli abitanti di Elsinore e un certo numero di ospiti provenienti da altri titoli scespiriani. Hamlet per iPhone sembra una faccenda più spassosa, con un astronauta/viaggiatore temporale che atterra accidentalmente sopra Amleto, uccidendolo, e decide (credo) di togliere Ofelia da quell’ambiente malsano che è Elsinore.

8) Col Ferro e col Fuoco – e qui andiamo sull’inaspettato davvero. In realtà non è niente di più o di meno di un gioco strategico, ma lo chiedo a gente più addentro di me: quanti giochi strategici sono basati sul romanzone nazionale polacco e ambientati nel Seicento?

9) La Divina Commedia – e anche questo non una volta sola. A quanto pare, ogni tanto, qualcuno trae un videogioco dal nostro poema nazionale, con titoli come La Foresta Oscura, le Tribolazioni di Santa Lucia e cose simili. E se pensate che questo dovrebbe essere in cima alla lista, invece no. Per quanto mi riguarda, la palma spetta a… 

10) Salammbo – perché la Divina Commedia è universalmente conosciuta (almeno di nome) e contempla un viaggio nell’oltretomba e abbondanza di diavoli. Invece trovo che per andare a pescare il più sconosciuto dei romanzi di Flaubert e farne un videogioco ci voglia una notevole dose di spudorato coraggio. Per metterci come colonna sonora il Requiem di Mozart, però, forse ce ne vuole ancora di più!

Valgono gli stessi commenti che si facevano per Jane Austen. Qualcuno andrà a leggersi il libro dopo avere giocato al gioco? Non ne ero sicura a proposito di Orgoglio e Pregiudizio, con questi dieci titoli sono abbastanza certa di no – salvo rarissime eccezioni. Semmai ci sarà gente che ha letto il libro e poi gioca.

Però, dite la verità: siete sorpresi?

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* Uno dei non tantissimi giochi che ho provato di persona è Emerald City Confidential, che mescola distopia oziana e atmosfera hard boiled notturna… mica male, devo dire – per improbabile che suoni.

Feb 3, 2011 - guardando la storia    Commenti disabilitati su Quel Che Non Si Sa

Quel Che Non Si Sa

La vita di Shakespeare è uno di quegli argomenti su cui la relativa scarsità di documenti ha scatenato da un lato una frenesia di ricerca, e dall’altro un’ancor più sfrenata tendenza alla speculazione.

william-shakespeare.jpgA partire dalla tendenza a dubitare che Shakespeare fosse davvero Shakespeare, non c’è aspetto della sua scarsamente arredata biografia che non sia stato oggetto delle teorie più selvagge: di che origine era veramente? Che educazione ha ricevuto in realtà? Dove diamine era negli Anni Perduti? Con chi ha collaborato? In quali ruoli recitava? Ha veramente scritto lui le opere che gli sono attribuite? Com’è possibile che nel suo testamento non si nomini nemmeno un libro? E via dissezionando, scartabellando, interpretando e controiterpretando, romanzando…

Uno dei punti oscuri che tanto solleticano gli affetti da scespirite è il suo rapporto con Marlowe. Coetanei e colleghi com’erano, in un luogo, un’epoca e un ambiente in cui tutti vivevano nelle tasche di tutti gli altri, non c’è una singola prova documentale del fatto che si conoscessero. Possibile?

Ovviamente, un simile buco nero è un’irresistibile tentazione per una fauna che spazia dallo spulciatore di archivi addottorato in paleografia e diplomatica dell’era Tudor al supposto sensitivo, dal romanziere allo sceneggiatore hollywoodiano – e come potrebbe essere altrimenti? Quello che non si sa non è qualcosa che non si sa e basta: è un’irresistibile caccia al tesoro.Marlowe.jpg

I risultati… come dire? I risultati variano. Research-wise, si indaga puntigliosamente la verosimiglianza di qualche collaborazione nei primi anni (ricordiamoci che Marlowe era già il prodigio del teatro londinese quando Shakespeare era appena arrivato dalla campagna) si analizzano a non finire quei pochi versi di Misura Per Misura che sembrano proprio alludere a Marlowe e alla sua morte, e se non si sta attenti si finisce col sostenere che Marlowe non era morto affatto, solo fuggito sul Continente a scrivere le opere che poi Shakespeare pubblicava a suo nome… Tra i due estremi resta una quantità di più o meno plausibili ipotesi basate sul fatto che è difficile che non si conoscessero. Se poi si apprezzassero a vicenda, o chi appressasse chi, diventa di nuovo materia per i romanzieri. A giudicare da Misura Per Misura, parrebbe che Shakespeare ammirasse Marlowe – o almeno il suo lavoro – ma è molto possibile che Marlowe, Master of Arts, guardasse dall’alto in basso l’uomo di Stratford, e lo considerasse un campagnolo illetterato.

Tra l’altro, sarebbe difficile immaginare due personaggi più diversi: da un lato Kit Marlowe, fiammeggiante, sregolato, insolente, apertamente ateo, violento… dall’altro Will Shakespeare, metodico, quieto, timorato di Dio e buon amministratore delle sue finanze e della sua carriera.

Il che, tra l’altro, ci riconduce al punto di partenza: è proprio vero che di Shakespeare sappiamo relativamente poco? Tutto considerato, non proprio. Forse non sappiamo tantissimo del massimo scrittore della sua epoca, ma questa è una percezione più tarda: in vita, e specialmente prima dei trentacinque o quarant’anni, Shakespeare era solo uno dei tanti playwrights – merce comune e neanche troppo raccomandabile. In compenso, sappiamo più o meno quello che ci si può aspettare di sapere di un Elisabettiano di costumi morigerati, frequentazioni non troppo scandalose e ragionevole prosperità, che non è mai stato in prigione, ha avuto poco a che fare con i tribunali e non ha mai dato al Consiglio Privato ragione di occuparsi di lui.

Di Marlowe sappiamo molto di più, è vero, ma lo sappiamo perché Kit aveva un’incoercibile tendenza a mettersi nei guai, duellava per strada, irritava il senato accademico, finiva in prigione, frequentava gente pericolosa, lavorava come spia, proclamava ai quattro venti qualsiasi idea blasfema o sediziosa gli passasse per la mente, falsificava denaro, scriveva tragedie controverse e attaccava briga nelle Gonzaga11.jpgtaverne. Non è un caso se Shakespeare è morto nel suo letto, anziano e ricco – mentre Marlowe ha preso la fatale coltellata prima di compiere trent’anni.

E in vista di tutto ciò, sarà un piacere cominciare oggi un corso chiamato Shakespeare e il suo tempo presso la Libera Università del Gonzaghese. Un piccolo corso concepito come una storia: Di due poeti, pari in dignità, nella bella Londra dove ha luogo la nostra storia, monta la rivalità antica – e molto inchiostro e sangue finto inondano le scene dei teatri…*

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* Con molte scuse a William Shakespeare: la tentazione era proprio troppa.

Ott 29, 2010 - grilloleggente    4 Comments

Qualcuno Mi Spieghi Twilight

Confession time. Sto leggendo Twilight, di Stephenie Meyer.

Qualifichiamo: lo sto leggendo più o meno per scommessa – o meglio, sto cercando di leggerlo, ma è davvero, davvero faticoso. E’ faticoso perché sono più o meno a metà e ancora non è successo nulla. Ma nulla. O meglio, è successo che (Isa)Bella Swan, diciassettenne goffa e inconsapevole del suo fascino*, si è trasferita dalla solatia Arizona in un posto piovosissimo dello Stato di Washington (credo – ma potrei sbagliarmi) e si è ritrovata in classe con un ragazzo bellissimo e misterioso. Fatale attrazione reciproca. C’è il piccolo particolare che lui è un vampiro, ma Bella, che all’inizio sembrava possedere qualcosa di vagamente simile a una personalità, è così persa dietro al giovinotto che i lunghi canini e le malsane abitudini alimentari le fanno un baffo.

Come sapete, sto combattendo una dura battaglia contro lo snobismo di genere, il mio prima di tutto. E così, quando un’amica e collega d’Oltreoceano mi ha regalato la versione elettronica di T. completa di scommessa dai circostanziati (e tecnicissimi) termini, ho cominciato con le migliori intenzioni di non avere pregiudizi.

Anche perché Randy Ingermanson ha scritto un’interessante analisi del Romanzone Più Amato Dalle Adolescenti, mettendone in luce un particolare aspetto di solidità narrativa di cui una volta o l’altra parleremo: la coerenza interna delle premesse paranormal/vampiresche.

E il primo capitolo o giù di lì, tutto sommato, mi aveva fatto dire “Be’, dopo tutto c’è di peggio.”

Sia chiaro: le motivazioni di Bella appaiono fumosette anzichenò fin dall’inizio, ma la voce narrante (seppur non proprio diciassettennissima) non era del tutto male, con una certa asciuttezza e un genere di sarcasmo self-deprecating

Ma questo accadeva, appunto, attorno al primo capitolo.

Adesso, qualche centinaio di pagine più tardi** sono un tantino idrofoba. A parte la quantità industriale di coincidenze di improbabilità e di forzature su cui poggia la trama (se vogliamo proprio chiamarla così), a parte l’infallibile e adolescentissima maniera in cui piove sempre al momento giusto, a parte la ripetitività della vita scolastica descritta in puntiglioso dettaglio***… a parte tutto ciò, in chiusura del capitolo terzo ero già repleta e satolla di sentir insistere sulla preternaturale goffaggine fisica di Bella e – ancora di più – sulla perfetta, sovrumana, abbagliante bellezza di Piccoli Vampiri Crescono.

i_libri_preferiti_da_edward_e_bella.jpgAnche perché non c’è granché d’altro: l’immediata elettricità che cresce rapidamente in reciproca attrazione, la supina adorazione di Bella, che smette di ragionare, smette di pensare, smette di fare qualsiasi cosa non sia struggersi per Edward, e questa inspiegata propensione della fanciulla a mettersi nei guai/attirare pericoli. Mi auguro vivamente che quest’ultimo particolare venga spiegato e si evolva in qualcosa di simile a una trama, ma comincio a disperare.

Ciò detto, Twilight ha uno straordinario successo – tanto da generare non solo una serie di film, ma anche qualcosa che non so come definire se non come una specie di indotto. Mi si dice che Across The Pond sia in vendita un tripudio di guide, istruzioni, libri di ricette per organizzare la perfetta festa di Halloween ispirata alla saga della Meyer, e ho visto personalmente un ebook di ricette per fare dolcetti con nomi come Bella’s First Kiss e simili. Sul nostro lato, Mondadori ha pensato bene di capitalizzare sul successo di Twilight pubblicando nuove edizioni tascabili di classici della letteratura con copertina nera e tanto di bollino rosso fuoco che recita “I Libri Preferiti di Bella e Edward”. Se siete curiosi di sapere chi hanno scomodato, ve lo dico io: Shakespeare, Emily Bronte e Jane Austen, per dire. E una breve ricerchina in rete mi ha condotta su un sito pieno di entusiastici commenti divisibili in tre filoni: a) Corro a comprarli! b) Che bella idea per avvicinare i giovani alla letteratura! c) gente più sana che leva un sopracciglio all’idea che Shakespeare abbia bisogno di essere sponsorizzato da Bella e Edward****.

Insomma, le ragazz(in)e sono in delirio – e io vorrei capire bene perché. A metà libro, mi pare che il fenomeno Meyer si spieghi molto meno di altri casi editoriali paragonabili. Qualsiasi altra cosa si possa pensare di loro e della loro scrittura, bisogna ammetterlo: Dan Brown prende temi controversi e ci costruisce attorno trame adrenaliniche, mentre J.K. Rowling ha avuto una brillante idea di partenza e, almeno per un certo numero di libri, l’ha sviluppata in modo fantasioso e avvincente.

Ma Twilight? Supponiamo pure che la bigia vita quotidiana di Bella (scuola, compiti, qualche lavoretto di casa, una spedizione in città con le compagne di classe…) sia il genere di realtà da cui milioni di adolescenti sognano di evadere. E poi? Milioni di adolescenti sognano di aspettare passivamente l’arrivo di un moroso da urlo – meglio se non del tutto raccomandabile – dal quale lasciarsi proteggere e salvare ogni volta che si ritrovano (altrettanto passivamente o per semi-attiva stupidità) nei guai?

Perché questa storia non somiglia a niente come a una gigantesca fantasia collettiva in cui una Mary Sue che si crede ordinaria viene scelta dal Principe Azzurro problematico e ne diventa del tutto succube – un inno alla passività completa.

Lo ammetto: non ho più sedici anni da molto tempo e quindi forse mi sfugge qualcosa. Ma mi piacerebbe capire.

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* Of course. E altrettanto naturalmente, questo fascino è notevole…

** Non so di preciso: Kindle dà una percentuale invece di un numero di pagina…

*** Biologia, trigonometria, lettere, educazione civica e ginnastica: ma non studiano altro nei licei americani?

**** Sì, lo so: manca una -d- eufonica. Mondadori’s wording, not mine.

Guglielmo Crollalanza, ovvero Shakespeare In Italiano

Essendomi in un periodo particolarmente elisabettiano (come forse avrete notato), mi è venuto l’uzzolo di vedere un po’ che genere di risorse scespiriane in italiano si trovino in rete.

La risposta è desolante: pochine assai.

Wiki ha, devo ammettere, una discreta pagina, con rimandi a vari altri articoli, biografia, analisi delle opere, un accenno alle questioni irrisolte  e alle teorie fantasiose, tavole cronologiche, un certo numero d’immagini e una passabile bibliografia. Non male, tutto sommato.

Il Progetto Manuzio/LiberLiber ha una rapida biografia e una quarantina di titoli tradotti, un paio dei quali anche in formato audio. Curiosamente, c’è anche I Due Nobili Cugini, di attribuzione dubbia e comunque, nella migliore delle ipotesi, scritta in collaborazione con John Fletcher (la metà superstite del disciolto duo Fletcher&Beaumont).

ShakespeareWeb contiene note biografiche, analisi delle opere e, cosa interessante, tutti i Sonetti tradotti, con testo originale a fronte. Anche qui si parla dei Cugini.

Questo, invece, è un sito bizzarro e miscellaneo, che mi colpisce principalmente per la sua concezione un po’ nonsense: trame, riassunti, citazioni e aforismi, immagini, sonetti, analisi, film un po’ di contesto storico, un rapido excursus sul teatro elisabettiano… il tutto accatastato lì, senza troppo ordine né logica. Qui c’è la relativa filmografia che, pur non essendo completissimissima, ha il grosso merito di fare riferimento a delizie collaterali come l’incantevole Vogliamo Vivere (To Be Or Not To Be) di Ernst Lubitsch.

Qui c’è la (premiata) pagina Wiki sul teatro elisabettiano.

Ecco, non sono certa di avere fatto la più esauriente delle ricerche possibili ma, a parte questo, the rest is silence – o poco meglio. Il materiale scespiriano più diffuso in rete sembra essere costituito da quella cosa deprimente – gli appunti pronti sui siti per studenti, più un certo numero di articoli isolati e qualche sporadica stramberia come questa. Ricordate quando si parlava delle teorie bislacche sull’identità di Shakespeare e la paternità delle sue opere? A quanto pare anche noi ne abbiamo la nostra fettina.

Il che mi porta a ricordare – e segnalare – due romanzi, uno italiano e l’altro tradotto, in cui si parla di Shakespeare. Il Manoscritto di Shakespeare, di Domenico Seminerio (Sellerio) specula su una delle teorie bislacche. So di avere parlato in termini non benevolissimi del modo in cui l’autore descrive la stesura di un romanzo storico ma, tolto quello specifico aspetto, la lettura è tutt’altro che spiacevole, senza contare che un po’ di metaletteratura non fa mai male. Il Viaggio di Shakespeare, di Léon Daudet, è un romanzo storico splendidamente scritto e tradotto – una gioia da leggere.

Qualcuno ha altro da segnalare?

Ago 8, 2010 - cinema    2 Comments

Romeo And Juliet

Finestra su un altro mondo: il trailer della versione di Romeo And Juliet del 1936, con Leslie Howard (pre-Via Col Vento) e Norma Shearer. Notate come viene presentata la storia (la famiglia di questa ragazza… la famiglia di questo ragazzo…), notate il modo in cui si incoraggia lo spettatore a identificare l’interprete con il personaggio, e notate i prezzi popolari.

Ho già detto che adoro i vecchi trailer?

 

E buona domenica!

Per Cause Di Forza Maggiore

Spoilers Ahead: finali rivelati e cose del genere. Lettore avvertito – con quel che segue.

Mercutio'sDeath.jpgChi è il vostro personaggio preferito in Romeo e Giulietta? Se, come la Clarina, avete un debole per Mercuzio, sappiate che siamo in buona e numerosa compagnia. Il poeta John Dryden scrisse nel 1672: “Shakespeare aveva profuso tutta la sua abilità nel creare il suo Mercuzio, e diceva che, al terzo atto, era questione di ucciderlo o esserne ucciso.” Non abbiamo idea di quanto sia plausibile o spuria l’affermazione riportata, ma stando a Dryden, Mercuzio aveva un tantino preso la mano al suo autore, che lo aveva eliminato per l’equilibrio della tragedia e il bene di Romeo. Siamo sinceri: Romeo sospira, Romeo lamenta, Romeo mormora teneri nonnulla alla ragazzina del suo cuore, e appare generalmente stupido ogni volta che il suo amico è nei paraggi. Mercuzio fa battute ciniche, capisce la politica di Verona, duella verbalmente e alla spada, discetta di linguistica e di fate. E quando le cose si mettono male, Romeo non trova di meglio che mettersi di mezzo, dando a Tebaldo il destro di ferire a morte Mercuzio. Oh certo, la morte di Mercuzio è un punto cardine, segna la promozione di R&G da commedia a tragedia, e scuote Romeo dalla sua estasi amorosa, mostrandogli come funziona il rapporto di causa ed effetto e spingendolo a uccidere Tebaldo – per cui copre una serie di valide ed oggettive funzioni narrative. E però… Bisogna considerare che Mercuzio è largamente una creazione di Shakespeare: nelle fonti è poco più che un nome, e non ha nulla a che fare con Tebaldo, che riesce benissimo a farsi spacciare da solo. Shakespeare lo prende e gli dà una personalità ben definita e attraente – forse persino più attraente di quella del coprotagonista eponimo. Perché Romeo, pur scritto con tutta la finezza, è creato come un Primo Amoroso da commedia italiana, standard fare, mentre Mercuzio, volatile, attaccabrighe, sognatore, irriverente e filatore di parole, è un perfetto poeta elisabettiano. Diciamo, addirittura, il tipo di poeta elisabettiano che Shakespeare avrebbe tanto voluto essere? Salvo poi assassinarlo al terz’atto. Ora, se Dryden ha torto o troppa fantasia, va bene lo stesso: quando Mercuzio muore, tutti siamo abbastanza affascinati da/affezionati a lui per simpatizzare con l’ira funesta e vindice di Romeo. Ma se Dryden ha ragione, allora Shakespeare si è accorto che Mercuzio stava rubando la scena a Romeo e lo ha dovuto eliminare, perché non sta bene che un comprimario sia sempre più brillante, più attraente e più affascinante del protagonista. Se dovessi pronunciarmi, però, azzarderei una combinazione delle due motivazioni: da un lato, è vero che mercuzio ruba tutte le scene in cui compare, e dall’altro, la morte dell’amico, meglio se cum sensi di colpa, è una motivazione vecchia come le colline* e sempre efficace: perché non prendere due piccioni con una fava?

Gli scrittori sono gente fatta così, d’altra parte. Non si butta mai via ll’occasione di far pittorescamente morire qualcuno, e se quel qualcuno poi intralcia il lieto fine o occupa più luce di quella che gli spetta, lo si può considerare storia passata. E’ il caso del povero Lord Evandale in Old Mortality, di Sir Walter Scott. Old Mortality è una storiellona seicentesca** il cui protagonista è il giovane Henry Morton, leader fittizio e riluttante di una sollevazione presbiteriana. Naturalmente, Henry è innamorato di una nobile fanciulla di famiglia molto, molto cattolica, e il suo rivale per il cuore della bionda Edith è il cavalier cattolico Lord Evandale. Solo che Lord Evandale non ha trent’anni più di Edith, non è spregevole, cinico o malvagio: è un bravo, leale, coraggioso ragazzo, un buon comandante e un ammirevole avversario, con debolezze molto umane e le migliori intenzioni. Mrs. Oliphant, romanziera e critica letteraria contemporanea di Scott, racconta che le ragazze che leggevano il romanzo tendevano a dividere le loro simpatie tra Morton ed Evandale, e non c’è da sorprendersi. Quando alla fine ritroviamo Edith findanzata a Lord Evandale, è difficile dispiacersi troppo: Scott ha fatto un buon lavoro con lui, lo ha reso quasi più simpatico di Henry. Ma naturalmente non può finire così: nell’ultimo capitolo, Henry rientra dall’esilio appena prima del matrimonio… e se pensate che sarebbe meschino da parte sua interferire nell’imminente imene, niente paura, ci pensa Sir Walter! Lord Evandale riesce a farsi sparare da un malvagio capitato apposta per l’occasione, e muore tra le braccia di Edith e Morton, non prima di averli ricongiunti. Si capisce, tutti sono molto, molto addolorati e tuttavia, come diceva la mia guida russa a Mosca, molto dispiacie, sì, ma così è la viiiiiita.

Insomma, non si può interferire con il lieto fine e, siccome Lord Evandale non era malvagio, stappargli la sposa per restituirla a Morton sarebbe RupertVSRassendyll.jpgparso brutto. Meglio sparargli, no? Un caso un po’ diverso è quello di Rupert von Hentzau, l’affascinante malvagio de Il Prigioniero di Zenda, nonché del seguito di cui è addirittura villain eponimo. Abbiamo già parlato di Rupert come di un caso di personaggio chiaramente ma felicemente sfuggito di mano all’autore. Sono certa che Hope si sia accorto del deragliamento e abbia deciso di lasciar andare il treno per la sua strada: Rupert e la Ruritania sono le due maggiori attrattive della storia, e sarebbe stato suicida potarne una. D’altro canto, stile a parte, Hope non era uno scrittore del tutto convenzionale: aveva creato un genere, e all’interno del suo genere era molto rigoroso. Dopo aver fatto predicare*** i suoi protagonisti di onore e lealtà per due volumi, non aveva la minima intenzione di ricompensare le loro deroghe alle regole. Defunto il vero Re, non sarebbe affatto inglese da parte di Rudolf Rassendyll godersi la corona e la moglie di un altro uomo, e così (mentre i suoi fidi amici mitteleuropei cercano di convincerlo a restare per il bene della Ruritania), il nostro gentiluomo britannico la prende nelle costole. Però Hope non voleva nemmeno che fossero i malvagi a trionfare, e quindi a questo punto Rupert è morto già da un capitolo o due, ucciso più o meno in duello da Rassendyll. Nonostante abbia più o meno barato in duello (peccato mortale per l’epoca) la morte di Rupert oscilla tra il semitragico e l’eroico. Smiling to the end, he never bent his proud head, eccetera eccetera. Persino il Fritz narrante, guardando il giovane cugino di Rupert che singhiozza disperato sul cadavere, si commuove alquanto, e ritiene di doverci informare che, even in death, he was the handsomest fellow in Ruritania.**** Insomma, per ragioni di simmetria e di morale, l’affascinante, bellissimo, allegramente immorale Rupert andava proprio fatto fuori, e non poteva che essere in duello. Ma che peccato, ha l’aria di dirci Hope. E non è un caso che la morte di Rassendyll sia opera postuma di Rupert, tramite leale servitore in cerca di vendetta per la morte del suo adorato padrone.

Morale, ci sono comprimari, antagonisti o malvagi che ti sfuggono di penna, germogliano a loro piacere e rubano la scena al supposto protagonista. Presto o tardi, se non vuoi che scappino via con tutta la storia, vanno eliminati. Mercuzio muore perché fa ombra a Romeo, Lord Evandale muore per permettere a Morton di sposare Edith, e Rupert muore perché muore Rassendyll – con non poco chagrin dei rispettivi autori. In un certo senso, è un’altra versione di Muore Giovane Chi E’ Caro Al Suo Creatore. Se fossi un comprimario, un antagonista o un villain, cercherei di non catturare troppo la simpatia di chi mi scrive.

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* Achille e Patroclo, anyone?

** Per i melomani, I Puritani di Bellini è ispirata a questo romanzo, passando però per il dramma francese Tètes Rondes Et Cavaliers, di Ancelot e Saintine. Il dramma non lo conosco, ma nell’opera ho sempre simpatizzato per il povero Riccardo, la cui unica colpa in definitiva è quella di essere un baritono – e il baritono, si sa, deve sempre farsi da parte per il tenore, e considerarsi fortunato se è ancora vivo al calare del sipario.

*** Predicare pittorescamente, never fear.

**** Ssssì, e non è solo Fritz. Si può dire che in due volumi non ci sia personaggio, uomo o donna, che non abbia a thing per Rupert, in qualche grado.