Gen 19, 2018 - grilloleggente, teorie    Commenti disabilitati su Parodie

Parodie

Oggi SEdS non mi lascia inserire le immagini – ma che ne direste se, nonostante ciò, parlassimo di parodie?

Cominciamo chiarendo che la parodia è un genere vecchio come le colline, e non è necessariamente una “versione buffa di un originale” come tendiamo a considerarla. Letteralmente, parodia significa “trasposizione imitativa”, e consiste in qualsiasi aperta imitazione di uno stile, di un genere o di una convenzione letteraria – o musicale. In pratica è una rielaborazione il cui significato poggia in buona parte sulla riconoscibilità del testo originale.

In questo senso ampio, l’Ulisse di Joyce è una parodia dell’Odissea, di cui riprende e rielabora elementi narrativi, senza il minimo intento comico o caricaturale. Tuttavia, siccome il senso più comune e diffuso è quello della versione burlesca (o satirica) di un originale, è di quello che parliamo adesso.

Se vogliamo trovare una ur-parodia, probabilmente dobbiamo rifarci alla Batracomiomachia, poemetto databile tra il V e il I Secolo a.C., parodia omerica in cui rane e topi combattono una guerra di Troia in miniatura. Per secoli, nell’antichità, la Guerra delle Rane e dei Topi era stata attribuita a Omero – con tutte le difficoltà che ne conseguivano. L’attribuzione è decaduta, ma resta il fatto che almeno fino al XII Secolo si è attribuito ad Omero un sense of humour.

La Batracomiomachia, chiunque l’abbia scritta, non era un caso isolato: ci sono giunti i titoli di svariate opere analoghe, abbastanza per dedurne l’esistenza di un genere parodistico. Come accadono queste cose? Trovo piuttosto convincente la teoria propugnata dalla scuola narratologica bakthiniana, secondo cui la parodia è un’evoluzione naturale nel ciclo vitale di un genere letterario: un genere sviluppa convenzioni che col tempo vengono universalmente accettate e creano aspettative nei lettori; a questo punto, subentrano autori che sovvertono le convenzioni in questione, provocando il divertimento dei lettori. Questa lettura fa della parodia quasi più un fenomeno trans-genere che un genere vero e proprio, ma non complichiamoci la vita.

Di sicuro si divertivano a sovvertire le convenzioni i Goliardi medievali che parodiavano testi sacri e procedure giuridiche, e la letteratura propriamente detta non andava certo indenne: che cos’è il Sir Thopas dei Canterbury Tales se non una parodia dei poemi cavallereschi? Nella stessa vena, qualche secoletto più tardi, ecco il Don Quixote, che pur finendo con il trascendere di gran lunga, parte come una parodia*, la più semplice Secchia Rapita del Tassoni, The Knight of the Burning Pestle degli inseparabili Fletcher&Beaumont.

Non è detto che la parodia sia sempre il centro dell’opera in cui si trova: in Shakespeare compaiono spesso parodie a fini comici (Piramo e Tisbe nel Sogno di Una Notte di Mezza Estate), satirici (il Matto del Re Lear) o di contrasto drammatico (l’incontro tra Amleto e gli attori – anche se non è del tutto improbabile che qui il buon Will si stesse togliendo qualche sassolino di tra i denti); Swift prende ferocemente in mezzo la scienza dell’epoca con l’Accademia Scientifica di Laputa, e Jane Austen scaglia più di un dardo in direzione del romanzo gotico (particolarmente Mrs. Radcliffe) ne L’Abbazia di Northanger. Il tutto all’interno di lavori che non sono parodie nel loro insieme.

Non è infrequente che la parodia venga usata a fini di satira sociale o politica, più o meno tagliente. Si parlava di Swift, prima, e si possono ricordare anche G.B. Shaw con la sua spietatissima Eneide balcanica di Le Armi e l’Uomo, e Oscar Wilde che, con i matrimoni contrastati e le agnizioni de L’Importanza di Chiamarsi Ernesto si fa beffe della buona società inglese e di un certo tipo di letteratura insieme.

Con il Novecento, poi, non è sorprendente che la parodia abbia toccato e incluso altri generi espressivi, primo tra tutti il cinema, che ha cominciato assai presto nella sua storia a parodiare tanto se stesso quanto la letteratura. Da Stanlio e Ollio a Mel Brooks a Shrek, intere carriere si sono costruite sullo sbeffeggiamento più o meno amabile di generi, stili e convenzioni. Se dovessi elencare qualche predilezione personale, credo che citerei Brancaleone, Frankenstein Jr. e SpaceBalls.

E, parlando di altri mezzi, non dimenticherei la televisione (Lopez, Solenghi e Marchesini, anyone? Oppure Galaxy Quest**?) la radio, con le ripetutamente citate parodie dumasiane di Nizza&Morbelli, e i fumetti, con le meravigliose, bonarie e spassosissime parodie Disney in testa. L’Oro del Reno con Paperone/Wotan provvisto di un assistente chiamato Sidol, Aquì, Acà e Donde Està, nipoti nella Papernovela, e Macchia Nera nei panni dell’Innominabile nei Promessi Topi sono indelebilmente scolpiti nella mia memoria e ogni volta scatenano in me crisi di cachinni.

Il che non significa necessariamente che abbia sempre apprezzato le parodie: ricordo ancora l’inorridito choc della prima lettura di Un Americano alla Corte di Re Artù, quando a) ero molto, molto giovane; b) ero nel pieno della mia fase medievale. Attribuirei la reazione a un sense of humour ancora in fieri, ma devo confessare l’occasionale scarso divertimento di fronte a certune parodie.

Che se ne deve dedurre? Stando a Bakhtin, si direbbe che io non abbia ancora finito di stabilizzare le mie aspettative su determinati argomenti (in pratica, non avrei ancora assorbito abbastanza trattamenti narrativi del Barone Rosso, ad esempio, per trovare divertenti le distorsioni parodistiche del personaggio). E tuttavia non so: il mio Mentore Operistico era un melomane accanito che aveva assorbito dosi industriali d’opera per più di cinquant’anni. Se questo non aveva stabilizzato le sue aspettative, I don’t know what would have, eppure il MO non si divertiva per nulla a sentir ridere (o sorridere) dell’opera e delle sue convenzioni***.

Probabilmente, da un lato si può essere – per natura, educazione letteraria e abitudine – più o meno inclini ad apprezzare la parodia in sé; dall’altro forse Bakthin ha ragione e ciascuno di noi sviluppa le sue aspettative in modo settoriale, raggiungendo lo stadio della parodia in tempi diversi per generi diversi; dall’altro ancora, è possibile che tutti noi conserviamo un certo numero di argomenti e personaggi su cui restiamo e resteremo sempre poco spiritosi. Come dire… su questo non si scherza, poffarbacco!

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* Con l’effetto collaterale di offuscare in gran parte l’originale da cui era partito: chi si ricorda più di Amadigi da Gaula se non come dell’ispirazione del Don Quixote?

** Sì, d’accordo: questo è cinema che parodizza la televisione, ma fa lo stesso.

*** Poche volte ho sentito attempts at humour cadere con rumore di semolino spiaccicato come quando lessi al MO la parodia operistica di Nizza e Morbelli…

 

Cinque Romanzi Storici

historical-fiction-shelf1M. mi segnala questo articolo che elenca “i cinque romanzi storici che è un sacrilegio non leggere” – e mi chiede che ne penso…

Quel che ne penso è che, in realtà, ciascuno ha una personale piccolo pantheon di questo tipo, e come questi elenchi siano popolati dipende da un sacco di cose – dal gusto personale alla percezione del genere.

Per dire, l’elenco di Parole a Colori mi lascia freddina, e concordo su due titoli su cinque – in parte.

Sgombriamo il campo dicendo che con La Papessa mi sono annoiata, che Manfredi non mi piace tout court, e che La Cattedrale (gasp!) non l’ho letto – quindi in realtà non so: magari è meraviglioso. Gli altri due… Medicus e i Pilastri mi sono decisamente piaciuti. Li ho trovati avvincenti, ben scritti e ben documentati, e li ho divorati entrambi. Li considero irrinunciabili per il genere? Forse sì. Sono tra i miei Cinque? Probabilmente no.

E quali sono i miei Cinque?

Ebbene, non è facilissimo rispondere – ma diciamo di provarci. Ora, la lista di Parole a Colori contiene titoli relativamente recenti, dalla metà degli anni Ottanta in qua. Un criterio simile, va da sé, per me esclude un sacco di prediletti – ma, per amor di comparabilità, cercherò di attenermici. Per la stessa ragione vedrò di lasciar fuori titoli di natura metastorica in favore di romanzi propriamente detti. E allora, in nessun ordine particolare:

5UnsworthBarry Unsworth, Morality Play (1995) – tradotto in Italiano, mi pare, come “La Commedia della Vita”. La storia segue una troupe di attori girovaghi nell’Inghilterra medievale, in una favolosa metafora dell’arte come mezzo di conoscenza. Più attenta a suggerire la mentalità dell’epoca che ad ammassare dettagli storici, la narrazione è asciutta e vivida. 5Burgess

Anthony Burgess, A Dead Man in Deptford (1993) – tradotto come “Un Cadavere a Deptford”. Una voce narrante che è una meraviglia, un perfetto colore elisabettiano, un ritratto di un Kit Marlowe complicato e affascinante, ribaldo e assetato d’arte e conoscenza.

5BlytheRonald Blythe, The Assassin (2004) – non tradotto, per quanto ne so. John Felton, imprigionato alla Torre e condannato a morte (ma osannato dalla folla) per avere assassinato il corrotto duca di Buckingham, racconta la sua vicenda – da topo di biblioteca bennato a vendicatore. Stile denso e lucente, voce superlativa, e un mondo evocato con efficacia raffinata. 5Burton

Jessie Burton, The Miniaturist (2014) Il Miniaturista in Italiano. L’Amsterdam secentesca è riportata in vita con la minuta vividezza di un quadro fiammingo – di sfondo alle vicissitudini matrimoniali della giovane e ingenua Petronella – che, tra case di bambola e zucchero transoceanico, scopre come nulla sia mai come sembra.

5BryherBryher, The Player’s Boy (1953) – e sì, qui sto barando, perché torniamo indietro di parecchie decadi – ma trovo di non riuscire a lasciar fuori la malinconica storia di James Sands, mancato attore post-elisabettiano. Il modo in cui Bryher riesce a ricreare il tramonto di un’età dell’oro senza mai idealizzarla – se non negli occhi del suo protagonista – non è nulla men che struggente. Il fatto che ci riesca lasciando che tutti i suoi personaggi pensino come gente della loro epoca e rendendo il tutto rilevante per la sua (e la nostra), è cosa bella e ammirevolissima.

E… oh, che sorpresa! Cinque autori inglesi su cinque… Però soltanto due sono storie elisabettiane, avete notato? E in realtà mi accorgo che la scelta è provvisoria, e soprattutto i romanzi storici irrinunciabili sarebbero tanti di più… ma questo, dopo tutto, è un gioco.

E adesso tocca a voi, o Lettori – giochiamo: quali sono i vostri Cinque Romanzi Storici?

 

 

 

Gen 15, 2018 - libri, libri e libri, Vitarelle e Rotelle    Commenti disabilitati su Noi

Noi

Jensen.jpgPer varie ragioni – tutte piuttosto contorte – nel corso del finesettimana mi è capitato di riprendere in mano La Leggenda degli Annegati, di Carsten Jensen (Rizzoli, 2007), che è un libro singolare e affascinante.

La storia è epica, crudele e un po’ cupa, e segue le vicende di una cittadina danese e dei suoi abitanti, tutti pescatori e marinai, dal 1848 (con tutto quel che la data comporta) fino alla Seconda Guerra Mondiale. A Marstal le generazioni si susseguono, la gente nasce, muore, va in guerra e qualche volta ne torna, le navi vengono costruite, fendono il mare, fanno naufragio o vengono messe malinconicamente alla fonda. Il romanzo ha un passo e un respiro imponenti, quasi à la Conrad, ma non è questo il punto.

Le descrizioni sono nitide, taglienti e luminose, come se fossero incise nel vetro. Cose come “Holger Jepsen era piccolo, Era nerboruto come se lo scheletro fosse stato avvolto di canapi, ma era gracile a vedersi.” Oppure “Il mare era gelato, come se la piatta isola crescesse e cercasse di fondersi con tutte le isole circostanti”. Molto uso di similitudini, molta asciuttezza, molte sfumature di bianco, grigio, azzurro e nero, molta luce nordica, chiara e impietosa. Molto bello, ma nemmeno questo è il punto.

Dialoghi e personaggi suonano fuori dal tempo, ma non perché siano anacronistici: hanno la rigidità deliberata del ghiaccio, dei panneggi di stoffa pesante, o del linguaggio dei miti. Il risultato è efficace e vivido, ma neppure questo è ancora il punto.

Il punto… well, se volete conservarvi la sopresa forse vi conviene fermarvi qui, e tornare a discuterne con me dopo che avrete letto il libro.

Siete ancora qui?Sailors

Well, then, se non tenete particolarmente alla sorpresa – o se volete sapere che cosa aspettarvi, allora diciamo che il punto è quella prima persona plurale, quel “noi” che fino a pagina 501 funge da voce narrante. Chiunque sia il personaggio al centro della narrazione, nella scuola del villaggio come sulla tolda di un mercantile, il narratore è sempre Noi. Gli uomini di Marstal, l’equipaggio di una nave, il reggimento… Noi. È come se fosse sempre Marstal a raccontare, non tanto con i suoi vivi quanto i suoi morti: eccoli, gli annegati, perduti in mare mentre la città fioriva e decadeva, che ancora fanno causa comune con i vivi per raccontare le loro leggende. Ma quando il senso della comunità sparisce, quando la città perde le sue tradizioni, quando le navi a vapore scacciano dal mare i velieri, allora il coro narrante svanisce, sostituito da una narrazione in terza persona limitata. Allora, tra pagina 501 e 502, in qualche modo, il colore e il tono della storia cambiano. Non davvero, perché lo stile rimane lo stesso, ma la voce – ah, la voce è un’altra. O meglio: è una sola, dove prima era un coro  di sussurri. Se anche non ce n’eravamo accorti in precedenza, sentiamo immediatamente il cambiamento – del racconto e di tutto un mondo – nelle prime righe di pagina 502.

Tecnica, meravigliosa tecnica. Non avevo mai visto nulla del genere prima di leggere La Leggenda degli Annegati. Sembra una scelta stilistica da nulla, ma è di una potenza sconvolgente: oh, che cosa non si può fare con le parole, a patto di saperle usare!

Gen 12, 2018 - libri, libri e libri    Commenti disabilitati su L’Autore e il suo Personaggio

L’Autore e il suo Personaggio

CharactersIn linea teorica, non è strettamente necessario che all’autore piaccia il proprio protagonista. A volte, anzi, troppo entusiasmo autoriale nuoce alla causa dell’eroe/eroina, e quindi è sano mantenere un briciolo di distacco. Però la teoria è teoria e i cavoli son cavoli, come diceva gente più saggia di me, e i lettori hanno bisogno di identificarsi con qualcuno all’interno di un libro. Ancora una volta, non è detto che questo qualcuno debba essere il protagonista, ma siamo sinceri: abbiamo veramente voglia di leggere tutto un libro su qualcuno di veramente sgradevole? Non sto parlando degli spettacolari malvagi a grandezza più che naturale, tipo Riccardo III, Tamerlano il Grande o il Re Filippo di Alfieri, e nemmeno degli antagonisti irriducibili (o quasi) come l’Ispettore Javert, il nano Quilp o Scarpia nella Tosca.

Parlo proprio di protagonisti, le figure centrali di un romanzo – solo che l’autore non riesce a simpatizzare con loro. Oppure non ne ha la minima intenzione, e la faccenda finisce fuoribordo, perché in realtà, gli atteggiamenti degli autori verso i loro eroi sono estremamente vari, così com’è vario il grado di obnubilamento che gli atteggiamenti in questione producono.

Little NellNon vi è mai capitato di detestare un protagonista perché il suo malguidato autore era troppo ansioso di farvelo piacere? È uno dei miei seri problemi con il Piccolo Principe, Jonathan Livingstone, la Piccola Nell, Frodo Baggins e altra gente troppo buona per vivere – oppure troppo perfetta, tipo il Crichton di W.H. Ainsworth… Sono sempre tentata di attribuire questo genere di reazione alla cattiva caratterizzazione, ma ho difficoltà a cavarmela così con Dickens. Diciamo che all’epoca di The Old Curiosity Shop Dickens stesse corteggiando (con notevole successo) un certo mercato, scrivendo in fretta e divertendosi molto di più con Quilp, Dick Swiveller, la Marchesa e il resto della compagnia. Otherwise, quando l’autore passa più tempo a magnificarmi le doti del protagonista che a mostrarmelo all’opera, oppure quando lo caratterizza senza il minimo difetto, è più forte di me: detesto. Potrei anche rilevare che questo genere di magagna si riscontra più facilmente nei romanzi per fanciulli (chi non ha mai desiderato affogare il Piccolo Lord Fauntleroy nella vasca dei pesci rossi alzi la mano; e non iniziamo nemmeno a parlare di Sophie, Madame Céline e, in generale, tutti i buoni de La Bambinaia Francese della Pitzorno) e nelle biografie con propensioni agiografiche. Le fanciulle dei romanzi ottocenteschi à la Ginevra di Monreale e Lucy Davenne – così insipide e perfette – non contano, perché non sono nemmeno personaggi propriamente detti.

IsabelEppure si può adorare il proprio protagonista senza renderlo insopportabile, e Ritratto di Signora ne è la prova. Che Henry James abbia una speciale simpatia e tenerezza per Isabel Archer è evidente fin dal momento in cui l’Americanina appare per la prima volta, nel parco di una grande magione inglese, nella luce dorata e radente dell’ora del tè… Isabel è immediatamente adorabile, con la sua sete di bellezza, le sue ingenuità, la sua testardaggine, la sua franchezza americana e le sue maniere leggermente eccentriche. Dopodiché James ci renderà conto di ogni moto della sua mente e del suo animo con una finezza crudele, tutta luce e niente zucchero. Di Isabel vediamo tutto, slanci ed errori, difetti e maturazione, delusioni e sogni, e simpatizziamo con lei anche quando fa sciocchezze colossali – proprio perché le fa e poi ne affronta le conseguenze.

Stendhal è meno tenero con i suoi eroi. Oh, non che Henry James risparmi particolarmente la povera Isabel, ma quando leggiamo tra le pieghe dell’animo di Julien Sorel e di Fabrizio del Dongo sentiamo molta meno indulgenza da parte dell’autore. Stendhal simpatizza con i suoi giovanotti, in parte ne condivide o ricorda ambizioni, vanità, irrequietezze e aspirazioni, ma c’è una freddezza clinica nel modo in cui li offre allo sguardo del lettore che Henry James (pur facendo sostanzialmente la stessa cosa) non saprebbe mai riservare a Isabel.

Un distacco ancora maggiore è quello che Melville assume nei confronti del Capitano Ahab. Ahab è il protagonista del romanzo, e la sua ossessione ne è l’argomento, ma non è un caso che la storia sia narrata da Ishmael. È attraverso lo sguardo di Ishmael che il lettore e Melville osservano Achab e ne esplorano le azioni e la follia. A Melville non piace Ahab – gli piace la sua storia, cosa molto diversa. E noi ci identifichiamo con Ishmael, e guardiamo in rapito orrore mentre storia e personaggio si combinano in una faccenda di tragica, irragionevole grandiosità.

CookE poi invece ci sono cose come The Slicing Edge of Death, di Judith Cook – uno degli innumerevoli romanzi su Marlowe usciti nel 1993, a quattrocento anni dalla fatale rissa di Deptford… Cook, giornalista investigativa inglese, aveva una passione per il teatro elisabettiano, e ad anniversario incombente combinò (o, sospetto io, qualcuno le suggerì di combinare) le due cose in questo romanzo, il cui sottotitolo è, significativamente, Who killed Kit Marlowe? Ora, non so che cosa vi aspettiate voi da un romanzo intitolato con una citazione da un autore, (con tanto di sottotitolo esplicativo, metti mai che sfugga il riferimento) e con il supposto ritratto dell’autore stesso in copertina… Well, yes – ammetto che il modo in cui il ritratto in questione è riprodotto potrebbe dar da pensare – ma nel complesso io mi aspetto che l’autore stesso sia il protagonista. Ebbene, nel caso di TSEOD è difficile a dirsi. Il Marlowe di Cook è un uomo sgradevole, insensibile fino alla crudeltà, preoccupato soltanto dei suoi piaceri e della sua fama, livoroso, avido, meschino, vendicativo e sempre ubriaco. In tutto il libro,non mostra mai un singolo tratto che lo riscatti, le sue opinioni sembrano più tasso alcolico che coraggio intellettuale, e della sua vena poetica tutti gli altri personaggi hanno l’aria di non pensare granché. E non è nemmeno un villain, non foss’altro che per mancanza della più pallida ombra di grandezza.

È chiaro che alla Cook Marlowe non piace nemmeno un po’, nemmeno abbastanza da renderlo davvero malvagio, o notevole in qualche modo. Qualcun altro accenna sporadicamente alla sua intelligenza, ma dobbiamo fidarci sulla parola, perché non lo si vede comportarsi mai altro che stupidamente. Se leggessi questo libro senza sapere nient’altro di Christopher Marlowe, sarei disposta ad applaudire l’assassino promesso dal sottotitolo. A parte questo, tuttavia, con chi si suppone che m’identifichi in questo romanzo? Tutti (con l’eccezione di Robin Greene, che però si redime parzialmente prima di morire, e Lord Cecil, che ha l’attenuante della ragion di stato) vengono descritti come brave persone, ma gente di contorno. C’è un giovane attore fittizio che sembrerebbe dovere o poter essere il protagonista osservatore ma, quand’anche non fosse così sbiadito e bidimensionale com’è, i tre quarti della storia si svolgono fuori dal suo punto di vista…

Insomma, la signora Cook ha scritto un romanzo, ma si ha l’impressione che si sia dimenticata di equipaggiarlo di vari elementi fondamentali, come un punto di vista preciso, un personaggio con cui il lettore possa identificarsi e qualche redeeming quality per il protagonista nominale. Chiaramente, lei per prima non può soffrire il suo odioso Marlowe, e non sono davvero in grado di biasimarla, ma allora non posso fare a meno di domandarmi: perché disturbarsi* a scrivere un libro su un personaggio del quale si ha una pessima opinione che rasenta il disprezzo – e senza l’ombra di un meccanismo che consenta al lettore di digerire la storia?

Ironicamente, quasi tutti i protagonisti di Marlowe – Tamerlano il Grande, Faust, Barabas, il Duca di Guisa – sono mostri di ambizione, crudeltà e arroganza, ma sono ritratti con caratteri di grandezza che, se non li giustificano, ce li fanno tuttavia ammirare per pura sovrabbondanza vitale. Direi che il Marlowe della Cook è una specie di negazione di questo meccanismo, se non sospettassi piuttosto un’attitudine men che brillante* per la narrazione romanzesca, quarto centenario o meno – il cui risultato è, alas, una lettura sgradevole senza particolari redenzioni oblique o dirette.

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* Yes, well: “Judy, c’è il quarto centenario, e tu sai tutto in materia. Perché non scrivi un romanzo?”

** E sia ben chiaro: ottima saggista – ma…

 

Hodges nella Calza

HodgeShE bisogna dire che sia stata una brava bambina, perché nella calza della Befana (sort of) ho trovato una vecchia copia del bellissimo Shakespeare’s Theatre, di C.W. Hodges. E sarà anche un libro illustrato per fanciulli (vinse la Kate Greenaway Medal nel 1964), ma le meravigliose illustrazioni di Hodges non hanno età, trovo, e rimangono profondamente soddisfacenti. Sono proprio come ci immaginiamo l’epoca d’oro del teatro elisabettiano, o immaginiamo l’epoca d’oro del teatro elisabettiano così come facciamo per via di Hodges?

Vedute a volo d’uccello di città (Londra più di tutto, of course), teatri, cortili di locanda e piazze affollate, ricostruzioni di palcoscenici, folle stipate a guardare la scena, attori in prova, in viaggio o all’opera… Si comincia con una succinta storia del teatro dal Medio Evo al Seicento, e poi ci si concentra sull’epoca di Shakespeare: una meraviglia.

Hodges2La mia copia, venduta originariamente da French’s Theatre Bookshop quando era ancora a Covent Garden*, è stata stampata in Austria (chissà perché) per conto della Oxford University Press all’inizio degli anni Settanta. La sovraccoperta ha visto giorni migliori, qualche pagina ha delle pieghe in strane posizioni, e qualcuno ha sottolineato a matita due frasi: una ha a che fare con il carattere essenzialmente religioso all’origine del teatro, l’altra afferma una certa ineluttabile necessità del teatro fra le attività umane, in tutte le epoche e a tutte le latitudini – al di là di tutti i tentativi di soppressione o censura.

Una a pagina otto e una nell’ultima pagina, potrebbero essere due sottolineature fatte più o meno a caso e a titolo dimostrativo da un lettore non terribilmente attento – ma, prese insieme e alla luce di ciò che Hodges dice altrove sul teatro come laboratorio della coscienza umana, fanno quasi un ragionamento logico, nevvero?

Ah well, che devo dire? Sono molto, moto lieta di avere trovato Hodges nella calza.

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* Sadly, French’s non solo non è più a Covent Garden, ma non esiste proprio più, se non online. La primavera scorsa gli affitti troppo alti hanno fatto chiudere i battenti a quella che era LA libreria teatrale di Londra fin da metà Ottocento.

Gen 8, 2018 - angurie    Commenti disabilitati su Letargo…

Letargo…

Se stessi bene, oggi segnerebbe il ritorno alla normalità postnatalizia.

Stando le cose come stanno… credo che me ne tornerò in letargo per un paio di giorni.

Letargo

Abbiate pazienza. Ci sentiamo mercoledì, volete?

Gen 5, 2018 - elizabethana, teatro    Commenti disabilitati su La Dodicesima Notte

La Dodicesima Notte

Contando dalla sera del giorno di Natale (e non dalla notte di Natale stessa, ciò che ho sempre trovato lievemente bizzarro) la Dodicesima Notte è la vigilia dell’Epifania.

shakespeare, la dodicesima notte, epifaniaNell’Inghilterra Tudor-elisabettian-giacobina, quella che era stata una festività cattolica si era trasformata in un’occasione piuttosto carnevalesca, che comportava danze, vino e burle, l’elezione di un Lord Of Misrule e una licenza non scritta per domestici, apprendisti e dipendenti in genere a beffare i propri padroni – o addirittura travestirsi come loro.

La faccenda era vastamente diffusa e popolare, e giungeva fino a corte. Apparentemente a Shakespeare fu commissionata una commedia da rappresentare come intrattenimento per la festa reale la sera dell’Epifania del 1601 o 1602.

Come spesso accade, di questa prima e titolata rappresentazione non si sa nulla di preciso. shakespeare, la dodicesima notte, epifaniaLa prima data che abbiamo è quella del 20 febbraio 1602, quando la XIIN venne rappresentata al Temple, la scuola di Diritto di Londra. La domanda diventa dunque: quanto tempo passava prima che i futuri giurisperiti potessero divertirsi con un intrattenimento dopo che questo aveva debuttato a corte? Sei settimane? Un anno abbondante? Non si sa – non più, o forse non ancora.

Ad ogni modo, la commedia era perfettamente adatta all’occasione: una vicenda di identità e generi scambiate, gemelli identici, corteggiamenti incrociati, agnizioni, travestimenti e, soprattutto, burle. Quella che dovrebbe essere la vicenda principale, i casi dei gemelli Sebastian e Viola/Cesario, naufraghi in Illiria (of all places!) è sovrastata dalla trama comica, una cospirazione tra servi e padroni ai danni del detestabile intendente Malvolio. Tutto finisce bene – ma in carattere assai dodicenottesco, con il duca e la contessa che sposano un naufrago ciascuno, e un baronetto che sposa una dama di compagnia, con scarsa soddisfazione dell’intendente beffato.

Una favola buffa e rassicurante, in cui, dopo tutto, si vedeva che sovvertimento dell’ordine sociale, beffe e confusioni di genere avevano il loro spazio – nel cerchio incantato e invalicabile di  una notte di festa e di un palcoscenico.

shakespeare,la dodicesima notte,epifaniaQui – per la vostra calza – trovate la pagina shakespeariana del Progetto Manuzio. Scendete un po’ per trovare La Dodicesima Notte scaricabile in PDF, TXT o RTF. Buona Epifania!

Gen 3, 2018 - considerazioni sparse, tradizioni    Commenti disabilitati su Diciotto!

Diciotto!

2018Ossignore… ri-gennaio!

Sì, sì – un’altra volta, e non ci si può fare assolutamente nulla, se non iniziare l’agenda nuova e… ballare? Non la migliore delle metafore, nel mio maldestro caso – but never mind. Tutto sommato, suona ragionevolmente bene, soprattutto dopo avere contemplato quella meraviglia che è Roberto Bolle l’altra sera.

E allora, o Diciotto, apriamo le danze.

No, wait: prima ricapitoliamo un attimo. Com’è andata con il Diciassette? Non del tutto male, direi.

Volevo condurre il romanzo in qualche genere di porto isolano e, come dicevasi, non è precisamente approdato, ma ha ricevuto promettenti rassicurazioni sulla rotta.

Jan18Volevo darmi da fare in fatto di teatro, e… well. Il Fantasma di Canterville, il Pasticciaccio Brutto, l’Edipo, l’ingresso da socia nell’Accademia Campogalliani, il corso di scrittura teatrale, la prima stesura di un altro play nuovo che non ha nemmeno un titolo… Sì, credo che il Diciassette conti decisamente come un buon anno, theatre-wise.

E volevo uscire un pochino dai sentieri battuti (i miei sentieri battuti, per cominciare), e anche qui non posso dirmi del tutto insoddisfatta, considerando tutto quanto: ho cominciato a scrivere in un campo interamente nuovo – il che è stato complicato, stimolante ed estremamente istruttivo; ho seguito un e-corso di tecnica poetica del CalArt, e vale la descrizione al punto precedente; ho sceneggiato un piccolo cortometraggio sulla lotta allo spreco alimentare; ho lavorato alla riduzione teatrale di un romanzo che non mi è mai piaciuto granché, e l’ho guardato trasformarsi nel più intenso workshop della mia vita; mi sono riaccostata dopo più di vent’anni alla tragedia greca – e ci ho trovato gusto… Sì, direi che anche qui ci siamo.

E questo significa due e mezzo su tre. Non male, direi.

E adesso, Diciotto. Che fare di quest’anno tutto nuovo e intonso?

  • 2018Dance

Oh dear. Ma sapete che in definitiva le intenzioni sono ancora quelle dell’anno passato? Il romanzo, il teatro, i sentieri meno battuti… Ha funzionato bene, e sono tutte cose su cui vale la pena di lavorare ancora e far di meglio. Quindi, perché no?

Non sono sicura che valga del tutto, ma tant’è. Aggiungiamoci la ferma intenzione di non trascurare gli amici come ho vergognosamente fatto per tutto il Diciassette, presa com’ero ad occuparmi del romanzo e del teatro e a trotterellare per sentieri inusuali. E anche l’intenzione di occuparmi un po’ di più di faccende pratiche e quotidiane. Oh – e combinare qualcosa qualcosa con SEdS, una buona volta. Suona come un anno, che dite?

E allora ci siamo. Diciotto, a noi due: danziamo!

E voi, o Lettori? Che intenzioni avete?

 

Dic 29, 2017 - libri, libri e libri, Storia&storie    Commenti disabilitati su The Capricorn Bracelet

The Capricorn Bracelet

The capricorn BraceletAl volo per dirvi che The Capricorn Bracelet è andato come l’acqua nel giro di un pomeriggio. Ottima acqua.

Sei racconti, sei soldati romani – e viepiù britannicizzati, da legionari a exploratores lungo il Vallo – attraverso i secoli, da Boudicca alla caduta di Massimiano. Le meraviglie principali sono sei voci diverse con un’ombra di aria di famiglia, e il senso del tempo, gli alti e bassi di Roma, l’ombra di un’epoca che passa e declina nelle piccole cose quotidiane – perché questi soldati che gradualmente dimenticano di appartenere alla gens Calpurnia sono gente che pensa, ma non con il senno di poi della loro autrice… Rosemary Sutcliff sapeva quel che faceva.

E mi è piaciuto scoprire che queste storie erano nate in origine come scripts radiofonici per la BBC: una sorta di Ora dei Ragazzi, badate. Poi, a programma terminato, e desiderando un po’ più di spazio per muovercisi, Miss Sutcliff riprese i suoi sei Romani e ne fece una raccolta di racconti.

PuckKipling è nell’aria? Assolutamente. Puck of Pook’s Hill aleggia sui racconti come uno spirito protettore. L’idea d’altra parte alla Sutcliff venne da lì, e l’omaggio è dichiarato. C’è persino un irriverente cavalleggero chiamato Pertinax, come l’amico del kiplingiano Parnesius. E c’è quella vaga malinconia di fondo, che in Kipling veniva dall’innocenza di Dan e Una, temperata appena dai libri di scuola, di fronte al candore senza prescienza ovvia di Parnesius. Anche Kipling, goes without saying, sapeva quel che faceva.

Con Miss Sutcliff, in fondo, Dan e Una siamo noi. Noi lettori, e i ragazzini inglesi che ascoltavano queste storie alla radio, lette da qualcuno di quei magnifici attori di cui l’Isoletta sembra avere riserve innumeri…

Ragazzini e adulti, immagino, perché – com’era abitudine di gente come Sutcliff e Kipling – non c’è nulla in queste storie che suoni condiscendente o predigerito o smaccatamente didattico o in alcun modo da bambini. Solo il fascino di belle storie avvincenti e ben narrate… Doveva esser bello essere fanciulli in un’epoca in cui gli scrittori trattavano i lettori fanciulli come creature senzienti, cui offrire domande anziché risposte già pronte, don’t you think?

Dic 27, 2017 - libri, libri e libri, Natale, tradizioni    Commenti disabilitati su Reading Days

Reading Days

PileofBooksSe nevicasse sarebbe meglio… diciamo la verità: sarebbe perfetto. Ma in mancanza di neve, anche le giornate bigie e ventose vanno tutt’altro che male per i miei Reading Days.

Tecnicamente sono iniziati ieri – ma ieri mi sono dedicata a finire i due libri che devo recensire per la HNS e con i quali, come mio irritante solito, mi sono ridotta all’ultimo momento utile. Non che sia stato tragico: uno dei due era gradevolmente innocuo, e l’altro notevole e ne riparleremo.

Ma oggi – oggi è il primo vero e proprio Reading Day…

Ecco, a dire il vero ci sono ancora di mezzo gli ultimissimi ritocchi al romanzo, ma nondimeno. E quindi oggi si comincia con The Capricorn Bracelet, trovato sotto l’albero, perché senza un pochino di Rosemary Sutcliff non sarebbe vacanza, e perché è una raccolta di racconti sui Romani in Britannia, molto à la Kipling.

Pilesof BooksSotto l’albero c’era anche At Day’s Close, in cui Roger Ekirch racconta il rapporto dell’umanità con la notte attraverso i secoli e i millenni – e anche questo promette bene assai.

E poi c’era Her Majesty’s Will – un’avventura di spionaggio elisabettiano, scritta da David Blixt che, da bravo attore shakespeariano, si è anche divertito a portare il suo romanzo in scena. E poi una raccolta di racconti di Harlan Ellison, giunta con criptiche assicurazioni che mi rendono curiosissima. E poi…

E poi sul Kindle ci sarebbero metapile di cose che aspettano di essere lette, ma farò bene a fermarmi qui, perché non è come se i Reading Days potessero durare fino al disgelo… Sarebbe bello, però, non vi pare? Sapete quei discorsi sul ritrovarsi su un’isola deserta con nient’altro che libri – cartacei or otherwise? Be’, ecco: considerando le mie scarse attitudini pratiche e la mia seria fobia per gli insetti, non credo che, spiaggiata su un’isola deserta, saprei sopravvivere abbastanza a lungo da dedicarmi alla lettura. A meno che non fosse un’isola shakespeariana, dotata di un Ariel molto efficiente… Cottage2

Ma, tutto considerato, all’isola in questione preferirei di gran lunga un cottage immerso nella neve. Voglio dire, si può essere bloccati dalla neve in posti ben equipaggiati, con provviste, legna da ardere, tè in abbondanza – e magari anche un generatore di corrente. E libri non rovinati dall’acqua salata.

Per cui niente isole, grazie tante: un cottage nella neve…

Ma qui non nevica, alas. Al massimo piove e tira vento – ma ce lo faremo bastare.

Fate conto che nei prossimi giorni non ci sia granché, volete?

Sto leggendo.

 

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