Christmas Joy, che è andato in scena giovedì scorso – e del quale per ora non ho nemmeno una foto – l’avevo scritto già nel 2011 e poi, per una serie di circostanze, era stato accantonato fino al debutto del 2014. Nel riprenderlo in mano per Storie Sotto l’Albero mi sono ricordata che scriverlo era stata un’esperienza interessante.
Hic Sunt Histriones mi aveva richiesto una piccola cosa natalizia in termini molto stretti – per una serata benefica, tanto per cambiare. Prima avevo detto di no*, poi lottato per qualche giorno con i sensi di colpa, poi deciso che potevo fare almeno un tentativo. Avevo trovato trovato e scartato un paio di pur promettenti idee** e infine mia madre se n’era uscita con questo: “Perché non adatti qualche racconto natalizio? Ne hai scritti – puoi fingere di no, ma so che ne hai scritti, because I’m your mother, and I know.”
Naturalmente aveva ragione. Non trovate irritante la maniera in cui le madri tendono ad avere ragione? Per cui pescai dalle più buie profondità del mio disco rigido un racconto scritto – pensate un po’ – sotto Natale 2000, e mi applicai al compito di farne un atto unico miniature della durata di una ventina di minuti – scarsi.
E per prima cosa constatai (con una certa soddisfazione, lo ammetto) che diciotto anni fa scrivevo già storie provviste della canonica dotazione di 1 Inizio, 1 Mezzo e 1 Fine. So far so good.
E c’erano anche personaggi che volevano qualcosa e non potevano averlo, e un’ambientazione passabilmente insolita, e un lieto fine che, pur non inaspettato, era in carattere con la natura natalizia della storia***… Tutto bene, allora?
No. Tutt’altro.
Tutt’altro, per una duplice serie di motivi. Serie numero uno – di ordine pratico: avevo richieste molto specifiche riguardo a che genere di personaggi mettere in scena – e le richieste non corrispondevano affatto alla popolazione originaria del racconto.
Serie numero due – di ordine narrativo: considerando le variazioni di personaggi, mi resi conto che c’era spazio per una buona dose di conflitto in più. Di fronte ai personaggi che volevano qualcosa senza poterlo avere, infatti, c’erano i supposti protagonisti, che di per sé volevano solo aiutare i primi… ma se avessero avuto qualcosa da ottenere a loro volta?
E così, per una combinazione di necessità della compagnia e necessità narrative, ai tre cugini adulti del racconto si sostituirono un padre inacidito dalla recente vedovanza e le sue due figlie alle prese col primo Natale senza mamma. A parte tutto il resto, l’appeal universale degli orfani è cosa nota, giusto?
Quindi, all’improvviso mi ritrovavo persino con due archi narrativi, anche se uno era un archetto molto dipendente dalla risoluzione dell’altro – e tuttavia complessità aplenty, per una ventina di minuti. E proprio sulla ventina di minuti emerse un’ulteriore magagna. Nel racconto i personaggi col problema originario (chiamiamoli Gruppo B) erano degli estranei, e le loro motivazioni, circostanze e precedenti andavano spiegati in una situazione che Jeffrey Sweet definirebbe di Low Context. Vale a dire, semplificando, che i personaggi del Gruppo A non potevano saperne nulla, a meno di esplicite e dettagliate informazioni. Di nuovo, il Low Context non è un male di per sé, ma richiede molto più spazio e lascia poco margine per il sottotesto – al contrario di tutto ciò che si può implicare fra personaggi che si muovono su terreno comune, ovvero in situazione di High Context.
Ragion per cui i visitatori del Gruppo B furono promossi da estranei a conoscenti, e il problema trasferito da un paesetto mai sentito nominare prima al paesetto in cui vivevano entrambi i gruppi, liberandomi dalla necessità di condensare al massimo un sacco di informazioni mantenendole comprensibili. Il fatto poi che tra tutto ciò che si poteva implicare tra compaesani ci fossero accenni alla morte della madre e alla situazione conseguente, era tutta glassa sulla torta.
Infine, per questioni di ritmo, contrassi tutta la vicenda nel giro di tre giorni – anziché in un paio di settimane – e cambiai la maggior parte dei nomi inglesi in altri meno impronunciabili.***
Alla fine l’atto unico (miniature) era solo vagamente imparentato con il racconto da cui ero partita, ma era molto più teatrale. Per quanto il racconto non fosse male in partenza, la storia si era fatta più solida dal punto di vista narrativo, il ritmo era tutt’altra cosa, i personaggi avevano motivazioni più impellenti… Sono certa che, se adesso facessi il percorso inverso e adattassi l’atto unico in racconto, ne uscirebbe qualcosa che funziona molto meglio dell’originale. Anzi: pensandoci bene, non è detto che non lo faccia.
Morale 1: nel corso degli anni s’impara – e per fortuna. Morale 2: il Test del Palcoscenico può davvero fare miracoli per una storia: se dovessi portarla in teatro, funzionerebbe? E se no, perché? Morale 3: non ho mai più guardato allo stesso modo gli adattamenti cinematografici dei libri e le libertà che gli sceneggiatori si prendono.
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* “Non ho tempo, davvero, non ho tempo… già così vado a dormire alle quattro del mattino. Non ci sto dietro. Mi dispiace, davvero, ma questa volta è no. Dovete dirmelo prima, non è come mettere gli ingredienti nel forno e tirar fuori la torta…” Sono sicura che avete un’idea.
** Promettenti ma tristi. Che posso farci? Il Natale m’ispira storie dallo strappacuore al semitragico. Che in linea generale potrebbe anche non andare del tutto male, se non fosse destinato a un pubblico di famigliole a metà dicembre…
*** E sì: è ambientato in Inghilterra. Dite la verità, da me non ve lo sareste mai aspettato, vero?