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Cattivi Gonzaga, Cattivi

gonzaga, shakespeare, thomas urquhart, william harrison ainsworth, rafael sabatini, clare colvinVerrebbe da pensare che sia tutta questione di nomi.

E no, so benissimo che non è così, ma non posso fare a meno di pensare che, a un orecchio anglosassone, il nome “Gonzaga” abbia il suono perfetto per il Malvagio Rinascimentale.

Gon-za-ga. Diciamo la verità: c’è qualcosa che evoca pieghe di mantelli, luccichii di Toson d’Oro su velluto nero, sussurri nell’ombra, boccette di veleno, sorrisi dissimulatori… Don’t you think?

Shakespeare sì, evidentemente: quando gli attori girovaghi capitano a Elsinore, Amleto fa rappresentare loro una revenge tragedy chiamata The Murder of Gonzago. Vero è che Gonzago è la vittima e non l’avvelenatore – ma volendosi una storia italiana di veleni, ecco che il nome salta fuori.

E poi naturalmente c’è il fatto dell’Ammirabile Critonio, che di sicuro non giovava all’immagine della famiglia nell’Isoletta. James Crichton of Cluny, sapete: quell’onnicompetentissimo avventuriero scozzese che giunse alla corte di Guglielmo Gonzaga nel 1582, ne divenne il favorito alla rapidità del lampo e altrettanto rapidamente incontrò una fine truce sulla punta della spada di Vincenzo Gonzaga – figlio di Guglielmo ed erede del Ducato. Ops. Poi in realtà il Critonio e Vincenzo erano fatti per detestarsi a vicenda, e il XVI Secolo era un tempo di passioni inconsulte e reazioni armate, ma forse non è del tutto incomprensibile che i narratori isolani dipingessero Vincenzo tanto nero quanto si poteva…*  

Il Vincenzo del cavalier e polemista secentesco Thomas Urquhart, per esempio, è un mostro di superbia e meschinità, che si rifiuta pervicacemente di apprezzare le superiori qualità dell’ineffabile Crichtoun, nutre la più biliosa gelosia per il purissimo (e corrispostissimo) amor tra il giovinotto e una nobile fanciulla mantovana dalle molte perfezioni e, quando decide di averne avuto abbastanza, tende un’imboscata dieci contro uno in un vicolo buio. E, badate bene, nonostante la disparità, andrebbe a finir male per la comitiva ducale, se non fosse che, dopo aver spacciato gli altri nove, il Critonio riconosce il suo nobile avversario, s’inginocchia e gli presenta la spada. E Vincenzo ne approfitta per infilzarlo come una quaglia allo spiedo. Vergogna! Tradimento! Disonore! Anatema! Delitto! Orrore orror! Ma che volete farci? Sir Thomas era fatto così…

Né fa granché di diverso il romanziere vittoriano William Harrison Ainsworth, che ambienta il suo (brutto) The Admirable Crichton alla corte di Francia, ma non si trattiene dal piazzarci un Vincenzo Gonzaga in trasferta, malvagio occasionale in cahoots con la perfidissima Caterina de’ Medici. Questo Vincenzo è un giovanotto pallido e olivastro, perennemente abbigliato di velluto nero, aggraziato e suadente, con occhi nerissimi in cui brilla un nonsoché sufficiente a smentire tutte le grazie apparenti. Poi siamo alle solite: il tenebroso Vincenzo, roso dall’invidia, congiura con Caterina (italiana anche lei, badate), traffica in pozioni poco salutari e magia nera e, nel complesso, davvero non è una cara persona.

Nè d’altronde c’era bisogno del Critonio per questo genere di caratterizzazione. Cambiamo secolo un’altra volta e arriviamo all’italoinglese Rafael Sabatini, che in Love-at-arms piazza un Gonzaga fittizio, “un membro esiliato di quella celebre famiglia mantovana che ha prodotto vari mascalzoni e un solo santo.” Romeo Gonzaga è biondocrinitochiazzurrino, per una volta, bello come una fanciulla (e sappiamo tutti che una cosa del genere in un romanzo inglese non promette nulla di buono), musicista squisito, affascinante, bugiardo, intrigante, sleale – e rivale in amore del prode, leale, sincero, coraggioso Francesco, conte d’Aquila. Indovinate chi dei due sposa quella perla d’eroina che è Valentina della Rovere?

E quasi un secolo più tardi, bisogna dire che le cose non siano migliorate granché, se in Masque of the Gonzagas (edito in Italia come La Musica dei Gonzaga), Clare Colvin ritrae il solito Vincenzo come un protettore delle arti sì, ma stravagante e sregolato e, quel che è peggio… stavo per scrivere “seduttore privo di scrupoli”, ma credo che “stupratore” renda meglio l’idea – povera Isabella.

E una volta o l’altra parleremo dell’immagine dell’Italia e degli Italiani nella letteratura anglosassone – ma intanto bisogna ammettere che, attraverso i secoli, i Gonzaga fittizi hanno giocato un ruolo buono a far rivoltare nella tomba qualunque defunto principe locale.

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* Credo di avere raccontato – no: sono certa di avere raccontato ripetutamente della signora che, a una presentazione de Lo Specchio Convesso, mi tagliò a cubetti perché nel romanzo descrivevo un Vincenzo men che simpatico “dando ascolto a quella gente su internet che non è mai stata a Mantova”. Eh…

Alas, Poor Mercutio…

Spoilers Ahead: finali rivelati e cose del genere. Lettore avvertito – con quel che segue.

Mercutio'sDeath.jpgChi è il vostro personaggio preferito in Romeo e Giulietta? Se, come la Clarina, avete un debole per Mercuzio, sappiate che siamo in buona e numerosa compagnia. Il poeta John Dryden scrisse nel 1672: “Shakespeare aveva profuso tutta la sua abilità nel creare il suo Mercuzio, e diceva che, al terzo atto, era questione di ucciderlo o esserne ucciso.” Non abbiamo idea di quanto sia plausibile o spuria l’affermazione riportata, ma stando a Dryden, Mercuzio aveva un tantino preso la mano al suo autore, che lo aveva eliminato per l’equilibrio della tragedia e il bene di Romeo. Siamo sinceri: Romeo sospira, Romeo lamenta, Romeo mormora teneri nonnulla alla ragazzina del suo cuore – e appare generalmente stupido ogni volta che il suo amico è nei paraggi. Mercuzio fa battute ciniche, capisce la politica di Verona, duella verbalmente e alla spada, discetta di linguistica e di fate. E quando le cose si mettono male, Romeo non trova di meglio che mettersi di mezzo, dando a Tebaldo il destro di ferire a morte Mercuzio. Oh certo, la morte di Mercuzio è un punto cardine, segna la promozione di R&G da commedia a tragedia, e scuote Romeo dalla sua estasi amorosa, mostrandogli come funziona il rapporto di causa ed effetto e spingendolo a uccidere Tebaldo. Non si può negare che la faccenda copra una serie di valide ed oggettive funzioni narrative. E però… Bisogna considerare che Mercuzio è largamente una creazione di Shakespeare: nelle fonti è poco più che un nome, e non ha nulla a che fare con Tebaldo, che riesce benissimo a farsi spacciare da solo. Shakespeare lo prende e gli dà una personalità ben definita e attraente – forse persino più attraente di quella del coprotagonista eponimo. Perché Romeo, pur scritto con tutta la finezza, è creato come un Primo Amoroso da commedia italiana, standard fare, mentre Mercuzio, volatile, attaccabrighe, sognatore, irriverente e filatore di parole, è un perfetto poeta elisabettiano. Diciamo, addirittura, il tipo di poeta elisabettiano che Shakespeare avrebbe tanto voluto essere? Salvo poi assassinarlo al terz’atto. Ora, se Dryden ha torto o troppa fantasia, va bene lo stesso: quando Mercuzio muore, tutti siamo abbastanza affascinati da/affezionati a lui per simpatizzare con l’ira funesta e vindice di Romeo. Ma se Dryden ha ragione, allora Shakespeare si è accorto che Mercuzio stava rubando la scena a Romeo e lo ha dovuto eliminare, perché non sta bene che un comprimario sia sempre più brillante, più attraente e più affascinante del protagonista. Se dovessi pronunciarmi, però, azzarderei una combinazione delle due motivazioni: da un lato, è vero che Mercuzio ruba tutte le scene in cui compare, e dall’altro, la morte dell’amico, meglio se cum sensi di colpa, è una motivazione vecchia come le colline* e sempre efficace: perché non prendere due piccioni con una fava?

Gli scrittori sono gente fatta così, d’altra parte. Non si butta mai via l’occasione di far pittorescamente morire qualcuno, e se quel qualcuno poi intralcia il lieto fine o occupa più luce di quella che gli spetta, lo si può considerare storia passata. È il caso del povero Lord Evandale in Old Mortality, di Sir Walter Scott. Old Mortality è una storiellona secentesca** con un giovane protagonista di nome Henry Morton, leader fittizio e riluttante di una sollevazione presbiteriana. Naturalmente Henry è innamorato di una nobile fanciulla di famiglia molto, molto cattolica, e il suo rivale per il cuore della bionda Edith è il cavalier cattolico Lord Evandale. Solo che Lord Evandale non ha trent’anni più di Edith, non è spregevole, cinico o malvagio: è un bravo, leale, coraggioso ragazzo, un buon comandante e un ammirevole avversario, con debolezze molto umane e le migliori intenzioni. Mrs. Oliphant, romanziera e critica letteraria contemporanea di Scott, racconta che le ragazze che leggevano il romanzo tendevano a dividere le loro simpatie tra Morton ed Evandale, e non c’è da sorprendersi. Quando alla fine ritroviamo Edith findanzata a Lord Evandale, è difficile dispiacersi troppo: Scott ha fatto un buon lavoro con lui, lo ha reso quasi più simpatico di Henry. Ma naturalmente non può finire così: nell’ultimo capitolo, Henry rientra dall’esilio appena prima del matrimonio… e se pensate che sarebbe meschino da parte sua interferire nell’imminente imene, never fear, ci pensa Sir Walter! Lord Evandale riesce a farsi sparare da un malvagio capitato apposta per l’occasione, e muore tra le braccia di Edith e Morton, non prima di averli ricongiunti. Si capisce, tutti sono molto, molto addolorati – e tuttavia, come diceva la mia guida russa a Mosca, molto dispiacie, sì, ma insomma, così è la viiiiiita.

Insomma, non si può interferire con il lieto fine e, siccome Lord Evandale non era malvagio, stappargli la sposa per restituirla a Morton sarebbe RupertVSRassendyll.jpgparso brutto. Meglio sparargli, no?

Un caso un po’ diverso è quello di Rupert von Hentzau, l’affascinante malvagio de Il Prigioniero di Zenda, nonché del seguito di cui è addirittura villain eponimo. Ecco, Rupert mi sembra un caso eclatante di personaggio  felicemente sfuggito di mano all’autore. Sono certa che Hope si sia accorto del deragliamento e abbia deciso di lasciar andare il treno per la sua strada: Rupert e la Ruritania sono le due maggiori attrattive della storia, e sarebbe stato suicida potarne una. D’altro canto, stile a parte, Hope non era uno scrittore del tutto convenzionale: aveva creato un genere, e all’interno del suo genere era molto rigoroso. Dopo aver fatto predicare*** i suoi protagonisti di onore e lealtà per due volumi, non aveva la minima intenzione di ricompensare le loro deroghe alle regole. Defunto il vero Re, non sarebbe affatto inglese da parte di Rudolf Rassendyll godersi la corona e la moglie di un altro uomo, e così (mentre i suoi fidi amici mitteleuropei cercano di convincerlo a restare per il bene della Ruritania), il nostro gentiluomo britannico la prende nelle costole. Però non sarebbe stato bello nemmeno che fossero i malvagi a trionfare, e quindi a questo punto Rupert è morto già da un capitolo o due, ucciso più o meno in duello da Rassendyll. Nonostante abbia barato (peccato imperdonabile) Rupert esce di scena in una maniera che oscilla tra il semitragico e l’eroico. Smiling to the end, he never bent his proud head, eccetera eccetera. Persino il Fritz narrante, guardando il giovane cugino di Rupert che singhiozza disperato sul cadavere, si commuove alquanto, e ritiene di doverci informare che, even in death, he [Rupert] was the handsomest fellow in Ruritania.**** Insomma, per ragioni di simmetria e di morale, l’affascinante, bellissimo, allegramente immorale Rupert andava proprio fatto fuori, e non poteva che essere in duello. Ma che peccato, ha l’aria di dirci Hope. E non è un caso che la morte di Rassendyll sia opera postuma di Rupert, tramite leale servitore in cerca di vendetta per la morte del suo adorato padrone.

Morale, ci sono comprimari, antagonisti o malvagi che sfuggono di penna, germogliano a loro piacere e rubano la scena al supposto protagonista. Presto o tardi, se non si vuole che scappino via con tutta la storia, vanno eliminati. Mercuzio muore perché fa ombra a Romeo, Lord Evandale muore per permettere a Morton di sposare Edith, e Rupert muore perché muore Rassendyll – con qualche chagrin dei rispettivi autori, si direbbe. In un certo senso, è un’altra versione di Muore Giovane Chi È Caro Al Suo Creatore. Se fossi un comprimario, un antagonista o un villain, cercherei di non catturare troppo la simpatia di chi mi scrive…

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* Achille e Patroclo, anyone?

** Per i melomani, I Puritani di Bellini è ispirata a questo romanzo, passando però per il dramma francese Tètes Rondes Et Cavaliers, di Ancelot e Saintine. Il dramma non lo conosco, ma nell’opera ho sempre simpatizzato per il povero Riccardo, la cui unica colpa in definitiva è quella di essere un baritono – e il baritono, si sa, deve sempre farsi da parte per il tenore, e considerarsi fortunato se è ancora vivo al calare del sipario.

*** Predicare pittorescamente, never fear.

**** Ssssì, e non è solo Fritz. Si può dire che in due volumi non ci sia personaggio, uomo o donna, che non abbia a thing per Rupert, in qualche grado.

Mag 27, 2012 - elizabethana, musica, teatro    1 Comment

A Midsummer Night’s Dream

Sono affascinata da questo video di fotografie del Sogno, messo in scena dalla Lindsay Kemp Company al Sadler’s Wells Theatre di Londra nel 1985. Dev’essere stato magico.

 

 E chissà se Lindsay Kemp, ballerino, attore, coreografo e mimo, sia un discendente del suo omonimo, l’attore elisabettiano Will Kemp, l’uomo che danzò in nove giorni da Londra a Norwich? 

Buona domenica – e se siete in quel di Mantova, ricordatevi la Mostra della Piccola Editoria al Centro Baratta.

Apr 23, 2012 - elizabethana, memories    Commenti disabilitati su A Shakespearean Rite Of Passage

A Shakespearean Rite Of Passage

Summer night, warm and damp to the point of stickiness. The lights are doused, and the chattering dies down to a trail of whispers. For a handful of moments, I can hear the crickets in the trees all around the theatre. One of those handfuls of moments calculated to break just when the audience has forgotten to breath – but I’m just eleven, and unaware of this kind of calculations.

Suddenly come a shaft of purplish light, and the bang of a trapdoor opening – then the witches climb onstage in a whorl of black rags and cackles, and run to crouch around the cauldron…

“Way to start,” mutters A., from the next seat. And although she is thirteen and bewildered, she is right. Far more than she knows. 

I am eleven, as I said, and this is my first Macbeth. My first Shakespeare. My first time at the Teatro Romano in Verona. My first less than traditional production. I know who Shakespeare is, but I never saw anything of his staged. As far as staged things go, my experience boils down to some children’s plays and a few nights at the opera – very traditional-minded productions. I’m not prepared for a tale of Medieval kings in Scotland changed – no, distilled to an affair of empty stage, shadows, cutting lights and nondescript, black costumes.  

I’m not even sure I like it all that much. Why, truth be told, I think I’m rather disappointed. Everything is so grim, so dark, no tartan sashes, no cloaks, no swords, no crenellated towers, nothing of what I had expected… And then, little by little, with no bells and whistles to keep my attention, I start to concentrate on the words. Not just the plot, but the way the words make the plot different from its synopsis. Yes, yes, the witches, the prophecy, the regicide, the folly, the defeat, it’s all there. But the creeping fear and guilt, the hoot of the night birds, the ghost, the blood stains that won’t go away, the boughs from Birnam Wood closing in… it all takes life from the power of the words, in a way no painted scenery, no elaborate costume could ever convey. And not just life, but truth.

And mind you, when we file out of the theatre I’m still eleven, and I’m not entirely convinced of what I saw. I still much prefer crenellated towers and period costumes, and I secretly hope all theatre needn’t be like tonight. And yet, when Father asks did I like the Macbeth, and I say yes, it’s not a complete lie. I may not have liked it in the usal sense of the word, but I know I’ve gone through some rite of passage. A door has opened on something that I don’t fully understand yet, but looks meaningful. Something that has to do not only with tales, but the way tales are told. Something that I want to understand – and learn, if I can.

Now, more than twenty-five years later, I know that what Shakespeare taught me that night was the power of words. A similar production of a weaker play would have just bored me, but because Shakespeare’s words were so powerful, the young girl I was grasped the essence of the story – and something else too: a hazy notion that, while the production and the acting were modern interpretation, through the words the long dead Shakespeare was still speaking to me across the centuries.

It was very hazy back then, I grant you, but it was to grow, branch out, develop into several tenets of my faith in words, when it comes to history, literature, and writing. Not bad for one shakespearean night, was it?   

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This (bilingual) post is my contribution to the Shakespeare Birthplace Trust “Happy Birthday Shakespeare” project. For a week, starting today, bloggers all around the world will post all kinds of Shakespearean musings.

Apr 23, 2012 - elizabethana, grillopensante    4 Comments

Un’Iniziazione Shakespeariana

Sera estiva, calda e appiccicosa. Le luci si spengono, con i loro aloni affollati di zanzare e il chiacchiericcio si disfa in uno strascico di bisbigli. Tra gli alberi sul fianco della collina tutt’attorno al teatro si sentono frinire i grilli – questione di un attimo. Uno di quei lunghi attimi calcolati per rompersi quando il pubblico si è dimentcato di respirare – il genere di cose di cui, a undici anni, ancora non so nulla.

La lama di luce livida e il colpo della botola che si apre succedono nello stesso istante – poi le streghe si arrampicano in scena in un turbinio di stoffa nerissima e risate, e si accucciano attorno al calderone…

“Cominciamo bene,” mormora A., seduta alla mia destra. E ha più ragione di quanto possa immaginare.

L’ho detto: ho undici anni, ed è il mio primo Macbeth. Il mio primo Shakespeare. La mia prima volta al Teatro Romano di Verona. La mia prima regia men che tradizionale. So chi è Shakespeare, ma non ho mai visto nulla di suo, e la mia esperienza di cose che si vedono su un palcoscenico è limitata a qualche spettacolo per bambini e all’opera, dove tutto si prende molto alla lettera. Non sono preparata a vedere una storia di re scozzesi trasformata – distillata in una faccenda di scene vuote, ombre, luci taglienti e gente vestita di nero.

Non sono affatto certa che mi piaccia poi granché. Anzi, a dirla tutta, sono un nonnulla delusa. È tutto così truce e buio, senza un’ombra di tartan, senza una spada, senza niente di quel che mi aspettavo… E poi, un po’ per volta, senza niente a distrarmi, mi lascio catturare dalle parole. Non soltanto dalla storia, ma dal modo in cui le parole rendono la storia diversa dal suo riassunto sul programma di sala. Streghe, profezia, regicidio, follia, sconfitta – sì, d’accordo. Ma la paura, lo stridere degli uccelli notturni, i fantasmi, le macchie di sangue, il frusciare minaccioso delle fronde del bosco di Birnam… è tutto nelle pieghe delle parole.

E badate, non è che esca dal teatro convintissima di quel che ho visto. Ho ancora solo undici anni, e una debolezza per le scene dipinte e i costumi period, e tutto sommato spero che il teatro non debba essere sempre così. Eppure, quando mio padre mi chiede se mi è piaciuto e rispondo di sì, non è una completa bugia. Forse non mi è piaciuto nel senso abituale del termine, ma è stata un’iniziazione. Una finestra aperta su qualcosa che non capisco fino in fondo, ma che ha l’aria di essere significativo. Qualcosa che ha a che fare non solo con le storie, ma con il modo in cui le storie si raccontano. Qualcosa che sono intenzionata capire – e imparare, se posso.

Adesso, a più di venticinque anni di distanza, so che quella sera a Verona Shakespeare mi ha insegnato la forza delle parole. Una produzione altrettanto spartana di un lavoro meno significativo mi avrebbe soltanto annoiata, ma siccome le parole di Shakespeare erano così potenti, la bambina che ero aveva colto l’essenza della tragedia – e anche qualcosa d’altro. Una vaga impressione che, indipendentemente dall’interpretazione moderna del regista e degli attori, attraverso le sue parole, persino in traduzione, Shakespeare parlasse ancora a cinque secoli di distanza.

Era tutto molto vago allora, lo ammetto, ma era destinato a consolidarsi, far talea e svilupparsi in vari articoli della mia fede nelle parole, in fatto di storia, letteratura e scrittura. Non male, per una serata a teatro, direi.

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Con questo post (bilingue) SEdS partecipa al progetto Happy Birthday Shakespeare, dello Shakespeare Birthplace Trust. Per una settimana a partire da oggi, bloggers di tutto il mondo posteranno ogni genere di rimuginamenti shakespeariani.

Sei Secoli Di Pulzelle D’Orléans

Giovanna d'arco, christine de pisan, shakespeare, voltaire, schiller, mark twain, g. b. shawAvrei creduto che la Francia si scuotesse un po’ di più per il seicentesimo anniversario della nascita di Giovanna d’Arco, ma si direbbe che la contadinella-soldato, la piccola coronatrice di re con le voci e le visioni sia un po’ passata di moda – senza per questo avere mai smesso di ispirare legioni scrittori dentro e fuor di Francia. 

Nel corso degli ultimi sei secoli, Giovanna è stata scritta in poesia e romanzo, e ancor più a teatro e all’opera, caratterizzata in ogni possibile luce: santa, vittima, eroina nazionale, pedina politica, pastorella ingenua, fanatica, protofemminista, pastorella ingenua, strega…

Si cominciò molto presto, considerando Le Ditié de Jehanne D’Arc, il poema che Christine de Pisan compose nel 1429, quando Giovanna era ancora viva. E non stupisce particolarmente che la pia, coltissima e battagliera Christine, alla fine di una carriera letteraria senza precedenti per una donna del suo tempo, racconti Giovanna in elegia. 

Né, tutto sommato, stupisce troppo la ben diversa Pulzella nell’Enrico VI, Parte I. Shakespeare la ritrae bifronte – vergine ispirata agli occhi adoranti dei Francesi, strega per gl’Inglesi sconcertati dalla ragazza in armatura. Il punto di vista è quello inglese, naturalmente, e Giovanna è la principale antagonista, pericolosa, indecifrabile, eretica e in combutta con il demonio – no matter quante statue i Francesi (che dopo tutto sono Francesi!) vogliano innalzarle nelle chiese. Alla fine, al suo processo, Giovanna comincia col presentarsi virginale, ardente e pia ma, quando i giudici inglesi non si lasciano impressionare, cambia linea di difesa e si dichiara incinta, suggerendo un possibile padre dopo l’altro, alla disperata ricerca di un comandante francese che i suoi nemici possano rispettare… caratterizzazione molto umana e molto poco celeste

E ben poco di celeste c’è anche ne La Pucelle d’Orléans, il poema tra epico e sgiovanna d'arco, shakespeare, henry VI part Iatirico che Voltaire iniziò per scommessa letteraria e lasciò incompiuto. Parte demistificazione religiosa, parte divertissement licenzioso, la Pucelle destò scandalo, fu proibita e – come accade in questi casi – circolò clandestinamente in lungo e in largo.

Se invece volete vedere Giovanna presa sul serio, si può sempre contare su Friederich Schiller, uno che non si lasciava mai intralciare dai fatti storici sulla strada del dramma. La sua Pulzella è una protagonista visionaria, piena della saggezza dei semplici, preternaturalmente coraggiosa – e invincibile (per magia, mica per intervento divino) fino al giorno in cui s’innamora di un cavaliere inglese. Seguono sensi di colpa, allontanamento dalla corte, prigionia e morte in battaglia. Il processo? Il rogo? Dettagli – ma è di Schiller che stiamo parlando, e con la licenza poetica persino gli dei combattono invano.

Se state pensando che la Giovanna di Schiller sembra perfetta per l’opera, non siete i soli. Verdi, Tchaikowskij, Pacini e una mezza dozzina di altri, alla ricerca di un soggetto pulzellesco, scelsero proprio l’Inaffidabile Friederich, che in fatto di storia non soffriva di soggezioni*, ma aveva senso teatrale da vendere. Ci fu persino un balletto, ad opera di Salvatore Viganò, IL coreografo del primo Ottocento milanese. 

Ancor più sul serio faceva Le Brun de Charmettes, oggi dimenticatissimo but worth a mention, visto che a Giovanna, oltre a una biografia in vari tomi, dedicò l’Orléanide, per un certo numero di decenni il poema nazionale francese.

Sorprende semmai che a prendere sul serio Giovanna fosse Mark Twain – che non prendeva sul serio troppe cose**. Eppure le sue Personal Recollections Of Joan Of Arc sono un romanzo biografico pieno di trasporto e adesione sentimentale. Va’ a sapere quel che può fare uno scrittore quando s’innamora attraverso i secoli…

giovanna d'arco, g. b. shaw, saint joan, anne-marie duffNaturalmente non ci si può aspettare nulla del genere da George Bernard Shaw, e però la sua Saint Joan è a suo modo quasi altrettanto singolare. Qui abbiamo una ragazzina ignorante e piena di buon senso, che trascina soldati, capitani e re per pura incrollabilità di proposito, pur restando del tutto umana. Candida, sensata e devota, la Pulzella (“Ma in Lorena mi chiamano Jenny”) sale al rogo con i suoi dubbi di proto-protestante e la sua fede, e torna – in spirito o in sogno – a discutere con Carlo VII.

E con questo ho esaurito le Giovanne che ho letto di persona, ma ce n’è ancora un’abbondanza e varietà: dalla sindacalista di Brecht alla (quasi) partigiana di Anouilh, dall’aliena pericolosa di Farmer all’immortale di Michael Scott… E non dinemtichiamo una quarantina di film, un certo numero di canzoni (Leonard Cohen, anyone?) e, mi si dice, persino un paio di videogames.

E in realtà, il fatto è che Giovanna ha tutto quanto: il viaggio dell’eroe, le umili origini, il ruolo maschile, le accuse di stregoneria, le visioni, il martirio, la guerra, la religione… Di lei sappiamo molto più che della sua contemporanea media (sentiamo persino la sua voce nelle trascrizioni del processo) e al tempo stesso sappiamo abbastanza poco da poterle dare le intenzioni, il carattere e le funzioni simboliche che vogliamo. Con o senza coloriture particolarmente religiose, Giovanna può essere molte cose*** – e questa è sempre un’otttima base per una fortuna letteraria postuma.

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* Quando penso a tutti gli sforzi che Goethe profuse per fargli ottenere una cattedra di Storia all’Università di Jena… what was he thinking?

** Be’, a voler vedere, prese sul serio anche Delia Bacon, la squadrellata che sosteneva Francis Bacon come Vero Autore del canone shakespeariano. La cosa grave è che Delia sosteneva di sapere com’era andata più o meno per illuminazione…

*** Mi ci metto anch’io: nel mio Bibi e il Re degli Elefanti, atto unico per fanciulli, Giovanna è una degli amici immaginari della piccola protagonista, che trova in lei un simbolo di determinazione e resilience.

Ritratto Dell’Artista

E non dico che tutto il mondo sia un teatro affollato di antistratfordiani, ma la sensazione che il povero Will Shakespeare non fosse del tutto qualificato per scrivere ciò che ha scritto dev’essere diffusa – e lo dico sulla base della quantità di Will letterari mostrati mentre non fanno altro che assorbire il loro materiale.

Lo Shakespeare letterario medio, quello che  si trova in un romanzo o a teatro, vive con il taccuino in mano – più o meno metaforicamente – annotando, raccogliendo o rubando ogni spunto che gli passa nel raggio di un miglio.

E non da oggi, se consideriamo Le Voyage de Shakespeare, di Alphonse Daudet, una faccenda a mezza strada tra la storia picaresca e il romanzo di formazione, in cui un giovane Will attraversa l’Europa e tutte quelle esperienze che mancano al figlio del guantaio di Stratford per diventare il Bardo.

In The Dark Lady Of The Sonnets, sconosciutissimo atto unico di G.B. Shaw, la faccenda è più teatrale e più spudorata: il nostro ragazzo incontra sul ponte di Londra la Signora Bruna, un Beefeater e varia altra gente, e per tutto il tempo non fa altro che appuntarsi ogni parola che dicono – irritando tutti da non dirsi.

P. F. Chisholm, che poi è Patricia Finney, nei suoi Carey Mysteries porta occasionalmente in scena un Will di questo genere – solo molto più tecnico e consapevole di quel che fa. A un certo punto Sir Robert Carey racconta del bizzarro piccolo attore della compagnia di suo padre*. Costui, dice Carey, ha l’abitudine di scovare gente di tutte le provenienze (nulla di troppo difficile a Londra) e pagarla un tanto all’ora per ascoltarla parlare o leggere ad alta voce. Per impadronirsi di ritmi, inflessioni e cadenze. He’s odd that way, commenta un perplesso Sir Robert – ma noi capiamo e sorridiamo.

Robert Brustein, in The English Channel, riprende l’idea l’idea di Shaw** con un Will che, in conversazione, continua ad interrompere se stesso e gli altri al grido di “this could be something” ogni volta che riconosce un giro di frase, una possibile trama o un’idea. Dopodiché uno dei suoi interlocutori è Marlowe, che non si diverte particolarmente ad avere la sua conversazione messa in versi – e meno ancora a constatare i piccoli furti di versi del suo ambizioso collega… E se vi chiedete il significato del titolo, ebbene, l’idea è che Shakespeare trasmetta, canalizzi voci e idee del suo tempo – in particolare del defunto Marlowe, il cui fantasma, in una bizzarra cornice di prologo & epilogo, c’informa di aspettarsi che Will continui il suo lavoro.

Ancor più radicale da questo punto di vista è Sarah Hoyt, che in Any Man So Daring ci mostra un prima perplesso e poi terrorizzato Shakespeare che scrive sotto dettatura di Marlowe. Un Marlowe che forse non è proprio morto, ma lo è sotto molti aspetti, e comunque questo è un fantasy piuttosto metaletterario in cui i personaggi fatati del Sogno e della Tempesta prendono vita, sono di grande aiuto e combinano innumerevoli danni, e quindi figuratevi che cosa non può fare un Marlowe tra il defunto e il fatato…

Inutile dire che, in tutto questo, Marlowe invece è sempre perfettamente capace di scrivere da sé, senza un gran bisogno di ascoltare, osservare o prendere a prestito altro che l’occasionale cronaca di Holinshed o atlante di Lonicerus.

Basta vedere certe scene di The Reckoning of Kit and Little Boots di Nat Cassidy, con un vulcanico Marlowe che scrive per tesi e uno Shakespeare a mala pena articolato, ma occupato a raccogliere l’essenza della natura umana. “Stories. People,” spiega in tutto e per tutto Will, accennando con le mani alla folla che lo circonda.

E certo è che, a giudicare dalle sue opere, non si direbbe che quell’egocentrico e ambizioso rimuginatore di Kit Marlowe si sia mai preoccupato soverchiamente di capire o osservare i suoi simili. Non doveva avere un grande interesse per l’aspetto people, quale che fosse la sua passione per le stories. Al punto che in quella bizzarria marloviana che è The Nine Lives of Kit Marlowe, Jay Margrave sente di dover giustificare in qualche modo la nuova umanità del Kit post-1953 – quello che, per intenderci, invece di morire a Deptford sopravvive e scrive l’intero canone scespiriano***. E così, tanto per cominciare, il giovanotto passa abbastanza tempo nascosto, travestito da donna e addestrato a comportarsi come una donna da sviluppare tutta una nuova comprensione per il genere femminile.

Ma eccentricità a parte, bisogna ammettere che stili, maniere e biografie autorizzano questo tipo di caratterizzazione. O forse sto assumendo opinioni bizzarre a mia volta, ma trovo del tutto convincente vedere un Marlowe che essuda e uno Shakespeare che assorbe come una spugna.

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* Carey era il figlio più giovane di Lord Hunsdon, Lord Ciambellano d’Inghilterra e mecenate dei Lord Chamberlain’s Men, la prima compagnia con cui Shakespeare lavorò.

** Direi che mi sono stupita di non trovare Shaw citato tra i precedenti letterari nella prefazione dell’autore – se non fosse che constato quasi quotidianamente la facilità con cui si scrive qualcosa di simile a qualcos’altro – senza averne la più pallida idea. *sospiro*

*** Mai usata in vita mia questa versione italianizzata dell’aggettivo, ma mi sono proposta di fare qualcosa di mai fatto prima almeno una volta al mese, Breakfast-at-Tiffany’s-wise. Ci sono mesi in cui baro un pochino. Scespiriano, scespiriano, scespiriano.

Il Libro Segreto Di Shakespeare – Non Proprio Una Recensione

Quello che non arrivo a capire, alla fine fine, è se Gene Ayres si prenda davvero tanto sul serio come appare da questa intervista rilasciata a Lucius Etruscus di Thriller Magazine, oppure se anche l’immagine del martire antistratfordiano faccia parte dell’operazione di marketing.

Gli antenati quaccheri, il fratello maggiore fisico dedito alla ricerca della verità, i ritrovamenti sensazionali, la persecuzione da parte degli ambienti accademici, il muro di gomma editoriale… Tutto molto drammatico, no? Non siete già curiosi di leggere il frutto di tanta audace originalità e coraggiosa dedizione?

Può darsi che lo siate, e così lo leggete, e scoprite che in realtà quello che Gene Ayres (sotto lo pseudonimo di John Underwood) vi ha propinato è un thrillerino debolissimo e pasticciato, farcito d’improbabilità narrative e di teorie vecchie come le colline…

E badate, questo non è un rant stratfordiano. Non ho nessun particolare affetto per la tesi che Shakespeare e nessun altro abbia scritto le opere di Shakespeare – pur trovando serie difficoltà nella maggior parte delle tesi alternative. Diciamo che in proposito sono agnostica. Semmai, sono pronta ad ammettere che la questione del Vero Autore è ottima materia da romanzi – però mi aspetto di vederla trattata in almeno uno di due modi: o convincente, o sottile. Possibilmente entrambi. Gene Ayres/John Underwood, temo, manca gravemente in entrambi i campi, e non si riscatta nemmeno con una trama gialla di qualche solidità.

Ora, cominciamo col dire che scrivere un giallo letterario significa avventurarsi in territorio pericoloso. Si tratta di rendere avvincente una vicenda in cui qualcuno passa un sacco di tempo disseppellendo minuti dettagli da manoscritti polverosi – attività emozionante per il seppellitore, ma potenzialmente noiosissima per chi ne legge.

Da questo punto di vista, ILSdS rende omaggio al ben altrimenti incantevole La Figlia del Tempo, di Josephine Tey (capostipite del genere e nume letterario del riccardianesimo) in cui, dal suo letto d’ospedale, un ispettore capo di Scotland Yard dirige come un’indagine la ricerca che porterà a stabilire l’innocenza di Riccardo III. Tey riesce, in un miracoloso equilibrio di tensione, tempi perfetti e dialoghi scintillanti, a creare suspence senza far scorrere una goccia di sangue – oltre a quello già versato nella Torre, si capisce. Ayres/Underwood allude a Tey implicitamente ed esplicitamente*, ma poi non è capace di fare altrettanto bene.

Concediamo pure che le dimensioni quadruple e i ripetuti omicidi fossero scelte pressoché obbligate. Nel mondo anglosassone non si vende nulla al di sotto delle 90000 parole, ed è obiettivamente più facile creare tensione quando il protagonista rischia la vita. Peccato che, nell’ansia di creare tensione, Ayres** si sia lasciato prendere un tantino la mano…

E ADESSO, PER FAVORE, FERMATEVI SE NON VOLETE SAPERE COME VA A FINIRE IL LIBRO. QUESTA NON È UNA RECENSIONE: È UNA SPIETATA DISSEZIONE, CON ABBONDANTE ESPOSIZIONE DI ORGANI INTERNI. RIPRENDETE A LEGGERE DAL TERZ’ULTIMO PARAGRAFO E POI TORNATE QUI QUANDO AVRETE LETTO IL LIBRO E CONSTATATO DA VOI.

Ecco – e poi non dite che non vi avevo avvertiti.

Per chi è ancora qui, onwards. Ayres, dicevo, si lascia prendere la mano e dissemina Malvagi come se piovesse. C’è uno studioso shakespeariano alquanto deranged, che si aggira per due continenti nuocendo variamente a rivali accademici e conversando per citazioni del Bardo. Poi c’è una bieca multinazionale offshore, disposta a misure tanto drastiche quanto bizzarre per proteggere i suoi cospicui profitti shakespeariani. E poi c’è Scotland Yard, il cui comportamento nel proteggere gli’interessi nazionali legati al nome dello Zio Will è, nella più benevola delle ipotesi, ambigua. E potremmo aggiungere intere facoltà di letteratura inglese pervicacemente decise a condonare persino l’omicidio, se si tratta di proteggere il nome del Bardo…

E non è come se il campo dei buoni fosse meno confuso. C’è la vittima sacrificale, un eccentrico professore universitario cui Ayres attribuisce la sua ricerca “originale” – o meglio, ci sarebbe, perché costui scompare presto. Poi c’è il protagonista, un giornalista investigativo americano provvisto delle più pallide e superficiali competenze in fatto d’Inghilterra elisabettiana – ideale come veicolo per treni merci di esposizione in materia, perché bisogna spiegargli tutto, ma proprio tutto. Poi ci sono i suoi supposti aiutanti: la figlia laureata in letteratura inglese e decisa a diventare attrice***, un fisico indiano, co-cospiratore del defunto, e un anziano libraio. Ora, il fatto è che tutti costoro hanno memoria selettiva e una natura lievemente sadica. La bella figlia**** ha studiato un sacco di letteratura elisabettiana, ma i nomi di Greene, Nashe e persino Marlowe non le dicono praticamente nulla per tre quarti del libro. Per di più è in (innocente?) combutta con l’assassino, che pure le ha praticamente confessato i suoi misfatti. Il fisico indiano è fisico in omaggio al fratello dell’autore, ed è indiano per giocare meglio il ruolo dell’outsider. A parte questo, è un complottista paranoico di dubbia utilità personale e narrativa e, si scoprirà poi, a sua volta in combutta con Scotland Yard. Il libraio, invece, pur avendo la chiave di tutta la faccenda, centellina le sue informazioni come se si trattasse di una caccia al tesoro, lasciando che il protagonista rischi la vita e perda il sonno strologando su una puerile lista di abbreviazioni trovata – hear ye! hear ye! – nella tasca di una giacca dimenticata dal defunto in tintoria!

Il risultato si è che il nostro giornalista investigativo, assistito da ben tre esperti di cose elisabettiane, impiega duecentocinquanta pagine a scoprire l’esistenza di teorie alternative sul Vero Autore. E adesso fate un piccolo esperimento, o Lettori. Aprite Google, impostate l’Inglese come lingua di ricerca e poi cercate William Shakespeare. Il primo risultato è la relativa voce Wiki, che al paragrafo 7 introduce la questione del Vero Autore e rimanda a tutta una serie di dettagliatissimi lemmi in proposito – ma provate ad aprire gli altri risultati nella prima pagina, e constatate la quasi onnipresenza della Authorship Question… Fatto ciò, supponendo che vi sia sorta qualche curiosità (immaginate, per esempio, che il vostro amico sia stato assassinato di recente – prima di pubblicare un controverso saggio sul Bardo…) e cercate Authorship Question. Fatto?

E allora, avete impiegato la bellezza di un paio di minuti a scoprire il grande segreto che Ayres/Underwood/Lewis sostiene di avere rivelato per primissimo sfidando secoli di bieco e mercenario (per non dire potenzialmente pericoloso) oscurantismo.

Perché, o Lettori, la questione può sembrare di lana caprina da questo lato della Manica, ma nel mondo anglosassone ci si scanna con grande energia su chi abbia scritto le opere di Shakespeare – fin dalla fine dell’Ottocento. Con grande energia e in tutta libertà, bisogna dire, perché non mi risulta che nessuno abbia mai attentato per questo alla vita di Delia Bacon, Mark Twain, Hawthorne, Calvin Hoffman, Freud, Archie Webster o Antonia Wright – tanto per citare solo qualche antistratfordiano di punta. Why, esistono e prosperano decine di associazioni internazionali dedicate a sostenere le pretese dell’uno o dell’altro candidato, e nel 1993 la Marlowe Society è riuscita a far aggiungere un punto di domanda accanto alla data di morte del suo beniamino nel Poet’s Corner dell’Abbazia di Westminster.

Ora, non dubito che tutta questa gente si sia attirata (e abbia ricambiato) molta furiosa e/o sprezzante acidità da parte degli ambienti accademici, ma mi pare che l’idea di cospirazioni del silenzio, pubblico ignaro, attentati oscurantisti e minacce semiufficiali per soffocare una teoria marloviana sfiori molto da vicino il ridicolo. E questo, a mio timido parere, è il motivo principale per cui nessun editore americano o inglese ha voluto pubblicare The Shakespeare Chronicles: da un lato i romanzi marloviani abbondano, e dall’altro questo è basato su premesse improponibili. Non tanto l’ipotesi che Marlowe abbia scritto le opere di Shakespeare (che circola, in forma di saggio e di romanzo, fin dal lontato 1894), quanto l’idea che l’ipotesi in questione possa essere pericolosa, scandalosa, inaudita o ignorata da chiunque abbia mai sentito nominare Marlowe… Fuori dal mondo anglosassone il problema appare più remoto e più ignoto – ed ecco le sette edizioni in altre lingue.

NOTA DI SERVIZIO: CHI SOFFRE DI ALLERGIA AGLI SPOILER PUO’ RIPRENDERE A LEGGERE DA QUI.

Poi, tornando all’intervista, si scopre che Ayres ha cercato di presentare le sue teorie in forma di saggio – ricevendo ripetutamente il due di picche. Allora ne ha fatto un romanzo, cui ha accostato una ripubblicazione del saggio originale sotto il nome di Desmond Lewis – guarda caso l’assassinato del romanzo. il saggio non l’ho letto, ma il romanzo (così come l’intervista) è condito di molta bile nei confronti degli Ayatollah Accademici, ovvero tutti gli studiosi shakespeariani che avrebbero a) abbracciato, avallato e perpetuato una secolare congiura di calunnie a proposito del povero, candido, innocente, virtuoso Kit Marlowe; b) rifiutato le argomentazioni di Ayres solo perché lui non è un accademico; c) appoggiato la congiura editoriale che non gli ha consentito di trovare un editore. 

L’idea di avere scoperto l’acqua calda e di averla rifritta in un thriller mediocre, pare non sfiorarlo. Così come non lo sfiora il dubbio che le inesattezze storico-letterarie possano avere nuociuto alla sua credibilità. Affermare che Thomas Kyd era uno degli University Wits, o che Francis Walsingham era il nonno di Lady Mary Sidney***** non è il genere di exploit che ti fa prendere sul serio in ambito accademico. E il bello è che nell’intervista Ayres ringrazia l’editor italiana di Newton Compton che gli ha segnalato “alcuni errori importanti.” Non oso pensare******.

Insomma, in tutto questo, l’unico aspetto vagamente interessante del libro – l’ipotesi (improbabile e non provata, ma non peggiore di tante altre) che il Bel Giovane dei Sonetti sia un figlio illegittimo dell’autore, anziché un amante – finisce soffocata in una farragine di assurdità, esposizione, scrittura mediocre, inesattezze, coincidenze e pretese di originalità, senza nemmeno l’ombra di un finale*******. E paradossalmente, almeno ai miei occhi, il voler dipingere l’autore come un martire letterario/accademico è l’aspetto più irritante dell’insieme. Se è marketing, è proprio bieco. Se è self-righteousness, è tanto ingiustificata quanto insopportabile.

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* Mi domando se il riferimento esplicito non sia stato aggiunto per la pubblicazione nei paesi non anglofoni. Credo che il lettore medio anglosassone difficilmente potrebbe non notare la linea di discendenza.

** Ne ho abbastanza di scrivere Ayres/Underwood, perdonate…

*** Altra strizzata d’occhio a Tey, la cui coprotagonista Marta Hallard è, appunto, un’attrice teatrale.

**** E quanto tempo passa il padre a compiacersi della bellezza, intelligenza, astuzia, determinazione e forte personalità di questa figlia…

***** Ma c’è parecchia confusione in proposito, perché in un altro passaggio la vedova di Sir Philip Sidney (fratello di Lady Mary) divenda la sorella di Walsingham, del quale invece era figlia.

****** Oh, e già che ci siamo, nota di biasimo anche per le traduttrici. Questo non è un saggio con un apparato critico colossale e note a pie’ di pagina nell’ordine delle migliaia. I dettagli non sono così tanti da non poterli controllare – e, se è abbastanza ovvio che Calvin Hoffman e Archie Webster sono uomini, perché la povera Una Mary Ellis-Fermor deve diventare “lo studioso inglese U.M. Ullis-Fermor”? A parte tutto il resto, quanti nomi maschili inglesi ci sono che cominciano per U? E sì, d’accordo: è un rant. Ho solo detto che non sarebbe stato un rant stratfordiano, no?

******* But fear not (oppure fear a lot, dipende dai punti di vista): Ayres/Underwood sta già lavorando al seguito.

 

L’Impresario

Se c’è qualcuno a cui dobbiamo più che ad altri quel che si sa oggi sul funzionamento pratico del teatro elisabettiano, quello è Philip Henslowe.

Sì che sapete chi è – anche se credete di non averlo mai sentito nominare. Avete mai visto Shakespeare in Love? Sì? E allora avete già incontrato il nostro uomo: è il proprietario del Rose, uno dei due impresari cui il giovane Will ha venduto l’ancora inesistente lavoro che poi diventerà Romeo And Juliet. Il fatto che Henslowe sia interpretato da Geoffrey Rush aiuta. Così come aiutano alcune favolose battute che Tom Stoppard ha scritto per lui*.

Come molta gente che compare in quell’incantevole film, Philip Henslowe è esistito davvero. Era il figlio di un guardiacaccia del Sussex, approdato a Londra attorno al 1570 per diventare apprendista e poi mastro tintore. Dopodiché, l’uomo aveva il bernoccolo degli affari e cominciò a diversificare, occupandosi, oltre che di tinture, di amido, legname, pegni, bordelli, proprietà immobiliari, usura, combattimenti di animali e commercio di pelli di capra. Il fatto che un individuo di tanti e discutibili interessi fosse anche fabbriciere e sovrintendente al sollievo dei poveri della sua parrocchia e ottenesse un paio di incarichi minori a corte non è particolarmente strano – solo molto elisabettiano. Nel 1587, già che c’era, costruì il Rose, uno dei primi grandi teatri permanenti al di là del Tamigi, e cominciò a farci lavorare la Compagnia dell’Ammiraglio, capitanata dal giovane e già celeberrimo Ned Alleyn – a sua volta legato al più sensazionale autore del momento: Christopher Marlowe. Boom.

Francamente non credo che Henslowe fosse motivato da un travolgente amore per le arti. Aveva soltanto il dono di riconoscere un settore redditizio quando ne vedeva uno: quelli che non conoscono stagioni, come usura e prostituzione, e quelli che si stavano espandendo con i mutamenti del gusto e del costume, come amido e teatro. Henslowe era un uomo d’affari accorto e attento, abituato a badare ai suoi conti con pugno di ferro – e fu così che si guadagnò la gratitudine imperitura dei posteri: con i suoi Diari. In realtà si tratta di un registro del Rose, che copre il periodo 1592-1609. Dalle sue pagine** apprendiamo che Henslowe ebbe a libro paga ventisette tra i maggiori autori del tempo, ma non Shakespeare – almeno non direttamente. E scopriamo come funzionavano le collaborazioni e le riscritture, e che una compagnia poteva pagare di più per un singolo costume  femminile che per il testo di una tragedia, e che a fine Cinquecento gli effetti speciali erano già una fiorente industria… Si tratta di una lettura affascinante, piena di dettagli pratici e di tocchi di colore. Per citarne uno, mi ha sempre divertita il fatto che, quando era in collera con Ben Jonson, Henslowe lo definisse “Il muratore”, in non proprio benevolo riferimento all’apprendistato giovanile di cui il buon Ben non andava per nulla fiero.

Henslowe morì nel 1616, ricco sfondato, appagato nel suo sogno di diventare sovrintendente degli orsi reali e del tutto ignaro di avere lasciato alla posterità un documento così prezioso – anche se in realtà qualche debito di gratitudine va anche a Ned Alleyn, che di Henslowe era genero ed erede (avendone sposato la figliastra Joan), e che ne conservò il diario in mezzo alle sue carte.

Philip Henslowe in tutta probabilità non era una cara persona. Vari contemporanei lo descrivono come duro, avido e privo di scrupoli***. Però a questo usuraio, tormentatore di debitori e tenutario di bordelli dobbiamo molte tessere di quel pittoresco mosaico che possiamo ricostruire come palcoscenico per i più grandi autori del suo tempo. Senza di lui, il modo in cui capiamo Shakespeare, Marlowe e i loro contemporanei sarebbe più limitato. Potremmo quasi definirlo un involontario Heminges/Condell del dietro-le-quinte. Somewhat fittingly, non è debito da poco.

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* La mia preferita (cito a memoria): “La condizione naturale del teatro è un susseguirsi di ostacoli insormontabili sulla strada del disastro inevitabile. Poi alla fine, in qualche modo, tutto si sistema. Come avviene? Non si sa – è un miracolo.” So true. oh so very true.

** In origine il registro apparteneva al cognato di Henslowe, un ricco fabbricante d’armi. Poi passò di mano – ed è divertente immaginare Henslowe che, facendo visita al cognato, inciampa in un enorme registro scartato per qualche ragione. “Ve ne fate nulla di questo, Ralf? E allora, se non vi dispiace, lo prendo io. Che cosa me ne faccio? Oh, non si sa mai – può sempre venire utile…”

*** Non sono certa che la sua apparente propensione a prestare denaro ai suoi autori sia una circostanza attenuante – a parte i commenti caustici che tendevano ad accompagnare il prestito, stiamo parlando di un usuraio: dubito molto che lo facesse per pura bontà di cuore.

Dic 16, 2011 - libri, libri e libri    2 Comments

Cave Avunculum

Ora, non dico che tutti gli zii letterari siano pessimi, perché ci sono anche zii come il Principe di Salina, Zia Ellen (Kipling), Zia Bee (Tey) o il Conte Zio – che simpaticissimo non è, ma di certo è indulgente coi nipoti – però dovete ammettere che quando compare uno zio di carta la tentazione di essere cauti c’è.

C’è perché siamo ammaestrati da gente come Re Claudio, che re di Danimarca ci è diventato assassinando il fratello e non vede l’ora di fare altrettanto con il nipote Amleto. Poi la faccenda è reciproca e, in capo a tre ore di tragedia, i due riusciranno ad assassinarsi indirettamente a vicenda, ma intanto noi groundlings abbiamo capito chi porta il cappello bianco e chi il cappello nero.

Per non parlare poi di Riccardo III, zio usurpatore che spedisce alla Torre i nipoti fanciullini e poi non ordina a Buckingham di mandare un paio di sicari a completare l’opera… verrebbe da chiedersi se John Shakespeare avesse fratelli antipatici – non fosse che si tratta di una combinazione di due fattori: da un lato Shakespeare era ansioso di sposare il punto di vista Tudor/Lancaster, e dall’altra è una verità universalmente riconosciuta che un uomo provvisto di un fratello coronato (e fornito di eredi maschi) dev’essere in cerca di un trono…

Per dire, vi ricordate la Principessa Zaffiro di animesca memoria – quella che era ai ferri corti col perfido zio? O il Principe Caspian delle Cronache di Narnia? Ecco, appunto.

E non c’è nemmeno tutto questo bisogno di una corona in ballo: pensate a Ebenezer Balfour, fratello minore che usurpa patrimonio e titolo e, al ricomparire del nipote dopo diciotto anni, prima tenta di mandarlo a sfracellarsi giù da una scala buia, poi lo fa rapire da un capitano di mare con l’incarico di venderlo schiavo nelle Caroline. E in fondo i Balfour sono soltanto landed gentry con un palazzotto in rovina e un sacco di debiti.

D’altro canto, la gelosia fraterna è un tema molto più  vecchio delle colline, e il trasferimento di ostilità nei confronti della progenie del fratello è estremamente logica. Talmente logica che a volte viene presa e passata al lettore così com’è – come nel caso di Ralph Nickleby, che non ha nessun buon motivo per averla a morte con suo nipote Nicholas, se non il fatto che si tratta del figlio del fratello che non poteva sopportare. Dickens faceva questo genere di cose, e anche lui non scherzava in fatto di zii, considerando Ebenezer Scrooge, cui il gaio e spensierato nipote Fred fa rabbia al solo vederlo, proprio perché è gaio, spensierato e generoso. That is, prima che arrivino Marley e gli Spiriti a far prendere a Scrooge lo spavento della sua vita – ma questa è un’altra faccenda. E considerando anche John Jasper, lo zio di Edwin Drood. Vero, il romanzo è incompiuto e non sappiamo se sia stato proprio Jasper a uccidere Edwin (o, se è per questo, se Edwin sia davvero morto…), ma di sicuro lo zio non è una cara persona.

I prozii sono merce più rara e non sono sicura che contino davvero. L’unico che mi viene in mente al momento è Lantenac di Quatrevingt-Treize, che però ha un buon motivo di ostilità nei confronti del pronipote Gauvain – un motivo che non ha necessariamente a che fare con i vincoli famigliari, considerando il giovane è un ardente rivoluzionario e il vecchio un difensore dell’ancien régime. Certo, a Lantenac secca che il sangue del suo sangue sia diventato sanculotto, ma ce l’ha altrettanto con il semi-estraneo e non imparentato Cimourdain, per cui…

Per contro la prozia March, bisbetica benefattrice delle Piccole Donne, s’inserisce senza scosse nel genere femminile della specie, che è decisamente meno letale. E penso ad esempio alla Zia Dete di Heidi, alla zia Barbary di Esther Summerson in Bleak House o alla zia Polly di Pollyanna, assai men cattive che acide, in genere per zitellaggio e maternità mancata – e a questo può provvedere la tenera eroina – oppure no. Poi ci sono anche le zie veramente malvagie, come la zia Reed, prima tra i molti guai di Jane Eyre, o Lady Minerva Broome che in Cousin Kate, di Georgette Heyer, tenta disperatamente di affibbiare alla nipote eponima e indifesa il proprio figlio bellissimo e squilibrato – ma squilibrato nel senso più omicida del termine. In genere la zia con figli è più pericolosa, perché non ha scrupoli nel detestare/danneggiare/eliminare/sacrificare il nipote a favore della propria prole.

E dite la verità, non è divertente vedere come l’idea abbia attraversato pressoché intatta secoli, generi e generazioni, conservandosi soprattutto nella letteratura per fanciulli? Quanti sono gli orfani letterari affidati a zii dall’insopportabile/rancoroso (i Dursley per Harry Potter) al francamente pericoloso (il conte Olaf per i fratelli Baudelaire), passando per l’indurito grave (Mrs. Timm per Serena Pepper)?

È quasi rassicurante vedere che certe cose non cambiano e che – almeno in parte – si possono conservare queste secolari certezze: quando in un libro compaiono degli zii, può non essere una cattiva idea diffidare.