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Apr 14, 2014 - Shakeloviana    6 Comments

Shakeloviana: Il Libro Dell’Aria E Delle Ombre

Cover of "The Book of Air and Shadows"The Book Of Air And Shadows, di Michael Gruber – che non è stato tradotto in Italia e forse non lo sarà mai – è la prova provata che si può benissimo scrivere da dio e perdersi lo stesso molte cose per strada.

Prima di tutto, confermo che la scrittura è davvero notevole, con quel genere di frasi che torni indietro a rileggerti per il gusto di farlo, tanto sono eleganti e rotonde. E funziona benissimo sia nella parte narrata in prima persona da Jake Mishkin, superavvocato specializzato in diritti d’autore, sia nella porzione di Albert Crosetti, giovane aspirante regista che lavora in un negozio di libri antichi nella speranza di pagarsi, un giorno, la scuola di cinema. Giurerei un po’ meno sull’Inglese elisabettiano delle lettere di Richard Bracegirdle: non suona tanto elisabettiano quanto contemporaneo con uno spelling bizzarro, e questo è il primo difetto. Anche ammettendo che, come dice Josephine Tey, gli Elisabettiani non dovessero suonare antiquati all’orecchio dei loro contemporanei, la loro scrittura deve suonare antiquata ai nostri occhi. Antiquata, non in maschera.

E dapprincipio pensavo che fosse proprio un peccato che Gruber non si fosse disturbato un po’ di più a curare il suo Inglese storico, perché l’idea di un manoscritto shakespeariano ritrovato non sarà originalissima, ma l’idea che il testo perduto fosse il frutto di una cospirazione d’epoca non mi dispiaceva. Insomma, un po’ per l’argomento e un po’ di più per la scrittura (o almeno tre quarti della scrittura) ero assolutamente decisa ad apprezzare questo libro.

Ma poi…

Non credevo che mi sarebbe mai capitato di lamentarmi di troppa caratterizzazione, ma è successo: nello sforzo di rendere i suoi personaggi realistici, Gruber si è lasciato prendere un tantino la mano, methinks. Non c’è dubbio, Jake Mishkin è un personaggio complesso… talmente complesso che ogni tanto le sue divagazioni a proposito di se stesso mettono in stallo la trama per una o due pagine. Talmente complesso che, nonostante il diluvio di tratti di carattere, non se ne trova uno con cui simpatizzare. So di avere detto che non è necessario rendere simpatici i personaggi, ma è invece necessarissimo consentire al lettore di identificarsi con qualcuno, sennò lo si perde per strada. E francamente, è meglio se il protagonista “antipatico” lo è almeno in grande stile. Ma Jake no. Jake è insopportabile, ed è pure meschino. Crosetti lo sarebbe meno, ma è così incomprensibilmente ossessionato dall’odiosa Carolyn Rolly che si perde ben presto ogni tentazione di simpatizzare con lui. Personalmente ho ancora più difficoltà ad immedesimarmi negli stupidi recidivi che negli antipatici. Richard Bracegirdle, la spia seicentesca, è difficile da individuare, con questa voce un poco fasulla. E tutti gli altri… È mai possibile che tutta la (numerosa) popolazione di questo libro abbia un passato che riesce ad essere al tempo stesso improbabile e un cliché? C’è l’autista palestinese che prima era un sollevatore di pesi; c’è il crittografo polacco che prima era un agente segreto; c’è il prete gesuita che prima era un soldato delle forze speciali; c’è la guru della finanza online che prima era un’olimpionica. Considerando anche la quantità di gente che non è affatto chi dice di essere, capirete che cosa intendo quando dico che il tutto è un nonnulla eccessivo.

E poi, quand’anche fossi disposta a perdonare tutto il resto per amore della bella scrittura, ecco che arriva il peccato capitale. L’idea di Shakespeare coinvolto suo malgrado in una cospirazione (che a sua volta non è nemmeno la cospirazione che sembra) non sarebbe male di per sé, ma ho difficoltà ad immaginare il buon Will che, in tutto candore, si fa persuadere a scrivere una tragedia sulla madre decapitata del suo attuale re (per di più mandata al patibolo dalla regina precedente). Utterly unpolitical, e se c’era qualcosa a cui Shakespeare era attento, erano gli umori della corona e del pubblico. Hm… Ma supponiamo ancora di ingoiare intera anche questa, e veniamo al finale. Considerate tutto un lungo libro di misteri, indagini, inseguimenti, sparatorie per strada, omicidi, sparizioni, sostituzioni di persona, ritrovamenti misteriosi, incendi, rapimenti, minacce, attentati… tutto sulle tracce di questo fantasmagorico lavoro shakespeariano mai, ma proprio mai, udito nominare prima. E come va a finire?

(Ecco, se avete anche solo la minima intenzione di leggere il libro… e non è che vi consigli di leggerlo, sia chiaro – ma se volete farlo, forse questo è un buon punto in cui fermarsi.

Otherwise, avanti Savoia.)

La tragedia si trova, ed è effettivamente di Shakespeare. È il ritrovamento letterario del millennio? Manda alle stelle la pressione arteriosa del mondo accademico globale? No, signori, nulla di tutto ciò. Nel più floscio degli anticlimax immaginabili, la cosa verrà probabilmente tenuta segreta, i nostri vastamente antipatici eroi si dividono il cospicuo bottino e se ne vanno, ciascuno per la sua strada, più ricchi di prima ma altrettanto depressi e/o idioti e/o odiosi, e il cielo è grigio sopra New York. Fine.

Soddisfacente? No, vero? Per niente: irritante, confuso e frustrante. Proprio la sensazione con cui ho chiuso The Book of Air and Shadows dopo averlo finito. A quel punto, persino la scrittura vellutata e liscia mi dava l’impressione di avere mangiato troppa mousse al cioccolato.

Peccato.

 

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Il Viaggio di Shakespeare

DaudetPoche cose mi rendono scettica come sentir descrivere un libro in termini di “non succede niente, ma è scritto così bene…” D’altronde, si sa, sono ossessionata dalla fabula. Per cui, se qualcuno mi avesse detto che ne Il Viaggio di Shakespeare di Léon Daudet “non succede quasi niente, ma è scritto così bene…” probabilmente non avrei sfiorato il libro in questione nemmeno con l’orlo della veste.

E avrei fatto malissimo.

Perché ancora non so se davvero non succeda niente (oddìo, fino a pagina 50 non abbiamo fatto molto più che attraversare la manica senza incidenti: non il più fulmineo degl’inizi), ma il linguaggio, il linguaggio… ah, il linguaggio! Gli squarci descrittivi, i personaggi tratteggiati di sghembo, il fluire dei minimi moti dell’immaginazione di Shakespeare! Questo William di vent’anni non pensa davvero: immagina. Non vede direttamente: tutto ciò che guarda passa attraverso la lente distorcente di una fantasia di poeta. E pensieri, mare, vento, ricordi, germi di personaggi si fondono in questo linguaggio iridescente, questa danza di ritmi cangianti. Absolutely dazzling.

Ecco il nostromo deforme, Calibano in boccio: “Solo ai suoi occhi, Fred oscurava l’estasi dorata della natura, il disco infinito, scintillante, azzurro e verde del cielo e dell’acqua confusi. Diventava lo spirito del male e del brutto, il destino rabbioso che sorveglia la culla dei bambini, i semi delgli alberi, i ciottoli che faranno la roccia, presagendo la loro distruzione nel germe stesso delle cose.”

Un temporale, anzi una Tempesta, giusto per movimentare il passaggio: “Il colore del mare era cambiato. Era nero come il cielo, attraversato da mobili strisce d’argento, perché il moto delle onde aumentava. La pioggia cessava di colpo per riprendere poi con maggior violenza e i lampi si succedevano senza tregua, in un frastuono assordante. Come uccelli d’oro, fendevano lo spazio. William ne osservava il volo furioso, la traiettoria fiammeggiante, la nascita, la morte e la traccia postuma del loro passaggio. Qualche volta una mosca azzurra, una scintilla violetta annunciavano questi grandi protagonisti, e lo scarto violento dell’aria sembrava infinito; a volte era un chiarore pallido seguito da un fremito dell’etere. Si manifestava così quella rabbia, cui corrispondeva quella delle onde, scosse, ritorte, attorcigliate, scarmigliate, in lunghe strisce e frange, in forma fantastica di cavalloni, tutta una galoppata di nebbia e di schiuma.”

Sì, lo so: oltre a Shakespeare stesso c’è Victor Hugo, qui, come nume tutelare. E devo dire che la traduzione di Donatella Dini è superlativa: tutto splende, barbaglia, crepita, luccica… devo assolutamente procurarmi l’originale e vedere da che cosa è partita e che cosa ne ha fatto.

La quarta di copertina dell’edizione Robin descrive questo libro come un romanzo picaresco, leggi “collezione d’incidenti”: William viaggerà per l’Europa raccogliendo impressioni destinate a dar vita ai suoi personaggi, e bisognerà vedere se, alla lunga, 365 pagine di questo reggeranno. Per ora, (nel senso della scorsa notte fino alle 3) mi accontento di essere dazzled.

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Feb 16, 2014 - elizabethana, musica    Commenti disabilitati su Sinfonia Shakespeariana ♫

Sinfonia Shakespeariana ♫

SiME in realtà cercavo tutt’altro. O quasi tutt’altro.

Ma guardate un po’ che cosa ho trovato cercando tutt’altro: la IV Sinfonia di Gösta Nystroem, detta La Shakespeariana.

L’orchestra è la Malmö Symphony, diretta da B. Tommy Andersson – a sua volta autore, tra l’altro, di un’opera da camera sulla vita di Shakespeare.

Buona domenica.

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Gen 22, 2014 - Storia&storie    Commenti disabilitati su Attenti Alla Cuoca

Attenti Alla Cuoca

The Kitchenmaid

“E con cosa potrei accendere la stufa oggi?”

Parliamo di altri tempi, tempi in cui la carta era poca e costosa, e non ci si accontentava di usarla una volta sola – e spesso nemmeno due. Ci si scriveva sopra da un lato, poi dall’altro, poi si tagliava a strisce e si usava per avvolgerci una presa di pepe o una fialetta di vetro*… E poi, semmai, ancora qualcos’altro – perché stiamo parlando di tempi più frugali.

Parliamo, ad esempio, del primo Settecento, quando a John Warburton, collezionista di antichità teatrali e storico del Vallo di Adriano, parve una buona idea lasciare in uno stipo della cucina una cinquantina di rarissimi manoscritti teatrali di età elisabettiana e giacobita – il cuore della sua collezione.

Eh già… in cucina.

Posso solo immaginare che gli sembrasse un posto più caldo e potenzialmente asciutto di altri, in cui la carta rischiasse meno muffa… Che potesse correre rischi di altra natura non dovette albeggiargli in mente – e un annetto più tardi se ne scese in cucina per recuperare i suoi amati manoscritti. Solo che lo stipo era quasi vuoto – ad eccezione di qualche triste decina di fogli abbandonati sul fondo.

Warburton sbiancò. Dove diavolo erano le sue carte?

Mrs. Baker, la cuoca, fece gli occhi tondi. Perché, perché, perché mai il padrone non le aveva detto che quelle cartacce vecchie erano importanti?

Cartacce… Warburton si sentì mancare. “Che cosa avete ne avete fatto, donna?” ruggì.

Mrs. Baker aggrottò la fronte e ci pensò un attimo. Con una parte aveva foderato gli stampi dei pasticci e delle torte – però non tutti.

“E il resto?” indagò Warburton, con un filo di voce, osando appena sperare che parte della collezione si potesse recuperare…

“Dio vi benedica, Signore – con il resto ho acceso la stufa,” lo gelò Mrs. Baker.

Le cronache non dicono se Mrs. Baker fosse licenziata in tronco – ma a dire il vero lo troverei molto ingiusto. Che poteva saperne lei, che il suo padrone avrebbe lasciato nella sua cucina un fascio di roba preziosissima, compresa una manciata di possibili inediti di Shakespeare e di Marlowe? Anzi, a dire il vero, che poteva saperne di Marlowe e di Shakespeare? Lei si era trovata per le mani una bella riserva di carta asciutta, e ne aveva fatto quel che si faceva all’epoca con la carta usata.**

John-stuart-mill 1E doveva essere una figlia ideale di Mrs. Baker quella cameriera che, un centinaio d’anni più tardi, quando entrò nello studio di John Stuart Mill per accendere il fuoco, trovò abbandonata in disordine sul tappeto una pila di fogli manoscritti coperti di correzioni, annotazioni e cancellature.

Robaccia da gettare, concluse la ragazza – e procedette a servirsene per accendere il fuoco nello studio e nelle altre camere…

Peccato che la robaccia fosse in realtà l’unica copia della prima stesura del primo volume di The French Revolution: A History – dello storico scozzese Thomas Carlyle.

E di nuovo, francamente, che poteva saperne lei, povera ragazza? Che poteva saperne che il suo padrone avrebbe lasciato sparso sul tappeto l’opus magnum del suo grande amico? O che il grande amico del suo padrone avrebbe affidato agl’incerti di un viaggio l’unica copia del suo lavoro?

Più che “Attenti alla cuoca”, forse questo post dovrebbe intitolarsi “Attenti all’uomo disordinato”…

Piccoli incidenti di cui ricordarsi, ad ogni modo, ogni volta che si è tentati di stupirsi che non ci siano giunti più manoscritti dei secoli passati. E ogni volta in cui si è tentati di abbandonare incustodita in giro per casa l’unica stesura di qualcosa che si sono impiegate molte ore e molta fatica a scrivere.

 

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* E questa era già un’abitudine antica, consolidata, più vecchia della carta e – sotto certi aspetti, benedetta. Pensate a tutti i frammenti di poeti, tragediografi e storici antichi che ci sono arrivati sotto forma di imbottitura dei vetri trasportati via terra o via nave…

** Non mettiamoci nemmeno a pensare alle implicazioni igieniche di un pasticcio di carne cotto in un manoscritto vecchio di centocinquant’anni e passato per chissà dove… Non mettiamoci nemmeno, volete?

 

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Esserci O Non Esserci Una Volta – In Una Galassia Lontana Lontana

ian doescher, shakespeare, guerre stellariQuesto non sarà un post lungo, ma contiene una chicca.

Ricordate quando si parlava di come nel mondo anglosassone Shakespeare si mantenga vivo anche a forza di elaborazioni, parodie, libri-game e, in generale, tutto fuorché la venerazione acritica e cieca?

Ecco, adesso Yahn mi segnala un altro esempio di questo – a mio timido avviso – invidiabilissimo rapporto con il Bardo. Si chiama William Shakespeare’s Star Wars (Verily, a new hope), ed è… be’, quel che dice l’etichetta.

Ian Doescher ha ri-raccontato la trilogia originale di Guerre Stellari in linguaggio shakespeariano. In versi. A cominciare dal prologo con la galassia lontana lontana, qui affidato al Coro – e via guerreggiando tra le galassie in pentametri giambici.

E ha trovato un editore in Quirk Books – che già in passato ha dimostrato di non aver particolare pudore nel fare il solletico ai classici…

Fantastica idea, spassosissima realizzazione – e poi vogliamo parlare della mentalità che sta dietro un’operazione del genere? La mentalità che, non mi stancherò di ripeterlo, salva i classici dal vegetare, venerati e non letti, sotto strati innumerevoli di vetro, polvere e fraintendimenti…

E sì, possiamo sperare, sospirare, e pregare le divinità preposte, ma intanto date un’occhiata al sito del libro, dove potete anche scaricare l’incipit (badate a R2-D2!) e vedere il trailer in cui la principessa Lei(l)a apostrofa l’assente jedi così: Obi Wan Kenobi, thou art my only hope!

E la Forza del Bardo sia con voi.

Scusatemi Se Da Sol Mi Presento

jeff vandermeer, prologhi, shakespeare, marlowe, shaw, dickens, manzoni,  Magari l’avrete letto in qualcuno di quegli articoli o post del genere “dieci cose che gli editor non sopportano”, o “dodici modi sicuri per farsi respingere un manoscritto”…

A suo tempo, credo di averne fatto uno anch’io, ma adesso non ho tempo di andarlo a cercare.

Anyway, se avete letto anche solo una lista del genere, odds are che ci abbiate trovato il Prologo.

E sapete che cosa vi dico, tanto da editor quanto da lettrice?

Che è proprio vero: di prologhi non se ne può più.

Che poi, sia chiaro, il Prologo in sé non ha nulla di male. Espediente narrativo mutuato dal teatro*, in base al quale un piccolo non-capitolo introduce atmosfera, precedenti, informazioni che verranno buone poi, chiarimenti dell’autore, esche… cose così.

E mi viene subito in mente una manciatina di prologhi teatrali che adoro –  lo shakespeariano O for a muse of fire dell’Enrico V, oppure l’orgogliosa rivendicazione del Tamerlano senza burle di Marlowe, o le  meditazioni di Shaw in fatto di storia prima di Cesare e Cleopatra…

Quanto a prologhi narrativi… scommetto che non vi stupirete se cito Dickens: it was the best of times, it was the worst of times… E lo scartafaccio secentesco dei Promessi Sposi. O la brevissima, folgorande invocazione agli spiriti che apre Entered from the sun. E, a dire il vero, poco di più.

Perché il fatto è che non è comunissimo trovare un prologo che faccia quel che deve fare: afferrare il lettore per la collottola e trascinarlo dentro la storia – possibilmente con una manciata di domande in tasca. E ciò benché i prologhi siano tornati di gran moda, soprattutto nelle storie di genere.

Non avete idea di quanti prologhi mi siano capitati fra le mani, con una protagonista narratrice che, mentre scappa o si nasconde, ritenendosi in punto di morte, comincia a ripensare a come è arrivata fin lì… Effetto Twilight, naturalmente – e sembra difficile convincere gli (o più spesso le) aspiranti che, qualsiasi cosa si pensi dei vampiri luccicanti, la cosa è già stata fatta, ripetutamente. E quindi adesso, quando vedo un prologo del genere, non sono più catturata, non mi domando che cosa ne sarà della nostra eroina, come ha fatto a trovarsi lì, chi la sta inseguendo… mi limito a levare gli occhi al cielo.

E lo stesso vale per i prologhi incomprensibili e/o aulicissimi, e magari drasticamente diversi dal primo capitolo. E tanto più se poi (e capita, oh se capita) la rilevanza del prologo rispetto alla storia si rivela labile o nulla…

Ho detto che voglio esserci trascinata, nella storia – ma con la forza, non con l’inganno.

E quindi? E quindi un tempo avevo fede nel prologo, e adesso non l’ho più. E quindi, quando sono tentata di iniziare una storia con un prologo, ci penso su due volte. E in genere decido che il prologo in realtà può benissimo diventare un primo capitolo. O, in alternativa, può essere capitozzato senza remore.

Ma se proprio non potessi farne a meno? Se avessi un antefatto che succede troppo tempo prima rispetto all’inizio della storia vera e propria? Se non povressi far funzionare la storia senza stabilire una premessa, seminare un indizio, preparare una sorpresa? Be’, allora credo che terrei presente la rana pescatrice dell’illustrazione lì in cima** (che, tra parentesi, è di Jeremy Zerfoss e viene da Wonderbook: The Illustrated Guide to Creating Imaginative Fiction di Jeff VaderMeer), e baderei bene a concepirlo come un’esca, il prologo: appetitoso, luminescente e irresistibile – proprio davanti alle fauci spalancate della mia storia.

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* E se andate a vedere il dizionario Treccani, difatti, ci trovate solo definizioni di ordine teatrale o figurato – ma nulla di narrativo, se non a margine della sezione “estens. non com.” del lemma.

** Cliccate (orrida parola) per vedere il pescione in tutto il suo istruttivo splendore.

Cui Prodest?

In calce a questo post sul più recente antistratfordiano d’assalto, Cily commentava così:

[Q]uando sento certe teorie mi trovo a chiedermi: a chi giova?
A chi importa? E se anche fosse così complicato, non aggiunge nulla alla bellezza degli scritti di Shakespeare.
Ahhh ma non li ha scritti lui… ok ma a chi importa?
[… L]e opere di Shakespeare sono belle, punto.
Anche se le ha scritte un altro e noi lo chiamiamo Shakespeare.
E io me lo chiedo sempre… a chi giova tutto questo stracercare?

E io le ho promesso di risponderle in un post – ed ecco che ci siamo, Cily.

shakespeare, authorship question, vero autorePer prima cosa, e a titolo introduttivo, potreste voler rileggere quest’altro post che riassume per sommi capi la questione. Sommissimi – sia chiaro: di recente mi sono imbattuta in una lista di 82 possibili Veri Autori, e non dev’essere completa, perché altrove ho sentito parlare di 127 nomi, e comunque tra gli 82 manca quanto meno il freudiano francese Jacques Pierre…

Per cui, sì: al mondo c’è un sacco di gente più o meno squadrellata, secondo cui il figlio del guantaio di Stratford non può avere scritto quelle che conosciamo come le opere di Shakespeare. Questa gente agisce con vari gradi di belligeranza, scrive libri, gira film, spulcia archivi, grida alla cospirazione e, in generale, si attira il disprezzo dell’ortodossia accademica.

E non dovete pensare che antistratfordiani si diventi solo chiudendosi in uno scantinato a fissare un facsimile del First Folio fino all’esaurimento nervoso: il gioco è popolare, e nel corso dei decenni ci ha giocato gente pittorescamente come Sigmund Freud, Gheddafi, Malcolm X e Derek Jacobi… 

E Cily si chiede: perché?

A che serve? A chi serve? Che cambia?shakespeare, authorship question, vero autore

Ora, la mia personale e ragionata opinione è: a nulla; a nessuno; proprio nulla. In materia sono del tutto agnostica – e anzi credo che sarei stratfordiana ortodossa, non fosse per le innegabili potenzialità narrative di alcune delle soluzioni alternative. Sarei ortodossa perché, francamente, la maggior parte delle soluzioni alternative può vantare a suo favore una manciata di coincidenze, più che bilanciate da falle grosse come il Warwickshire.

E però…

Però gli indovinelli sono da sempre il gioco preferito dell’umanità. E più l’indovinello è complicato, improbabile e outlandish, più l’umanità ci si diverte. Senza contare il fatto che, con la giusta distanza di secoli e grazie alle Cose Che Non Sapremo Mai Più, non c’è più o meno limite a quel che si può sostenere con qualche grado di plausibilità – o almeno d’interesse.

Ok: distanza di secoli, CCNSMP e faccia tosta, but you get my drift.

Indovinelli, domande, dubbi, sciarade, zone d’ombra, incongruenze apparenti, iridescenze inafferrabili.

shakespeare, authorship question, vero autoreCome diamine faceva il poco meglio che illetterato figlio del guantaio a sapere tutto quel che sa l’autore? Com’è che, opere e dovizie a parte, di lui non sappiamo quasi nulla? Come si concilia il prospero e placido mercante di Stratford (quello che alla moglie lascia il secondo miglior letto e non possiede nemmeno un libro) con l’uomo delle streghe, delle fate, delle guerre, degli amori e dei regicidi?

In realtà, ci sono risposte a queste domande, ma tendono ad essere incomplete e intessute di speculazioni ed estrapolazioni, esattamente come la maggior parte degli argomenti stratfordiani – né, badate bene, potrebbe essere altrimenti.

È un gioco di cui possediamo un certo numero di tessere e nessuna immagine guida. Le tessere si possono combinare in tanti modi diversi. È un gioco – e come tale, Cily, non è proprio necessario che giovi a qualcuno o a qualcosa.shakespeare, authorship question, vero autore

So che cito spesso questo libro, ma ve lo consiglio di nuovo: History Play, di Rodney Bolt. Ve lo consiglio perché è un’incantevole e intelligente dimostrazione di come si possa, volendo, sostenere tutto e il contrario di tutto. Ve lo consiglio perché incarna alla perfezionel’aspetto ludico della faccenda – e il suo fascino. Ve lo consiglio perché è scritto divinamente e perché vi lascia un sacco di idee nuove su quel che si può fare con la storia, sul rapporto tra storia, ricerca e romanzo, sulla sostanziale inafferrabilità della storia, sul gioco delle domande – e sì: anche sulla questione del Vero Autore che, come molte altre cose, acquisisce tutto un altro e più gradevole aspetto nel momento in cui si smette di prenderla mortalmente sul serio.

Set 19, 2013 - elizabethana, Storia&storie, teatro    Commenti disabilitati su Piccolo Bollettino Verso Sera

Piccolo Bollettino Verso Sera

E non è meraviglioso come, con un minimo di perseveranza, in quel pozzo di San Patrizio che è il Project Gutenberg si trovino non solo i numerosi volumi di The Principal Navigations, Voyages, Traffiques and Discoveries of the English Nation di Hakluyt – ma li si trovi anche nella versione che recupera la storia della presa di Cadice nel 1596, che in alcune edizioni manca per regia disapprovazione?

L’ho già detto in passato – e non una volta sola – ma adoro il Project Gutenberg.

“E a che serve, o Clarina, la presa di Cadice per i Sonetti?”

Serve. Abbiate fiducia.

Set 15, 2013 - elizabethana, teatro    Commenti disabilitati su E Alla Fine…

E Alla Fine…

E i viaggiatori stranieri non mancavano mai di andare a teatro – perché il teatro era una delle attrazioni della Londra elisabettiana. E poi scrivevano a casa della sconcertante abitudine che gli Isolani avevano di concludere anche le tragedie più tragiche con una giga, o qualche altra danza gaia e vivace…

E si capisce, che sia una produzione del Globe capitanata da Mark Rylance aiuta…

Buona domenica.