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Feb 8, 2016 - grilloparlante, Shakespeare Year    Commenti disabilitati su Malvagi

Malvagi

Da dove arrivano i malvagi di Shakespeare? Che parentela c’è tra un pastorello scita, un usuraio maltese e un principe gobbo? Cos’è che vuole davvero Shylock quando pretende la sua libbra di carne – vicino al cuore? Quale gelosia precipita al disastro il Moro di Venezia e tutti quelli che gli stanno intorno? Contro cosa combatte Edmund, il bastardo di Gloucester? Che cosa è più potente dell’ambizione, dell’avidità, della gelosia e della vendetta? Ed è vero che non ci sono più i cattivi di una volta? C’erano una volta quattro pessimi soggetti…

Ne parliamo oggi pomeriggio alla Libera Università del Gonzaghese, con il primo incontro di Malvagi, Amici, Amanti – alla scoperta dei personaggi di William Shakespeare.

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Feb 5, 2016 - libri, libri e libri, Storia&storie    Commenti disabilitati su Josephine, Richard e la Storia

Josephine, Richard e la Storia

Josephine_Tey_ancestry_ed._frame_jpgMi sto preparando per lunedì e i Malvagi Shakespeariani a Gonzaga, e naturalmente Riccardo III è del picnic. E ogni volta che parlo del Richard shakespeariano, non posso fare a meno di pensare a  quel delizioso libro che è La Figlia del Tempo.

Ne avevamo già parlato? Abbastanza diffusamente? Forse no – ed è tempo di rimediare.

Allora, Josephine Tey (1896-1952) è una scrittrice scozzese, autrice di gialli, di drammi teatrali e anche di qualche romanzo storico. Un’altra Christie, pochissimo nota in Italia, e non so dire perché, visto che i suoi libri sono davvero scritti deliziosamente, con ottime trame e dialoghi strepitosi.

Qualcuno ha visto Giovane e Innocente? E’ un film di Hitchcock, pre-Hollywood, girato in economia ai Pinewood Studios, con una squadra di attori inglesi sconosciuti e bravi… Ebbene, è tratto da A Shilling for Candles, della Tey. Che poi non si chiamava affatto così: il suo vero nome era Elizabeth Mackintosh, ma pubblicava come Josephine Tey, Gordon Daviot e Craigie Howe. Daviot era il suo nom de plume per il teatro, e non parliamo di teatro qualsiasi: fu con il suo Richard of Bordeaux che John Gielgud si affermò come stella sui palcoscenici inglesi.King_Richard_III.jpg

Di suo, Mondadori e Salani hanno pubblicato una mezza dozzina di titoli fra gli Anni Trenta e Cinquanta, con l’occasionale ristampa ogni tanto… Più di recente, mi pare nel 2000, Sellerio ha riproposto La Figlia del Tempo, e qualche anno fa Mondadori ha ripreso i gialli con delle bellissime copertine vintage.

Ecco, appunto: La Figlia del Tempo – che secondo me della Tey è il romanzo più significativo. La figlia in questione è, secondo Francis Bacon, la verità, destinata a emergere prima o poi – a patto che le si lasci il tempo di farlo. E a caccia di verità va l’ispettore Alan Grant, l’investigatore abituale di JT. Solo che, per una volta, deve andarci metaforicamente. Tutto comincia con una riproduzione del ritratto qui accanto. Immobilizzato in un letto d’ospedale da un incidente e annoiato a morte, Grant si rifiuta di credere che l’uomo del ritratto sia un assassino, e si mette a investigare sul caso dei Principi nella Torre: è vero o no che Riccardo III fece assassinare i suoi due nipoti per salire al trono?

Book coverCon l’aiuto di una schiera di collaboratori, Grant esamina i fatti, ricostruisce i motivi, disseziona le tesi del Vescovo Morton, di Thomas More e di Shakespeare come quelle di altrettanti testimoni inattendibili, e un po’ per volta… Sembra noioso? Non lo è. Grant e compagnia (dall’infermiera con i libri di scuola sullo scaffale, alla celebre attrice del West End, al giovane storico americano) sono una delizia. I dialoghi sono brillanti (di quella naturalezza e perfezione che fanno ritornare indietro e rileggere le battute per il gusto di farlo) e, benché sappiamo tutti come va a finire, c’è un discreto numero di dubbi e di sorprese lungo la strada.

Ora, non so dire nulla sulle traduzioni, perché non e ho lette – e posso soltanto sperare che voce e tono siano rimasti… Regardless, vale di sicuro la pena di dare un’occhiata a questo libro, affascinante dal punto di vista storico, ben scritto, appassionante come giallo, e popolato di gente simpatica. E se tutto ciò non bastasse, pieno di idee e di domande sul modo in cui si formano luoghi comuni, leggende nere e convenzioni storiche. Che si può volere di più da un libro? Se insegnassi – se insegnassi storia, credo proprio che lo farei leggere a tutti i miei alunni.

A Scuola

girlMi sono iscritta a non un uno, ma tre corsi online.

Ogni tanto lo faccio. Le possibilità sono infinite, in ogni genere di campo e argomento, dall’astrofisica alla scenotecnica, dalla storia antica alla pollicoltura.* Poi non è che sia straordinariamente brava in proposito. Sono pigerrima, dispersiva, con una tendenza alla procrastinazione su cui vi ho intrattenuti fin troppe volte. E tutto sommato, va ancora relativamente bene se ci sono tempi, scadenze ed esercizi da consegnare… Se il corso è self-paced – ovvero una serie di lezioni da seguire a discrezione dello studente – le mie possibilità di arrivare in fondo sono bassine, indipendentemente dal mio interesse per l’argomento. Capirete, credo, se vi dico che le lezioni di scrittura teatrale scaricate dal sito del MIT sonnecchiano in un angolo buio del mio hard disk dall’agosto del 2011.

Appunto.

E quindi forse è stato un tantino imprudente, da parte mia, iscrivermi ai tre corsi che vi dicevo.

Uno è una specie di storia performativa dell’Othello di Shakespeare. Come è stata rappresentata la tragedia, in questi quattro secoli? Che cosa sappiamo? Che conclusioni possiamo trarre da atteggiamenti registici, interpretazioni e attualizzazioni? Fascinating stuff.

Poi c’è un’introduzione alla scrittura cinematografica. Secoli fa ne avevo già seguito uno della Scuola Holden. Mi era piaciuto, soprattutto perché avevo trovato una tutor molto in gamba, che mi faceva lavorare un sacco e a cui piaceva quel che scrivevo. Riconosco che quest’ultimo non dovrebbe essere un requisito per valutare un corso e trarne beneficio – ma siamo onesti: chi è che non lavora con più zelo e più gusto quando il suo lavoro viene apprezzato? Adesso trovo che sia ora di rinfrescare l’argomento, dopo quindici anni o giù di lì – e di farlo in Inglese. girls

E questi due sono MOOC, ovvero Massive Open Online Courses. Da un lato hanno di buono i tempi e le scadenze che vi dicevo. Dall’altro, hanno una componente di interazione con gli altri studenti, in cui sono pessima. In teoria l’idea di discutere di quel che studio e imparo mi piace molto; all’atto pratico, forse non so usare bene la roba a forma di forum, ma fatto sta che una discussione tra centinaia di partecipanti mi sfugge rapidamente di mano, e tendo a rinunciarci e a interagire ben poco.

Infine c’è un corso di scrittura teatrale. Ci avevo già provato qualche anno fa, e non mi ero trovata bene con il docente.** Un secondo tentativo altrove era andato meglio, ma non posso dire di averne cavato granché. Adesso ci riprovo. Questo sembra un po’ più avanzato, ha un sacco di esercizi pratici e la possibilità di farseli leggere e commentare… Purtroppo è self-paced e, a peggiorare ulteriormente le cose, ho accesso al materiale vita natural durante. Con i miei precedenti, non metterei la mano sul fuoco.

E poi ce ne sarebbero altri – corsi di storia che m’interesserebbero parecchio… ma ho deciso che prima farò meglio a vedere come me la cavo con questi tre.

Quindi forse farò bene a formulare un’ulteriore buona intenzione per l’anno nuovo: seguire i corsi e finirli. Vi farò sapere, eh?

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* No, davvero: l’Università di Edinburgo ne ha uno su comportamento e benessere delle galline. Non è uno di quelli che ho scelto.

** A parte tutto il resto, leggendo il mio esercizio, si stupì moltissimo del fatto che fosse popolato da due personaggi maschili su due. Perché, essendo una donna, non scrivevo donne? Sessista.

Gen 10, 2016 - elizabethana, musica    Commenti disabilitati su Cinque Canzoni Shakespeariane

Cinque Canzoni Shakespeariane

12nightVe l’avevo detto che il Sedici è un altro anno shakespeariano?

1616-2016: quattrocentesimo della morte. Per cui sì, aspettatevi di nuovo una certa quantità di shakespearianerie, nel corso dell’anno.

Oggi cominciamo con le cinque incantevoli canzoni che il compositore inglese Roger Quilter musicò tra il 1905 e il 1919.

Fear no more the heat of the sun è presa dal Cimbelino, Under the greenwood tree e It was a lover and his lass da Come Vi Piace,
Take, o take those lips away da Misura per Misura, e Hey, ho, the wind and the rain dalla Dodicesima Notte.

Il baritono è il perfettamente nomato Philippe Sly, e al pianoforte c’è Michael MacMahon:

Forse l’insieme è un po’ più primaverile in atmosfera di quanto sia adatto al calendario, ma mi pare un buon modo per cominciare il nuovo anno shakespeariano.

E buona domenica.

Il Bardo & Gian Burrasca

GianB 1In una quinta elementare qui attorno avevano iniziato a leggere Il Giornalino di Gian Burrasca – con scarsa soddisfazione degli implumi, scoraggiati dal linguaggio antiquato.

Salta fuori allora che esiste una… versione? Traduzione? Retelling? Mah… diciamo che esiste Gian Burrasca in linguaggio d’oggidì. La maestra ci riprova e… buona la seconda. Gli implumi leggono Vamba tradotto, e ci trovano un gran gusto. Sipario.

Intanto, Oltretinozza, il prestigioso Oregon Shakespeare Festival commissiona a 36 autori teatrali altrettante traduzioni – their own words – di opere shakespeariane in Inglese più o meno contemporaneo… qui un finale ancora non c’è, perché il progetto PlayOn! è ancora in corso. L’idea dell’OSF è quella di mettere in scena le “traduzioni” accanto agli – e non al posto degli – originali e, come era scontato che accadesse, accademici, teatranti vari e spettatori potenziali si dividono in fazioni con una certa ferocia.

È presto per dire, e bisognerà vedere le reazioni del pubblico americano a PlayOn! – ma Gian Burrasca e il Bardo tradotti sono una faccenda interessante e allarmante al tempo stesso.

Non mi metterò a strillare allo scandalo e al sacrilegio* e la prenderò invece da un altro lato. Che la prospettiva storica sia una questione vastamente negletta non è una novità di oggi. Ogni singola “modernità” ha mostrato più interesse nel rileggere il passato alla luce di sé stessa che nel capirlo nel suo contesto. Why, Shakespeare stesso dava ai suoi antichi Romani linguaggio, mentalità e comportamenti elisabettiani. È l’umana natura – un misto di bisogno di identificazione, appropriazione culturale e spudorata pigrizia. PlayOn

Shakespeare in particolare sembra avere stimolato ogni genere di rimaneggiamenti attraverso i secoli. C’è sempre qualcuno convinto di potere o dovere dare una sistematina alle sue opere, per amore della spettacolarità, della simmetria, dell’ordine, della logica, del buon gusto, del pudore, del costume dei tempi… È, a suo modo, un segno della vitalità dello zio Will. Tutti hanno l’aria di dire “È nostro!” in modi che sono raccapriccianti dal punto di vista filologico, ma molto rivelatori e, alla fin fine, molto affascinanti.

E mi viene da pensare che l’appropriazione shakespeariana (e vambiana) del XXI secolo abbia nome “fretta”. In fondo è una cifra dei nostri tempi: tutto va afferrato e goduto subito, giusto? Subito e con il minore sforzo possibile. Che si debba sudare un pochino per godere di qualcosa fa storcere la bocca. Se bisogna aspettare, fare qualche sforzo, guadagnarsi qualcosa un po’ per volta – odds are che si perda interesse e si vada a cercare altrove. Qualcosa di più facile.

easy-buttonEcco, più facile. È questo il nocciolo allarmante di PlayOn! e del Vamba per i Fanciulli d’Oggidì: la possibilità che la facile accessibilità di queste versioni finisca per scalzare gli originali. Quanti, dopo avere visto un Riccardo III “tradotto”, dopo aver letto il Vamba ventunesimizzato, andranno a cercarsi gli originali? Potreste dirmi – lo dico anch’io – che nel caso di Gian Burrasca non è poi così grave. Vero, di per sé. Nessuno sarà spaventosamente impoverito per non avere letto la prosa originale di Vamba – ma il punto è un altro. L’implume che, dopo avere storto il naso sul linguaggio difficile, legge con soddisfazione la traduzione facile, ci avrà guadagnato qualche risata, ma avrà perso l’occasione di imparare ad accostarsi  a un linguaggio diverso dal suo. Se va bene ne avrà altre – ma il precedente gli avrà insegnato che non è necessario. Che c’è un modo più facile – e quindi perché faticare a capire che cosa dicevano nel 1912, come lo dicevano e magari perché lo dicevano in quel modo?

In qualche modo, tradurre Vamba mi sembra persino più grave che tradurre Shakespeare. Sono tentata di vederci il sintomo di qualcosa di peggio. Perché tradurre Vamba in realtà non ha altre giustificazioni. Potete difendere PlayOn! dicendo che è un tentativo di riprodurre l’immediatezza fra scena e pubblico che era l’esperienza quotidiana dei theatre-goers elisabettiani. Potete dire che l’OSF fa quello che hanno fatto Tate, Davenant, Pope, Garrick, i Lamb e i Bowdler – e sperare che passi come sono passati gli altri. Potete meditare su traduzioni in Inglese e traduzioni in altre lingue**… Potete fare un sacco di cose con le traduzioni di Shakespeare – ma Vamba? A che serve tradurre Vamba, se non ad offrire ai fanciulli una via “più facile”, sanzionata dalla scuola?

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* E qui parlo di Shakespeare, ovviamente. Non so voi, ma con la profanazione dell’opera di Vamba sento di poter convivere.

** Una delle meraviglie delle traduzioni shakespeariane di Quasimodo non è forse proprio quella certa atemporalità del linguaggio? Dovremmo considerare solo le traduzioni in Italiano cinquecentesco? Sarebbero praticabili dal punto di vista teatrale? Domande, domande, domande…

 

Ott 23, 2015 - Furore Tremendo, gente che scrive, romanzo storico    Commenti disabilitati su Il Romanziere Istantaneo

Il Romanziere Istantaneo

ECCO NO, PER DIRE… QUESTE QUI SOTTO SONO LE SPOGLIE DI UN POST AZZANNATO DAL BLOGO MANNARO.

DI NUOVO.

 

Rant ahead, vi avverto.

mentre mettiamo insieme romanzi come se fossero altrettante scodelle di minestra liofilizzata.

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* Poi la pianto, promesso.

** Yes well, poi magari sfugge loro qualche particolare – come il tè nel XVI secolo – ma non sottilizziamo.

*** Essì. Anche lui. Che vogliamo farci?

**** Certo, essere docenti universitari o liceali o correttori di bozze aiuta…

***** Sì, è del tutto possibile che ultimamente io passi troppo tempo in compagnia di certi teatranti elisabettiani…

Mag 11, 2015 - grilloleggente    Commenti disabilitati su Dieci Gatti Di Carta

Dieci Gatti Di Carta

gatti, libri, edgar allan poe, shakespeare, lewis carrolDomani sera c’è l’appuntamento mensile con Ad Alta Voce. Il tema è destinato ad essere il primo di una serie: Bestiario – cominciamo dai Gatti. Col tempo ci sarà altra gente di questo genere, ma i gatti…

1) I gatti in tempi remoti sono stati divinità – e non se ne sono mai dimenticati del tutto.

2) I gatti si trovano sempre dal lato sbagliato della porta.

3) I gatti sono creature molto oblique – vi consentono di credervi il padrone di casa, a patto che di mostrarvi occasionalmente consapevoli che non è affatto così.

4) I gatti vedono al buio, hanno tre nomi, raggiungono acuti astronomici e c’erano quando i Faraoni commissionarono la Sfinge (a sentire T.S. Eliot).

5) I gatti consentono il brivido di tenere una tigre in casa, con conseguenze un po’ (ma solo un po’) meno cruente.

6) I gatti sono molto, molto, molto più maliziosi di quanto possa mai esserlo un cane (a sentire la mia mamma).

7) Ai gatti le intenzioni altrui interessano molto relativamente.

8) I gatti sono maestri sopraffini di ricatto morale, ritirata sull’Aventino, espressione supplichevole, dispetto mirato, gratificazione imprevista ed altre tecniche di manipolazione del prossimo, particolarmente il prossimo a due zampe.

9) I gatti sono ineffabilmente determinati – se li cacciate dalla poltrona quarantasei volte, tornano a salirci una quarantasettesima.

10) I gatti possiedono un serio talento per il disastro su larga scala.

E soprattutto, la letteratura è piena di gatti – questi affascinanti, insopportabili, adorabili animali che si rifiutano sdegnosamente di avere un padrone ma, quando ci comportiamo bene (oppure no: nulla è più imperscrutabile del whim di un gatto…) si degnano di considerarci di loro proprietà. Gatti veri e propri, gatti simbolici, gatti metaforici, gatti parodistici, gatti demoniaci, gatti comici, gatti terribili, gatti antropomorfi, gatti magici – ce n’è per tutti i gusti perché l’animale è complesso, pieno di personalità e si presta a tutta una serie di variazioni narrative e meccanismi letterari.

Cover of "Old Possum's Book of Practical ...Se dovessi elencare i miei gatti letterari preferiti sarei in seria difficoltà, per cui considerate l’elenco che segue una lista informale, in ordine sparso e senza pretese di completezza.

* Old Deuteronomy e compagnia, da Old Possum’s Book Of Practical Cats, di T.S. Eliot. Una collezione di felini pantofolai, pirati, teatranti, ferrovieri o buongustai che contemplano il loro ineffabile nome segreto, distruggono vasi Ming e si fanno i fatti loro – in poesia. Dall’affettuosamente realistico al nonsense sublime.

* Grey-Malkin, il gatto delle streghe nel Macbeth di Shakespeare. Non che veniamo a sapere granché di lui, ma che diamine: è in Shakespeare. Basta e avanza.

* Il Gatto del Cheshire – l’originale delle Avventure di Alice. Inaffidabile, sogghignante, enorme, incline ad elargire improbabili perle di saggezza e informazioni tendenziose, probabilmente anche pericoloso. Ma come resistere a un gattone che scompare lasciandosi dietro un sogghigno sospeso a mezz’aria*?

*Il Gatto del Cheshire II – il bibliotecario del Mondo dei Libri nei romanzi di Jasper fforde: idem come sopra e  in più soffice, compagnone e di buon appetito, ma estremamente capace al bisogno.

* Pluto, il Gatto Nero dell’inquietante storia omonima di Edgar Allan Poe. Di sicuro non era ispirato a Catterina (sic), l’adorabile gatta nera della famiglia Poe, compagna inseparabile della sua padrona malata.

* Il Gatto Con Gli Stivali, eroe eponimo della favola. Se non fosse stato per lui, altro che Marchese di Carabas!

English: Edward Lear, illustration for "T...* The Pussycat in The Owl And The Pussycat, di Edward Lear: la deliziosa Micina che fugge in barca con il Gufo per sposarlo su un’isola deserta. Però, se mentre fuggono, il Gufo canta serenate, chi è che rema?

* Il Gatto Che Camminava Da Solo, nelle Storie Proprio Così di Kipling** – ovvero come fu che l’uomo riuscì ad addomesticare tutti gli animali tranne il gatto…

* Behemot, che non è un bravo gatto, essendo uno dei demoni de Il Maestro e Margherita di Bulgakov.

* Tibert, gatto astuto e degno rivale del protagonista nel Roman de Renart.

E mi fermo qui per via del titolo, ma ce ne sono a iosa, perché sono molti gli scrittori che hanno ceduto al fascino narrativo dei felini. E chiunque abbia o abbia avuto un gatto capisce subito se anche lo scrittore ha avuto a che fare con felini in carne ed ossa prima di scriverne, perché i gatti sono come certe eccentriche parenti anziane: bisogna averne una per rendersi conto che certe descrizioni non sono affatto iperboli letterarie…

E voi? Quali sono i vostri gatti di carta preferiti? Se siete da queste parti, venite a leggerli con noi domani sera, alle nove della sera, alla Biblioteca Zamboni di Roncoferraro.

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* Per la cronaca: Lewis Carrol creò il suo felino a partire dall’espressione to grin like a Cheshire Cat (sogghignare come un gatto del Cheshire), vecchia come le colline – o almeno quanto il consueto Shakespeare. Dove originasse è uno di quei misteri della lingua Inglese.

** Ad onta del nome il Gatto Maltese – altra storia di Kipling – non è affatto un gatto, ma un cavallo. Un pony da polo, per la precisione. Va’ a fidarti degli scrittori.

 

 

 

Mar 2, 2015 - cinema    Commenti disabilitati su Ur-Cinema Bignami

Ur-Cinema Bignami

indexVisto il Riccardo III istantaneo, ieri?

Magari nel vedere il titolo – o nel leggere della durata, avete pensato alla Reduced Shakespeare Company, e alle loro Opere Complete di Shakespeare in Quarantacinque Minuti…

E invece no: era un Riccardo serio.

Be’, era il 1908, il cinema era una faccenda recente e fuzionava così. I film duravano un rullo di pellicola o due – il che significava una durata media di una ventina di minuti.  All’inizio queste cine-pillole erano per lo più documentari, rievocazioni e qualche storia, e si usavano come riempitivo – ad esempio come uno tra i numeri di un varietà, o durante l’intervallo a teatro…

A partire dal 1905, le cose cominciarono a cambiare. La gente andava “al cinema” per vedere i film – e in una serata vedeva dieci, quindici o anche venti di queste cose piccole piccole. E che cosa vedeva? Un certo numero di storie originali, commedie, vicende storiche e un sacco di adattamenti di romanzi, lavori teatrali, opere… È quella che va sotto il nome di Nickelodeon Era.hqdefault

Erano tempi eroici e ingenui al tempo stesso. Gli attori arrivavano tutti dal palcoscenico, come pure la maggior parte dei registi, e l’emancipazione dalla mentalità del teatro non fu questione di un giorno e una notte. Le tecniche di ripresa erano più che un po’ statiche, con una tendenza a privilegiare le scene d’insieme e una riluttanza evidente nei confronti del primo piano. La recitazione era spesso stilizzata, e tanto più per l’esigenza di rendere una storia senza l’aiuto delle parole… Aggiungete la necessità di comprimere la narrazione nei tempi ridottissimi che dicevamo.

Sembra una ricetta ideale per il disastro – e invece no. O almeno, non necessariamente. Molti di questi piccoli film sono delle gemme di grazia e/o di efficacia. Ad esempio Vitagraph, uno degli studi più importanti dell’epoca nickelodeon, si specializzò in scene storiche e adattamenti, tra cui una lunga serie di opere Shakespeariane – il debutto cinematografico del Bardo al di là della Tinozza – e per una decina d’anni produsse piccole cose molto ben fatte. Si capisce che funzionasse tutto meglio con delle storie semplici – o che si prestassero ad essere semplificate all’osso. Trame secondarie e personaggi di contorno venivano sfrondati senza misericordia, e si contava su un minimo di previa conoscenza del materiale originario da parte del pubblico… Ma per lo più funzionava.

Poi non tutto si poteva condensare in venti minuti. Quelli di Vitagraph se ne resero conto abbastanza presto, e introdussero la serializzazione. Nel 1909 i Miserabili uscirono in ben quattro rulli, seguiti l’anno successivo dai cinque rulli de La Vita di Mosè. Ai registi piaceva lavorare più in grande, il pubblico mostrò di gradire le possibilità narrative e il respiro proporzionali alla durata, e gli studios non impiegarono molto a fare due più due.

AMidsummerNightsDream1909 - play rehearsalIl problema era che produrre un film lungo, o feature,  comportava costi di tutt’altro tipo. Mentre la domanda per i features cresceva e quella per i monorullo precipitava, i piccoli studios pionieristici crollarono uno dopo l’altro – falliti, assorbiti o venduti. Già nel 1915, le pillole cinematografiche non si producevano praticamente più, e in piedi era rimasto soltanto Vitagraph, che comunque riuscì a tirare avanti solo fino al 1925 – prima dell’avvento del sonoro.

Era durata un decennio, quest’infanzia del cinema, e adesso questi cinebignamini dalla maniera di pantomima ci fanno un po’ sorridere – ma avremmo il cinema che abbiamo, se qualcuno non avesse passato un decennio a incapsulare Shakespeare e compagnia in film da un rullo per volta?

E non so a voi, ma a me punge un’irresistibile uzzolo di sperimentare – e di provare a raccontare storie in sceneggiature o copioni da un rullo o due…

Mar 1, 2015 - cinema, teatro    Commenti disabilitati su Mini Richard

Mini Richard

1Qui sotto trovate tre minutini di una versione muta del Riccardo III, datata 1908. E nei tre minutini c’è tutta la scena della seduzione di Lady Anne, con abbondante cornice. Quella scena che, anche quando ce l’hanno a disposizione in tutta la sua originaria lunghezza, causa tanti mal di testa ai registi moderni. Perché, diciamocelo: il voltafaccia di Anne Neville da furia vendicatrice a possibilista è un nonnulla brusco…

Ebbene, qui ci sbrighiamo in un paio di minuti in tutto. Ma d’altra parte, possiamo considerarla una scena lunga, visto che il film intero dura una dozzina di minuti…

Quindi, sì: tutto il Riccardo III in dodici o quattordici minuti – e senza parole se non quelle dei cartelli. È ovvio che molte cose andassero sfrondate, semplificate e telegrafate.

Eppure… Well, date un’occhiata:

Visto? Compresso al massimo, e un filino crudo nella caratterizzazione – ma non gli si può negare una sua vivida efficacia. E non è l’unico del suo genere, sapete?

Ne parleremo. Intanto, buona domenica.

(Oh, e apprezzate la figurina Liebig lì sopra, per favore…)

Feb 22, 2015 - musica, Ossessioni    Commenti disabilitati su Shakespeare E Le Sue Maschere

Shakespeare E Le Sue Maschere

foto05Non capirò mai perché non ci siano più storie che ritraggono il rapporto tra un autore e i suoi personaggi. Metateatro, metaletteratura – qualsiasi cosa contenga della metanarrazione di questa specifica varietà ha buone probabilità di incuriosirmi – e  non è come se ci fosse granché. È qualcosa che piace solo a me?

Well, mi sono imbattuta in una metanarrazione shakespeariana contenuta in un balletto classico. Shakespeare y sus Mascaras è un lavoro del Ballet Nacional de Cuba,  un Romeo e Giulietta su musica di Gounod, con una cornice metanarrativa, per l’appunto, in cui Shakespeare mette in moto, osserva e in parte vive la storia dei suoi personaggi…

Qui ce ne sono alcuni pezzetti – e, per quanto ho potuto vedere, è tutto quel che se ne trova:

Tutto qui – ed è difficile dire se la cornice sia efficace o poco più che un elemento decorativo… Ad ogni modo l’idea è interessante – o almeno a me così pare… Sapete per caso di qualche altra cosa del genere in campo tersicoreo?

E buona domenica.