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Feb 4, 2015 - teatro    Commenti disabilitati su Prima Lettura

Prima Lettura

bNo, nulla di liturgico.

Solo che quando si scrive teatro c’è una specie di primo incontro col pubblico – un pubblico smaliziato ed esigente, con delle attese precise e un occhio tecnico.

È la prima lettura.

Compagnia riunita, seduta attorno al tavolo (oppure no), testo stampato e distribuito… Per lo più l’hanno già letto, magari ne hanno parlato. E magari anche voi ne avete parlato. Con un singolo attore o due, col regista… magari è anche piaciuto. Vi hanno fatto dei complimenti, avete cominciato a scambiare qualche idea. O magari invece c’è qualche dubbio, qualche riluttanza, un filo di freddezza dietro l’incoraggiamento generico. O magari le reazioni sono miste…

Ma non è la stessa cosa.

È teatro, e non si sa come funziona finché… be’, in realtà non lo si sa finché non è in scena – scene, luci, costumi e tutto – davanti a un pubblico vero. Però prima, molto prima – a volte persino prima che si sappia con certezza se in scena ci si arriverà mai, o almeno si cercherà di arrivarci – prima c’è la prima lettura.

In una sala prove, in un teatro vuoto, a casa di qualcuno – non importa. Compagnia seduta in cerchio, parti distribuite in via provvisoria, e si legge.Chekov

E poi nemmeno questo è del tutto significativo – o almeno non sempre. A volte ci vuole del tempo perché le cose funzionino davvero. Bisogna frequentare il testo, dice G. la Regista – e in effetti, ho ricordi da far rizzare i capelli dei primissimi tempi di Annibale, quando G. proprio non riusciva a farselo piacere, il mio generale… E c’era voluto del tempo prima che mi riconoscesse l’intensità della faccenda. Inutile a dirsi, la prima lettura non era stata una faccenda scintillante.

Invece lunedì sera, la prima lettura del mio play metashakespeariano… E guardate, le premesse erano un nonnulla incerte, con la compagnia divisa equamente tra entusiasti e dubbiosi, e G. nel secondo campo, e io nervosa – tanto più perché dovevo coprire un’assenza e leggere una parte anch’io… Ad essere del tutto franca, mi aspettavo che tutto si spiaccicasse sul pavimento con rumore di semolino freddo.

E in effetti, la prima pagina, pagina e mezza è andata un po’ così. Prima lettura, a freddo, gente dubbiosa… La prima cosa buffa che scrivo da secoli a questa parte, poi. Vuoi vedere che ho perso il knack, e a me sembrava buffa, mentre in realtà…

E invece no.

imagesMentre leggevamo in cerchio, prendendo ritmo un po’ per volta, uno dopo l’altro gli attori hanno cominciato ad entrare nello spirito della cosa. Hanno cominciato a divertirsi. Hanno cominciato a ridere. Abbiamo cominciato a ridere. Alla fine del primo atto, funzionava già. Balzellon-balzelloni, si capisce, perché era la prima lettura, diamine – ma funzionava.

E non vi dico il sollievo.

S-S, ovvero IGdB* è buffa. Funziona. E andrà in scena.

Col che non voglio dire che adesso sarà tutto in discesa, perché la condizione naturale del teatro, e gli ostacoli insormontabili, e il disastro imminente, eccetera eccetera… ma intanto, per cominciare, la Prima Lettura è superata.

Con le bandiere al vento e molte risate.

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* No, non sul serio. Vi farò sapere…

 

Gen 30, 2015 - libri, libri e libri, teatro    2 Comments

Il Teatro Secondo Marsh

Ngaio_Marsh_by_Henry_Herbert_Clifford_ca_1935,_cropCerti libri si leggono per il motivo indicato in copertina e nient’altro, per altri la faccenda è meno lineare.

Prendiamo, per esempio, i gialli di Ngaio Marsh.

Miss Marsh, con questo nome singolare, era un’eclettica signora neozelandese. Pittrice, attrice, regista, drama teacher – nonché una delle Signore del Giallo dell’Età dell’Oro. La sua grande passione era il teatro, e  in effetti, negli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta, fu una delle grandi personalità del teatro neozelandese, tanto coraggiosa da proporre Shakespeare in abiti moderni fin dal 1942, e da portare Pirandello in giro per tutta l’Australia (trionfalmente) nel 1949.

Per cui non ci stupiamo poi troppo che il suo detective, l’ispettore upper-class Roderick Alleyn, porti il cognome di un celebre attore elisabettiano, né che, dei trentadue gialli in cui Alleyn fa carriera da ispettore a soprintendente capo, un terzo abbondante abbia a che fare con teatri, attori, produttori,debutti,  registi, prove, drammaturghi e sciarade.

Quando scrive di teatro, Ngaio Marsh sa quel che fa: le sue ambientazioni sono vivide e convincenti, popolate di personaggi credibili e piene di incidenti e particolari che tradiscono una lunga vita sul palcoscenico e dietro le quinte, con i suoi alti e bassi. Non c’è niente di convenzionale o generico nei teatri e nei teatranti della Marsh – tanto che molte volte la descrizione della vita dietro le quinte rischia di prendere il sopravvento sul meccanismo omicidio-indagine-risoluzione… questo può essere un problema per chi è in cerca di un giallo vero e proprio, ma è una completa – e varia – delizia per chi non ha troppe obiezioni alla polvere di sipario.

Varia, sì, perché il teatro di Miss Marsh è offerto in una varietà di atmosfere – e per provarlo confronteremo due titoli.NGM

Opening Night (tradotto in Italia come Sangue in Palcoscenico) comincia con una giovane attrice neozelandese a Londra. Senza soldi e con i sogni di gloria un nonnulla appannati, la ragazza accetta un posto di assistente di camerino per una celebre attrice, a pochi giorni dal debutto di un nuovo dramma. Il teatro è vecchio e un po’ cadente, i camerini sono polverosi, l’autore è irragionevole, la produzione scricchiola e la tensione dietro le quinte si taglia con il coltello… Quando l’indispensabile omicidio arriva, noi lettori lo accogliamo più che altro come un’ulteriore complicazione in vista del tormentatissimo debutto. E magari l’Ispettore Alleyn è un po’ standard, ma l’attore-regista frustrato, l’ingenua in crisi di nervi, il caratterista ultracinquantenne che continua a interpretare giovanotti a forza di cerone, la stanzetta disordinata del custode, i corridoi semibui, la tensione, le rivalità, gli aggiustamenti dell’ultimo minuto, la creazione dello spettacolo per balzi e lampi, le tazze sporche nel lavandino e i fazzolettini per il trucco… tutto infinitamente più vivido e, alla fin fine, più efficace del lato poliziesco della faccenda.

Death at the Dolphin (Il Guanto Insanguinato) è tutt’altra faccenda. È una specie di fiabesca rappresentazione del sogno di ogni regista e/o autore che si rispetti. Come non invidiare Peregrine Jay, che per un caso fortunato si ritrova a ristrutturare e poi dirigere uno storico teatro londinese, con un budget pressoché illimitato e la possibilità di produrre la sua commedia di argomento shakespeariano? Death at the Dolphin è Cenerentola a teatro, con tanto di bizzarra fata madrina e… yes well, con tanto di omicidio – ma diciamo la verità: se mi affidassero un teatro a queste condizioni, che sarebbe mai un piccolo omicidio? E in effetti, anche Perry Jay… No, sono ingiusta: Perry è debitamente sconvolto, perché è un bravo ragazzo. Quello che non risente poi troppo dell’omicidio è l’atmosfera generale. Nonostante il sangue, il Dolphin è un luogo gaio e luminoso, e tra gli eccentrici membri della sua compagnia, alla peggio, volano le scintille. Il dialogo è brillante, la caratterizzazione piena di ironia, l’attesa del debutto piena di eccitazione.

Death-at-the-DolphinTutto un altro mondo rispetto a Opening Night – tanto che, per lungo tempo, ho creduto che il Dolphin fosse un lavoro giovanile, e Night il prodotto di anni più maturi e più disincantati… Magari prima e dopo la guerra, alla maniera in cui, in Agatha Christie, in età postbellica i villaggi di campagna e le magioni aristocratiche s’incupiscono. E invece no: DatD è del 1966, e ON del 1951. Si direbbe che Miss Marsh, bene avvezza agli alti e bassi della vita teatrale, fosse decisa ad esplorare gli uni e gli altri alla stessa maniera in cui si presentano: in nessun ordine particolare – men che meno secondo logica.

Nei primi anni Ottanta, mentre progettava di riprendere Perry Jay e il Dolphin per The Light Thickens (mai tradotto in Italia), la longeva Miss Marsh scrisse a un’amica che in realtà dubitava di trovare molto interesse, se non presso la gente di teatro… In realtà TLT, incentrata su una produzione del Macbeth, fu un altro successo. È una storia di omicidio-indagine-soluzione e, più significativamente, una storia di prove, alti e bassi, superstizioni teatrali, temperamenti difficili – e del modo in cui il teatro inglese è cambiato attraverso i decenni. Magari non è la tazza di tè di chiunque. Magari, in fatto di gialli, si trova di meglio altrove. Ma per un ritratto della vita dietro le quinte – con il sale aggiuntivo di un po’ di sangue versato – si può davvero fare di peggio che leggere i gialli teatrali di Ngaio Marsh.

 

 

Dic 10, 2014 - Natale, teatro    Commenti disabilitati su Natalizietà Miste

Natalizietà Miste

Di solito, qui su SEdS, la stagione natalizia comincia con Santa Lucia… Quest’anno siamo in anticipo di un paio di giorni per un motivo – o meglio, un invito per sabato 13 dicembre.

VSA14

Nell’ambito del Dicembre Ostigliese, Voci Sotto l’Albero è una serata di musica e teatro in vista del Natale, una di quelle cose che un tempo si definivano “per grandi e piccini”. C’è anche, lo vedete in fondo, Hic Sunt Histriones – che, con la regia della bravissima Gabriella Chiodarelli, rappresenta due piccole cose mie.

I Ninnoli di Vetro, Carola di Natale a Due Voci, è una piccola e (si spera) poetica faccenda di alberi di Natale, tradizioni, memoria, radici e infanzia…

– È a forma di violino, vedi?  Attenta, è di vetro sottilissimo…

– Ma è rotto… l’hai comprato già così?

– Sì, perché nessuno lo voleva, e prima o poi l’avrebbero gettato via.

E un albero di Natale è il protagonista assente anche in Christmas Joy, un atto unico miniature in cui un padre e due figlie cominciano a rimettere insieme i cocci di una felicità spezzata.

– Ma non è giusto! Che Natale è senza l’albero?

– Il primo Natale senza mamma. Papà…

– Papà è sempre arrabbiato, papà mi sgrida se canto, papà non vuole che tu faccia i biscotti, papà non è venuto al concerto della scuola… che cosa crede? Che non siamo già abbastanza tristi? O che cancellare il Natale farà tornare mamma?

I Ninnoli e Christmas Joy sono le due prime parti di quello che è destinato a diventare un piccolo trittico natalizio – ancora non so troppo bene in che lingua. Il terzo pezzo, Yes, Virginia, è un altro atto unico miniature, e per il momento esiste solo in Inglese… staremo a vedere che cosa farne.

Nel frattempo, se siete da queste parti e se vi va, vi aspetto a Ostiglia, al Teatro Monicelli, sabato 13 dicembre alle nove meno un quarto.

Nov 28, 2014 - scribblemania, teatro    6 Comments

Su Commissione

Mail:

Come fai a scrivere su commissione? Ne parli spesso, quindi penso che ti capiti normalmente. E io non capisco come fai: come riesci a ispirarti per un argomento che ti impone qualcun altro? E se poi il committente vuole dei cambiamenti che a te non vanno? Ma soprattutto, come fai se è un argomento che non ti interessa – o ti fa addirittura schifo?

Potrei cavarmela dicendo che l’ispirazione è sopravvalutata – ma in realtà è una buona domanda. Vediamo un po’.

CommissionSì, è vero: scrivo abbastanza spesso su commissione. Teatro, per lo più, ma anche l’occasionale racconto. Menzionerei anche gli articoli e le prefazioni – ma poi mi si direbbe che non contano… Il che, se vogliamo è un nonnulla bizzarro, perché a nessuno salterebbe in mente di sobbalzare all’idea che scriva articoli su commissione, giusto? Però la narrativa o il teatro… Apparentemente, il problema non è quello di piegare la mia scrittura alle necessità di una commissione. Il problema sorge con… la mia immaginazione?

E a questo punto farò bene a dire che non ho minimamente l’impressione di prostituire la mia immaginazione, la mia scrittura o alcunché d’altro. Ho scritto e scrivo su commissione – e, udite udite, tendo a trovarci gusto.

Si capisce, ci sono commissioni e commissioni. C’è chi arriva con richieste specificissime e non vuole nient’altro – ma di solito non funziona così. Soprattutto a teatro.

Le compagnie si fanno avanti con un’idea generale. Una richiesta. Un’esigenza. Di solito si comincia con qualcosa di vago tipo Acqua, Sonetti, Shakespeare, Anita Garibaldi. Virgilio… E qualche volta è un argomento che vi riempie di vibrante anticipazione, e qualche volta… er, no.

Acqua era parecchio generico. Anita Garibaldi la detesto con passione. Virgilio poco meglio.

E allora che si fa?

Quel che faccio io è una di due cose, a seconda del committente: o mi prendo un po’ di tempo per pensarci, o discuto fin da subito opzioni, possibilità e paletti. In realtà, spesso le due cose si combinano in ordine variabile. E a questo punto, in genere, succede. Succede che l’idea acquisisce un minimo di forma. Succede che capisco quel che voglio fare con l’argomento distante o poco congeniale. Succede che un’idea o due bussano alla porta, si presentano e si accampano per restare.

Perché mi ci sono voluti anni per capirlo, ma non c’è argomento così infelice, così vago, così ostico che non ci si possa trovare qualcosa – qualcosa da scrivere. Un taglio inaspettato. Una luce nuova su qualcosa che mi sta a cuore. Nella peggiore delle ipotesi, l’occasione di riesaminare un’avversione, e qualche volta correggere il tiro… E una volta trovato questo germoglio, non è più solo quel che vuole il committente: è diventato qualcosa chevoglio scrivere io.

Poi è chiaro – non sempre va bene. Ci sono i committenti irragionevoli, ci sono le incompatibilità di vedute, ci sono gli errori che si fanno, ci sono le diverse idee di non-negoziabilità, ci sono le ostinazioni… Il trucco, visto da qui, sembra risiedere in un certo grado di flessibilità, e nello scegliersi i committenti, più che le commissioni.

E alla fin fine, no: scrivere su commissione non è il male. Non è la tomba della creatività o dell’immaginazione. Potrei persino spingermi a dire che alcune delle mie cose migliori le ho scritte su commissione. Se non altro, perché spesso è una sfida. Un’occasione per lavorare fuori dalla propria zona di sicurezza – il genere di stimolo di cui chi scrive ha bisogno anche quando non lo sa.

 

Nov 26, 2014 - teatro    Commenti disabilitati su Quel Momento

Quel Momento

Extreme Wishful Thinking

Extreme Wishful Thinking

Succede in tutti i giri di prove.

A volte succede prima, a volte succede disperatamente tardi, a volte a mezza strada.

È il momento in cui, fra il caos, le arrabbiature, i colpi a vuoto, il nonsense, le risate, gli errori, le cose che non funzionano, i dubbi irrisolti, i litigi, le follie,le sedie che non sono mai dove dovrebbero essere e il cioccolato alla menta – il momento in cui, per la prima volta, qualcosa prende finalmente la forma giusta.

Emerge da tutti i pezzetti e pezzettini come da una crisalide e…

Yes, well. Non è come se, per magia, da quel momento tutto andasse bene – sia chiaro. In realtà poisi ritorna al caos, alle arrabbiature, ai colpi a vuoto e a tutto il resto, ma ci si torna con un senso di direzione nuovo e la benedetta impressione di sapere dove si sta andando.

O almeno di averne un’idea – e questo è tanto bello quanto istruttivo.

A volte succede quasi da sé, più spesso per deflagrazione. La Sfuriata del Regista è un metodo classico. Ho ricordi dell’anno in cui, a scuola di teatro, preparavamo l’Importanza di Chiamarsi Ernesto, e non funzionava. Era molliccio, era blando, era sbiaditello… Una sera andammo tutti a vedere un meraviglioso Marivaux fatto da allievi già diplomati. Favoloso sotto tutti gli aspetti – e, incidentalmente, l’occasione in cui decisi che prima o poi mi sarei occupata di disegno luci. L’indomani arrivammo a lezione galvanizzatissimi… e sempre mollicci, blandi e sbiaditelli.

E la regista ci fece un’urlata epica, e poi, approfittando del fatto che eravamo scossi, ci passò tutti alla griglia – insieme e separatamente.

Uh.

Sono passati vent’anni, e me ne ricordo con dettagliata vividezza. Ogni tanto me lo sogno ancora…

Ebbene, quello fu Il Momento.

Si sbloccò qualcosa che non ci eravamo nemmeno accorti che fosse bloccato. La commedia cominciò ad avere un abbozzo di forma – e poi servì ancora un sacco di duro lavoro. Ma la soddisfazione… non vi fate un’idea. O forse ve la fate. È come fare il gioco del quindici – e, tutto d’un tratto, si capisce il meccanismo.

Poi non sempre succede in maniera così tellurica. Per fortuna, credo. A volte basta provare in un posto diverso, a un’ora diversa. A volte basta cambiare la musica di scena. A volte il miracolo succede con qualche prop aggiunto, o un esercizio, o una chiacchierata a notte fonda … A volte sembra che succeda, poi invece l’indomani ci si ritrova al punto di prima, e bisogna ricominciare daccapo.

Non c’è modo di saperlo, e ogni volta è diverso – ma succede ogni volta, e ogni volta è una gioia.

Anche quando succede spaventosamente tardi. Perché poi domani si ricomincia – e non è affatto meno faticoso di prima. Anzi.

Però adesso sappiamo dove stiamo andando.

 

 

 

Nov 12, 2014 - elizabethana, teatro    2 Comments

I Sonetti Al D’Arco

Vi avevo detto che c’erano novità in arrivo per L’Uomo dei Sonetti, vero?

Ebbene, ci siamo: sono estremamente lieta di annunciarvi che lunedì 17, alle ore 21, al Teatrino d’Arco, Diego Fusari dell’Accademia Campogalliani porta in scena la versione breve – quella che, forse ve ne ricorderete, avevamo chiamato i Sonettini.

LocGenericaUglyQua+ILShakeFest+GaramondSi tratta, per l’appunto, della versione potata – a misura di Lunedì, senza Contesse Madri e senza folle multifunzione. Però la gente essenziale c’è tutta, e c’è la storia che mi sono divertita a tendere tra sonetto e sonetto…

Perché non c’è niente da fare: in realtà non sappiamo se i Sonetti raccontino una storia, se ci sia alcunché di autobiografico, se l’ordine in cui li conosciamo abbia nulla a che fare con quello in cui sono stati scritti… non sappiamo quasi nulla. Però la tentazione di prenderli come sono e vederci in trasparenza una storia è di quelle cui non si resiste.

Mettete loro in bocca le parole appassionate, acidognole, sublimi e petulanti dei Sonetti, illuminateli con la luce di taglio di una delle tante teorie su di loro, e il Sonettista, il Bel Giovane, la Bruna Signora e il Poeta rivale prendono vita – e non vogliono più saperne di essere soltanto una cifra senza volto.

In un certo senso, mi sono limitata a dar loro retta.

E magari l’Io Narrante dei Sonetti non è affatto Will Shakespeare da Stratford – però è molto più divertente fare finta che lo sia. Perché non venite a vedere di persona lunedì sera?

Oh, e se piace a Thalia e allo Spirito del Bardo, la versione completa non dovrebbe impiegare poi troppo tempo ad arrivare in scena…

Nov 5, 2014 - elizabethana, teatro    3 Comments

Zolfo, Incenso, Inchiostro

FaustusSe le teorie fossero rane, questo post sarebbe un girino.

Se non volete batraci per casa, chiamiamolo un rimuginamento per iscritto – a proposito del Doctor Faustus di Marlowe. Ora, vedete, il Faustus era popolarissimissimo. La Compagnia dell’Ammiraglio, il cui primattore Edward Alleyn aveva presumibilmente creato il ruolo, la rappresentò con gran profitto ventiré volte tra il 1594 e il 1597 – il che, considerando le lunghe e ripetute chiusure dei teatri in quel periodo, è una specie di record elisabettiano. Se diamo retta ad E. K. Chambers, le folle londinesi dell’ultimo decennio del Cinquecento erano disposte a spendere per questa storia più che per qualunque altra… D’altra parte, fin dal debutto, Faustus aveva mandato in terrorizzato visibilio il pubblico, con la sua combinazione di evocazioni diaboliche, teoria e scene comiche – conclusa da un finale di potenza sconvolgente. Prima di Marlowe, nessuno si era mai azzardato ad affrontare in questi termini questioni di anime vendute, inferno, paradiso, conoscenza e umanità…

Poi Marlowe fece la fine che sappiamo, e le sue opere gli sopravvissero con successo. Immagino che ne sarebbe stato soddisfatto. E forse si sarebbe divertito se avesse saputo che genere di leggende cominciò a germogliare abbastanza presto attorno al suo Faustus.

Nel 1632 William Prynne raccontò di un diavolo soprannumerario comparso in scena e… puf! – sparito in una nuvola di zolfo non appena gli attori cercarono di capire chi fosse l’intruso. Ora, di Prynne potremmo non preoccuparci nemmeno troppo: era un puritano accanito e ce l’aveva a morte con il teatro – e per di più nella prima metà del Seicento, in ambiente puritano, era assai di moda dipingere a tinte nigerrime il povero Kit e tutto quel che aveva a che fare con lui.

Tuttavia, Prynne non doveva essersi inventato completamente la storia. È probabile che l’avesse raccolta da qualche parte. Ed è vero che tra i capi d’accusa ai danni di Marlowe raccolti dallo spregevole Richard Baines c’era anche l’aver evocato diavoli nel bosco a Cambridge – ma dubito che la cosa fosse terribilmente risaputa. A quanto pare, piuttosto, fin dall’inizio girava la storia secondo cui il Faustus avrebbe contenuto veri incantesimi tratti da un vero grimorio…

Se Prynne aveva fatto succedere la sua apparizione durante una rappresentazione londinese, altre versioni della storia la volevano accaduta in provincia, durante una prova. A fine Seicento, il sempre pittoresco John Aubrey non si accontentava di dare la sua versione dell’incidente, ma ne faceva la causa del ritiro dalle scene di Alleyn. Faustusc

Insomma, la storia girava – e non posso fare a meno di immaginarla che nasce, si sussurra, si ricama, si abbellisce e si gonfia di bocca in bocca tra l’eccitabile pubblico londinese… Si parlava di diavoli per tutto il tempo, giusto? E gli attori vestiti di rosso apparivano e sparivano tra nuvole di fumo colorato, e quel Marlowe non era un bestemmiatore e un ateo?

Eppure (ed ecco che arriva il girino), mi chiedo se non ci fosse anche un altro motivo, più inconsapevole per il sorgere di queste storie… Perché è vero che Faustus, peccatore multiplo, superbo e venditore di anime, finisce esemplarmente punito all’inferno – ma non prima di avere detto e ascoltato una certa quantità di cose piuttosto incendiarie dal punto di vista teologico e religioso. Faustus ritiene la teologia tanto capziosa quanto inutile, vende la sua anima, interroga il diavolo per sapere com’è l’inferno, rifiuta varie possibilità di redenzione e, quando si pente, non trova la minima ombra di misericordia o perdono…

E quindi mi domando se il pubblico elisabettiano non sentisse un che di sulfureo in questa tragedia, e traducesse la percezione in apparizioni diaboliche, magia nera e spaventi vari.

Storie nate in reazione a una storia.

Si direbbe che Marlowe i diavoli li evocasse per davvero: quelli fittizi che il fittizio Faustus convocava in scena – e poi quelli metaforici creati nella mente degli spettatori.

 

 

Ott 26, 2014 - elizabethana, Storia&storie, teatro    Commenti disabilitati su Muse Di Fuoco

Muse Di Fuoco

MuseDal celeberrimo Henry V di Laurence Olivier, datato 1944, il celeberrimo prologo recitato da Leslie Banks.

O for a Muse of fire, that would ascend
The brightest heaven of invention,
A kingdom for a stage, princes to act
And monarchs to behold the swelling scene!…

Bello, vero? Eccolo nella traduzione di Goffredo Raponi:

Oh, aver qui una Musa tutto fuoco
per poterci levar sempre più in alto
nell’immaginazione,
verso più intense e luminose sfere!
E un regno per scenario,
principi per attori,
una platea di re per spettatori
di questa grande rappresentazione!
Vedremmo allora agir, come dal vero,
su questa scena, il bellicoso Enrico,
nel portamento simile ad un Marte,
recandosi al guinzaglio come cani
impazienti di agire al suo comando,
la fame, il ferro, il fuoco…
Perdonate, cortesi spettatori,
le nostre disadorne e anguste menti
se abbiamo osato presentarvi qui,
su questo nostro indegno palcoscenico,
sì grandioso argomento.
Come potrebbe mai questa platea
contenere nel suo ristretto spazio,
le sterminate campagne di Francia?
Come stipare in questa “O” di legno
pur solo gli elmi che tanto terrore
sparsero per il cielo di Azincourt?
E perciò, vi ripeto, perdonateci;
ma se può un numero, in breve spazio,
con uno sgorbio attestare un milione,
che sia concesso a noi, semplici zeri
d’un sì grande totale, stimolare
col nostro recitar le vostre menti.
Immaginate dunque che racchiusi
nella cinta di queste nostre mura
si trovino due regni assai potenti,
e che le loro contrapposte fronti
alte erigentesi su opposte sponde
separi un braccio di rischioso mare.
Sopperite alle nostre deficienze
con le risorse della vostra mente:
moltiplicate per mille ogni uomo,
e con l’aiuto della fantasia
createvi un poderoso esercito.
Quando udrete parlare di cavalli
pensate di veder cavalli veri
stampar l’orme dei lor superbi zoccoli
sopra il molle terreno che le accoglie.
Sarà così la vostra fantasia
a vestire di sfarzo i nostri re,
a menarli dall’uno all’altro luogo,
saltellando sul tempo,
e riducendo a un volger di clessidra
gli eventi occorsi lungo diversi anni;
e a questo fine vogliate permettere
a me, Coro, d’entrare in questa storia,
e di pregarvi qui, in veste di Prologo,
di ascoltar con benevola pazienza
il dramma che vi andiamo a presentare,
e con molta indulgenza giudicarlo.

E avete badato all’incantevole ricostruzione della Londra tardoelisabettiana e del Globe? Ah, non so. Adoro quest’aria di teatrale irrealtà, questa luce dorata, quest’atmosfera… A parte tutto il resto, la Londra elisabettiana è piacevole immaginarsela così.

E buona domenica.

Ott 19, 2014 - musica, teatro    Commenti disabilitati su Ruy Blas ♫

Ruy Blas ♫

gut2638Dunque, questo qui è il preludio all’opera di Filippo Marchetti – che credo poca gente viva abbia visto in teatro. Io sì. Fu la mia prima trasferta operistica (a Jesi), tanti anni fa, insieme al mio mentore. Fu un’avventura. Magari una volta o l’altra ne parliamo. Era la prima volta che quest’opera andava in scena da un secolo o giù di lì (nel senso letterale di cent’anni – non quello iperbolico di un sacco di tempo), e dubito che dopo sia stata ripresa spesso.

È tratta dal dramma omonimo di Victor Hugo, che è gonfio e purpureo quanto è possibile esserlo, ma è una di quelle cose che vanno lette una volta nella vita per capire come funzionava l’Ottocento.  O magari visto a teatro…

Il che, se volete, non è facilissimo, visto che il Ruy Blas non si mette in scena proprio tutte le settimane – men che meno in Italia. In Francia, però… Ed è vero che la Francia è in Francia, ma c’è sempre la Reticella. Ve l’ho mai detto che adoro la Reticella? Tra l’altro l’adoro perché, a voler fare esercizio di Francese, ci sono modi peggiori per passare una domenica pomeriggio* che guardarsi il Ruy Blas del Théàtre National Populaire, datato 2011, con la regia di Christian Schiaretti, le scene di Rudy Sabounghi e le luci di Julia Grand. A parte tutto il resto, un’occhiata la merita perché è bellissimo a vedersi.

E buona domenica!

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* E intendo “un pomeriggio” sul serio: al link trovate il primo di due video – e il tutto dura tre ore e noccioline…

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