Ott 5, 2018 - Poesia    Commenti disabilitati su Autunno Poetico

Autunno Poetico

Gainsborough

Gainsborough

Questo post è per M.

Parlavasi di poesie d’autunno, stagione che ha sempre ispirato grandemente i poeti. Non dico che i prosatori non si siano mai dati da fare, perché foglie cadenti, giorni sempre più corti e quant’altro si prestano ad ogni genere di trattamento metaforico, simbolico o semplicemente decorativo, e pochi romanzi sono completi senza una buona scena autunnale, ma senza dubbio le citazioni che saltano alla mente per prime sono poetiche.

Prima di tutto, credo, Ungaretti, col suo Soldati: si sta come d’autunno sugli alberi le foglie…

Ma subito dopo la povera foglia frale dell’Imitazione di Leopardi, Settembre, andiamo, è tempo di migrare con I Pastori di D’Annunzio, San Martino di Carducci, con la sua nebbia che sale piovviginando agl’irti colli (e pensandoci, dev’esserci anche Alla Stazione Una Mattina d’Autunno, di cui confesso di ricordare solo la caduta di foglie), e la fredda estate dei morti di Pascoli, anche se  Novembre forse oggi è ancora un nonnulla prematura.

Autumn-GoldGrimshaw

Grimshaw

In qualche modo sarebbe stato innaturale che Gozzano non si occupasse di autunno, e infatti lo ha fatto più di una volta: per i vetri Autunno inonda la bella stanza delle luci estreme ne La Falce, Sire Autunno vuota munifico la sua cornucopia ne Il Frutteto, mentre La Signorina Felicita pensa i bei giorni di un autunno addietro, e l’elenco sarebbe lungo, se si volesse.

Fuori d’Italia, tutti ricordiamo i lunghi singhiozzi dei violini d’autunno di Verlaine forse più per il celebre messaggio in codice del D-Day che per la Chanson d’Automne in sé, e poi ci sono le gelide tenebre e i colpi funerei della legna spaccata nel Chant d’Automne di Baudelaire, e Mallarmé che chiama le nebbie sulle paludi livide – e in compenso Camus dice che l’autunno è una seconda primavera in cui ogni foglia è un fiore: lo so, è prosa, ma ci voleva proprio. Chi avrebbe mai pensato di dover ricorrere a Camus per allietare un po’ l’atmosfera?

arcimboldoautumn

Arcimboldo

E poi veniamo al mondo anglosassone, cominciando con Emily Dickinson, che in Autumn indossa un gioiello per essere in tono con i vestiti scarlatti dei campi, le gaie sciarpe degli aceri e le guance rubiconde delle bacche – e con Stevenson e i suoi Fuochi d’Autunno, che fioriscono dopo l’estate a punteggiare il canto delle stagioni… Nei boschi gialli d’autunno, invece, Robert Frost esita al bivio in The Road not Taken. E anche l’autunno di Yeats, è giallo: giallo e triste come le foglie umide delle fragole selvatiche in The Falling of Leaves, mentre The Autumn di Elizabeth Barret Browning è una faccenda di vento nei boschi e torrenti gonfi. L’autunno di William Blake è un personaggio carico di frutti e dalla voce allegra che fa danzare le fanciulle, ma è macchiato del sangue dell’uva (To Autumn), e quello di Keats è un tempo di foschie, il caro amico del sole che fa maturare le mele sotto il cui peso si piega l’albero accanto al cottage. E poi (in ordine del tutto sparso) ci sono Shakespeare, che paragona gli alberi autunnali a cori in rovina, Nova Bair, con i suoi pioppi d’ottobre, torce accese per illuminare la via verso l’inverno, Kipling con le sue sere profumate di fumo e le notti profumate di pioggia, e John Donne che riconosce la bellezza alla primavera e all’estate, ma riserva la grazia all’autunno.

E infine rapido passaggio in Germania per Hoelderlin, e il suo autunno – simbolo del tempo che divora se stesso.

Passaggio e caducità, rosso, oro, crepuscolo, frutti, declino, vendemmia, nebbia, bellezza, malinconia, abbondanza e finalità: se c’è una stagione da poeti, forse è davvero l’autunno.

 

Ott 3, 2018 - Furore Tremendo    2 Comments

Furie Postali – una Piccola Storia

wing openbookC’era una volta una Clarina cui, un martedì, si manifestò la necessità di leggere un libro, in via collaterale a un possibile lavoro di traduzione. Era un libro che, a dire proprio il vero, le sarebbe anche interessato possedere, cosicché decise di meta-recarsi in uno di quei luoghi elettronici in cui non solo vendono libri, ma promettono anche di consegnarli il giorno dopo. La Clarina fece dunque il suo acquisto, e si dispose a un’attesa breve.

L’indomani, tuttavia, niente libro.

Il giorno dopo, niente libro – ma in compenso, tornando dalla quotidiana passeggiatella prescritta dai medici, la Clarina trovò nella cassetta deputata una strisciolina di carta con cui le Poste&Telegrafi annunciavano di aver cercato di consegnare il libro senza trovare nessuno. Se proprio voleva, la Clarina poteva recarsi all’Ufficio Postale a partire dal sabato mattina, e ritirare il suo pacchetto…

La Clarina non era precisamente estatica: si era già di giovedì pomeriggio, e dover ulteriormente aspettare il sabato mattina significava che la necessità si faceva urgenza strillante… Una rapida indagine rivelò che la biblioteca cittadina non possedeva il libro in questione, e un prestito interbibliotecario avrebbe richiesto più giorni di quanti ne mancassero al sabato mattina…

Oh well. La Clarina decise che avrebbe fatto del suo meglio nel corso del finesettimana (benché intanto stesse rileggendo altre cose per altre necessità d’altra natura…) e, il sabato mattina, si recò alle Poste&Telegrafi armata della sua strisciolina di carta.

E…

PostOfficeWould you believe it? La Donzella delle P&T, dopo avere consultato il suo macchinario, informò ariosamente la Clarina che il pacchetto non c’era.

“Come sarebbe a dire che non c’è?” ringhiò la Clarina, sentendosi salire la pressione arteriosa?

Era a dire che non c’era. Forse era ancora in città e non sarebbe arrivato fino alla settimana a venire. Lunedì? No, che diamine. Forse – forse – martedì. D’altra parte, avevano tentato due volte di consegnarlo…

“Una volta,” disse la Clarina – in un tono che gente più impressionabile avrebbe cominciato a trovare pericolosetto.

“Due volte,” replicò tetragona la Donzella. “È scritto qui, vede?” E indicò la strisciolina di carta su cui si leggeva inequivocabilmente Giovedì pomeriggio, Seconda Gita.

Ora, vedete, quegli stessi medici che avevano prescritto alla Clarina passeggiatelle quotidiane, le avevano anche vietato sforzi improvvisi e furie… La Clarina respirò profondamente, contò fino a dodici e uscì da destra senza far nulla di peggio che mormorare udibilmente cose come servizio indecoroso. Avesse avuto un mantello da assessarsi sulla spalla, l’avrebbe fatto – ma non l’aveva. Dove sono i mantelli, quando servirebbero?

Anyway, ormai era troppo tardi per qualsiasi cosa che non fosse organizzarsi… er, diversamente – e la Clarina fu costretta a far così. Inutile dire che la sua già abissale opinione delle Poste&Telegrafi si era abbassata di altre quarantotto o quarantanove tacche…

Passò il finesettimana, passò il lunedì e giunse il martedì. Ormai alla Clarina non pungeva più d’andare a ritirare il pacchetto, e non ci andò. Recossi all’Ufficio Postale il mercoledì, riconsegnò la strisciolina, e la Donzella delle Poste&Telegrafi le diede il pacchetto al modo di una benevola concessione… Una volta di più, la Clarina pensò alle sue coronarie – ma non poté fare a meno di sollevare una piccola questione.

“Mi può dire quando sarebbe stato effettuato il primo tentativo di consegna?” chiese – in un tono, vi assicuro, del tutto ragionevole.

La Donzella guardò la Clarina come si guarda una persona fuor di senno. “Giovedì pomeriggio,” disse, indicando la data segnata sulla strisciolina di carta.

“No, quella è la data del secondo tentativo.”

“No, del primo. Non ce n’è stato un altro.”

E come no?

E come no?

“Lo penso anch’io, francamente – ma lei mi ha fatto notare la settimana scorsa che l’avviso parla di secondo tentativo…”

Alla Donzella non restò che consultare il macchinario. “Ah… Giovedì…” mormorò.

La Clarina sorrise molto, molto dolcemente. “Ah, lo vede? Aveva ragione lei: un primo tentativo non c’è stato affatto.”

La povera Donzella cominciava ad annaspare. “Ma se dicono che questo era il secondo…”

La Clarina, sempre molto dolcemente, fece notare che giovedì pomeriggio era stata fuori casa per meno di un’ora. A meno che i due tentativi fossero stati fatti in rapidissima successione… “Perché vede, sia mercoledì che per tutto il resto di giovedì, c’è sempre stato qualcuno in casa.”

Come molti che sono in torto, la Donzella assunse un’aria bellicosa. “Io non so cosa farci!” esclamò. “Non li faccio mica io, i recapiti. Se vuole fare un reclamo, lo faccia alla direzione centrale!”

La Clarina fece notare come, nel corso dei decenni, avesse presentato tanti reclami alle Poste&Telegrafi da tappezzarci una bifamigliare dentro e fuori – senza che mai ne fosse venuto nulla.

“Ah, è vero,” ammise la Donzella con una scrollata di spalle. “Non conta niente.”

E qui la Clarina pensò di nuovo alle sue coronarie, e uscì da destra – mormorando udibilmente cose poco lusinghiere sul servizio postale e rimpiangendo una volta di più la mancanza di un mantello.

E poi tornò a casa a sfogare la bile in un post chilometrico – sperando che infuriarsi per iscritto non faccia troppo male alla salute.

 

Ott 1, 2018 - grillopensante    Commenti disabilitati su Storia e/o Arte (e Tutto il Resto…)

Storia e/o Arte (e Tutto il Resto…)

artCome molti, ho studiato Storia dell’Arte per tre anni quando ero al Liceo. Un paio d’ore la settimana, mi par di ricordare… E ricordo che, vista dal Ginnasio, l’idea mi piaceva proprio tanto – in una maniera che, me ne rendo conto adesso, era alquanto fumosa. Non sapevo di preciso che cosa aspettarmene ma, persino a quindici anni, non avevo dubbi sul fatto che una materia il cui nome comprendeva la parola “storia” dovesse essere interessante…

E invece magari qualche dubbio avrei fatto bene ad averlo.

Per tre anni, un paio d’ore alla settimana, quel che si sentiva spiegare, leggeva e studiava, erano infinite descrizioni di scultura dopo scultura, quadro dopo quadro – sempre con qualche enfasi sull’interpretazione sentimentale delle singole opere. Era carino, ma non era interessante.

Man mano che procedevamo notando espressioni dolcissime, gesti drammatici, panneggi morbidi, colori intensi and stuff, mi rendevo conto che le cose che avrei voluto sapere erano altre. Perché scolpivano, costruivano, dipingevano in quel modo? Quali erano le loro influenze – generali e personali? Chi erano i committenti? Perché volevano quel tipo di opere? Sulla base di quali esigenze? A che scopo? Che tecniche, che materiali si usavano? In che modo? Come si riflettevano sull’arte i grandi cambiamenti, le grandi scoperte, le guerre, i crolli degli imperi? Che rapporti c’erano fra arte, scienza, economia, società? Che posizione occupava l’artista? Come si formava? Da quali basi partiva ciascun grande innovatore? Da dove saltavano fuori le intuizioni, le ribellioni…?

E invece no, niente da fare. All’inizio di ogni capitolo c’era un paio di pagine di contesto storico che a nessuno passava per il capo di spiegare o approfondire granché, c’era qualche cenno biografico sull’uno o l’altro artista e poi si ricominciava opera per opera, con i panneggi morbidi, e i colori intensi and stuff. Come se l’arte fosse un grazioso accessorio, appuntato lì dov’è un po’ per caso e un po’ per vago senso del bello. Come se esistesse per conto proprio, eterea e incontaminata. E magari a quindici anni non lo sapevo con estrema chiarezza, ma l’idea mi sembrava abbastanza irritante.

Morale, per tre anni di Liceo non sono mai riuscita a farmi piacere sul serio la storia dell’arte, né ho mai fatto faville nelle interrogazioni. Di sicuro avrei potuto – avrei dovuto – studiare di più, imparare panneggi, espressioni e colori, e poi magari approfondire per conto mio. Invece ero una ragazzina piuttosto impossibile, seppure a modo mio. Non contestavo quasi mai, ma mostravo la mia disapprovazione e il mio disinteresse navigando sul sette e ostentando un’aria di generale sufficienza… Sì, ero insopportabile. A posteriori, mi rendo conto che non strangolarmi è stato un atto di notevole tolleranza da parte dell’insegnante d’arte.

Anyway, poi sono cresciuta, e ho cominciato a colmare le mie lacune per conto mio – e mi sono resa conto viepiù che la colpa non era in particolare del mio insegnante ma l’effetto di una  mentalità didattica sciaguratamente diffusa, per cui la storia è la storia, l’arte è l’arte, la letteratura è la letteratura, e guai a sconfinare. È una mentalità pericolosa da acquisire: potrei citare l’amica che si giocò diversi punti discutendo una tesi che ignorava completamente le motivazioni politiche della politica culturale dei Gonzaga… ma, al di là delle ripercussioni strettamente accademiche, imparare a pensare in questo modo toglie un sacco di prospettiva, don’t you think?

E questo è vero per tutte le arti, per le scienze – in fact, per tutti i campi dell’umana attività. Da dove saltava fuori il pittore/filosofo/poeta/imprenditore/scienziato/riformatore/younameit? In che mondo viveva? Come ci viveva, pensava, imparava, esercitava la sua attività? Come ne viveva? In che modo questo ha influenzato la sua produzione? Arte, storia, economia, società, pensiero – non sono mai stati sfere separate: ha davvero senso studiarli come se lo fossero?

Set 28, 2018 - teatro    Commenti disabilitati su Campogalliani 18/19: la Stagione

Campogalliani 18/19: la Stagione

Ed eccoci qui, ci siamo quasi. Tra una settimana o giù di lì il Teatrino d’Arco riaprirà i battenti per trasformarsi, come ha detto la nostra presidente Francesca Campogalliani, in trincee, castelli, stradine londinesi, boschi misteriosi- e ogni genere di altro magico, triste, magnifico o buffo luogo…

Il teatro non è una macchina del tempo: è una macchina dell’irrealtà, che crea fette di mondi – veri per il tempo che passa e finge di passare tra un sipario e l’altro.

E per i suoi settantadue anni, la Campogalliani ne esplora in abbondanza, di questi mondi: un sacco d’Inghilterre diverse, a ben pensarci – alcune delle quali non esistono più o non son mai esistite – due Americhe, due guerre, la mente umana, e i luoghi senza tempo dell’immaginazione…

Campo1819

Che ne dite? Vi sembra un viaggio interessante? Vi punge l’uzzolo di unirvi a noi? Ne avete abbondanza di occasioni.

Come vedete, ci sono storie che tornano e storie nuove – e tra queste vado particolarmente orgogliosa di Canto di Natale… ne riparleremo.

Per ora vi ricordo che la biglietteria è aperta nei giorni feriali, dal mercoledì al sabato, dalle ore 17:00 alle ore 18:30. In questi orari si prenota per telefono (o via fax) allo 0376 325363; in alternativa si prenota per posta elettronica a questo indirizzo: biglietteria@teatro-campogallian.it

Vi aspettiamo a teatro!

 

Set 21, 2018 - elizabethana, Storia&storie    Commenti disabilitati su Ned

Ned

Vi presento Edward “Ned” Alleyn (1566-1626), il grande attore tragico della sua generazione, creatore della maggior parte dei grandi ruoli marloviani.

OldNed

E magari a vederlo così non si direbbe che fosse il primo Tamerlano, il primo Faustus, il primo Ebreo di Malta… Ma il ritratto qui sopra è posteriore: Alleyn si ritirò dalle scene al colmo della sua fama, quando aveva poco più di trent’anni – e poi accumulò una notevole fortuna gestendo teatri, arene per gli orsi e proprietà di varia natura. All’epoca del ritratto era ormai un tranquillo e prospero gentiluomo, che collezionava quadri e libri e meditava di fondare una scuola per fanciulli indigenti. NedStatue

Poi lo fece, in effetti: poiché non aveva figli, tutto il suo considerevole patrimonio andò nella fondazione del God’s Gift College a Dulwich. E vi dirò: la scuola è ancora lì ai nostri giorni – insieme a una galleria con i quadri di Ned, alla maggior parte delle sue carte e alla statua che vedete qui accanto.

Immagino che non vi stupirà scoprire che la scuola (in cui tra molti altri studiò, anche se non felicissimamente, C. W. Hodges) ha una solida tradizione teatrale.

Da attore celeberrimo e scandaloso (non dimentichiamo che, quando vedeva Faustus vendere l’anima, il pubblico elisabettiano medio lo associava con l’attore più che con l’autore…) a filantropo: una di quelle carriere molto elisabettiane, nevvero?

Ma questo è solo un inizio. Credo proprio, o Lettori, che di Ned Alleyn parleremo ancora.

Set 19, 2018 - memories, musica, teatro    2 Comments

Fila I, Posto 9

DonC062E guarda un po’ la serendipità… accennavasi al Don Carlo di Rovigo, nel post di lunedì – e ieri sera, togliendo dalla mia lavagnetta di sughero un vecchio appunto che era lì da secoli senza nessun buon motivo particolare, che cosa ci ho trovato sotto, se non il biglietto del mio primo Don Carlo?

Sabato 10 novembre 2001, ore 20.30. Platea. Fila I, posto 9. Teatro Sociale di Rovigo… of all places. Ebbene sì. Nemmeno lo sapevo, che Rovigo avesse una stagione d’opera – ma ce l’ha. E nel 2001 comprendeva un Don Carlo – versione in quattro atti, in Italiano.

Vogliamo essere sinceri? Ero un pochino delusa. Erano anni che aspettavo di vedere un Don Carlo. Era la mia opera preferita, e non l’avevo mai vista in teatro – e il primo che mi capita a distanza ragionevole è… Rovigo? Ah well, che bisogna fare? Un Don Carlo è un Don Carlo, e sabato 10 novembre, con vasto anticipo – perché non si sa mai – si partì.

Il mio compagno di viaggio era il Mentore Operistico* – o forse è più esatto dire che io ero la sua compagna di viaggio. E guardate – io gli volevo un gran bene, ma il suo stile di guida e il mio stomaco avevano scarsa compatibilità. Nonostante un Valontan e quei braccialettini elastici che dovrebbero combattere la nausea, quando sbarcai a Rovigo ero al di là del bene e del male. Ma un Don Carlo è un Don Carlo: su la testa, spalle dritte e onwards! Chestnuts

E quindi immaginate la Clarina in abitino nero, scarpette col tacco e cappottino di cachemire, e immaginate anche una sera di tramontana…

“È tutto lì quel che hai addosso?” domandò scettico il Mentore, guardandomi rabbrividire. “Be’, se non altro l’aria fresca ti farà passare la nausea.”

Non posso negarlo: ero talmente occupata a battere i denti che la nausea non me la ricordavo nemmeno più. Era presto per il teatro e, una volta ritirati i biglietti, ci ritrovammo con un sacco di tempo per le mani. L’idea era quella di un bar calduccio, una tazza di tè e altri generi di conforto – ma all’improvviso…

“Ti piacciono le caldarroste?”

Col pensiero fisso al bar e al tè bollente, convinta che si trattasse di conversazione senza secondi fini, dissi che sì, mi piacevano molto…

“Ah, anche a me! Aspetta qui.” E io mi fermai dov’ero: a un angolo di strada, in mezzo alla corrente, e guardai il Mentore piombare su, of all things, un carrettino delle caldarroste, e tornarsene indietro con l’espressione di un bambino soddisfatto.

“Buona vigilia di San Martino,” mi disse, mettendomi in mano un cartoccio. “E buon primo Don Carlo! Dì se non è una cena originale.”

Come negarlo? Avete mai cenato a caldarroste a un angolo di strada, vestiti da sera, nel vento gelido di novembre? Scommetto di no. Be’, io invece l’ho fatto. A parte la difficoltà di sbucciare le caldarroste con i guanti, non vi fate idea di quanto sia pittoresco. E divertente. E dickensiano. E gelido. Quando finalmente entrammo nel bar calduccio e potei ordinare la mia tazza di tè era quasi tardi. O meglio, non lo era affatto, ma era quel genere di presto che bastava a mettere un po’ di ansia all’ansiosissimo Mentore.

Giuseppe_Verdi's_Don_Carlo_at_La_ScalaLui inalò il suo caffè e rimase a soffiarmi metaforicamente sul collo mentre mi ustionavo lingua, palato e gola con l’Earl Grey… Ma un Don Carlo è un Don Carlo, e quindi trottammo fino al teatro e prendemmo i nostri posti quando in platea non c’era ancora quasi nessuno, e aspettammo – la deliziosa attesa di una sala di teatro che si riempie, degli scampoli di musica che arrivano da dietro le quinte, dell’occasionale fremito del sipario, della lettura del programma…  L’avevo aspettata per mesi, quella sera, e finalmente c’eravamo.

Poi il buio in sala, l’orchestra che si accorda, il maestro che entra, gli applausi che si tacciono, il sipario che si apre… E Don Carlo fu!

E sapete cosa? Non fu nemmeno un granché. Decoroso, ma nulla di più. Forse il più modesto fra tutti quelli che ho visto in questi anni… E però fu il primo, e non lo dimenticherò mai – con la nausea andata-e-ritorno, e le caldarroste, e il gelo novembrino, e il coro con l’accento veneto, e il Grande Inquisitore con la zazzera… Che cosa non si ritrova alle volte in un pezzetto di cartoncino giallo appuntato su una lavagnetta di sughero, vero?

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* E, a dire il vero, Mentore in generale…

Set 17, 2018 - grillopensante, musica    Commenti disabilitati su Influenze Artistiche

Influenze Artistiche

PantheonSiete liberi di trarne le conclusioni che preferite, ma è un fatto che tutti (o quasi) gli scrittori che mi hanno influenzata maggiormente sono defunti da molti anni. Morale, le mie possibilità di un contatto diretto con i miei numi tutelari sono un tantino limitate.

E, tanto per aggiungere al fatto funebre un lieve paradosso, uno dei numi vivi non è affatto uno scrittore, ma un cantante d’opera – per la precisione un baritono.

DCChateletMi sono imbattuta in Thomas Hampson per conseguenza non voluta* di un prestito del mio MO, sigla che qui non sta per Medio Oriente, ma per Mentore Operistico. Una quindicina di anni fa, per levarmi ogni illusione a proposito di un Don Carlos visto a Rovigo, il MO mi prestò il video della meravigliosa produzione del Theatre du Chatelet di Parigi. Ora, per favore, apprezzate il fatto che mi faccia violenza per non lanciarmi in una tirade sulle molteplici perfezioni del Don Carlos in questione, e torni invece in carreggiata limitandomi alla notizia che il Marchese di Posa era appunto Thomas Hampson – folgorazione!

Non lo avevo mai sentito nominare prima, e poca meraviglia, perché in Italia è praticamente sconosciuto. Perché, vedete, Thomas Hampson non ha una voce verdiana, affermazione con cui non capisco mai se si voglia significare che Verdi ha scritto un solo e ristretto tipo di ruolo per baritono… ma, una volta di più, non tagliam pei prati. Nonostante non abbia una voce verdiana, TH canta anche un certo numero di ruoli verdiani (particolarmente Macbeth e la versione francese di Posa) e lo fa come fa tutto il resto: con una meravigliosa combinazione di raffinatezza, intelligenza interpretativa e intensità.

TomHEd ecco dove io casco come una pera – sull’artistry, sulla complessità dei personaggi, sulla gamma di sfumature, di colori e di registri, sull’elasticità nell’affrontare (e ampliare sempre) un repertorio eclettico, sulla dedizione alla musica e all’insegnamento – tutti tratti che, nella mia ingenuità musicale, apprezzo molto più di una voce possente.

Quindi, sì, sono artisticamente influenzata da un baritono: dal modo in cui scava e cesella i suoi personaggi (non sempre sono d’accordo sull’interpretazione, e c’è sempre la regia di cui tener conto, ma il lavoro è sempre di prim’ordine), da come interpreta ogni lied “al modo di una storia compiuta”, dallo studio continuo, dall’apertura e curiosità intellettuale, dalla tensione verso l’eccellenza.

Alla fine, e mi rendo conto che per me è spesso così: molto si riduce a una questione d’intensità. Ogni volta che lo sento cantare, me ne vengo via stimolata e pungolata, spesso con qualche idea nuova, sempre con il desiderio di ottenere con la mia scrittura almeno un po’ dell’efficacia raffinata che TH infonde nella sua musica.

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* Con questo intendo dire che il MO non intendeva affatto che io m’innamorassi artisticamente di Hampson, che a lui non piaceva granché – anche se qualche volta,  debitamente messo alle strette, ammetteva che certi suoi personaggi come Posa (in Francese), Mandryka, Athanael e Werther (versione Baritono) sono notevoli creazioni. Ah, e gli riconosceva tutti i meriti possibili come liederista.

Set 12, 2018 - Storia&storie    Commenti disabilitati su Storia & Storie

Storia & Storie

RoyleTrevor Royle è così perfettamente britannico che non potrebbe esserlo di più. Nato in India, giornalista della BBC e membro della Royal Society di Edimburgo, scrive libri di storia e radiodrammi, indossa giacche di tweed, e ha una di quelle belle voci rotonde, una perfetta Received Pronunciation e un asciuttissimo sense of humour. Non l’ho visto fumare la pipa – ma scommetto che lo fa.

Recentemente ha pubblicato un libro chiamato Culloden – che, a dispetto del titolo, non racconta della battaglia che concluse sanguinosamente la sollevazione giacobita del 1745… o almeno, non solo. O almeno, non nel modo consueto.

Ora, quella del Quarantacinque è la più nota e più romanticizzata* delle Sollevazioni Giacobite – una manciata di tentativi, tra tardo Seicento e Settecento, di rimettere sul trono i defenestrati Stewart. È una storia intricatella anzichenò, piena di episodi burrascosi, atti audaci, occasioni mancate e indicibili stupidità e – come molte faccende di questo genere – nel suo complesso non offre il miglior quadro possibile della natura umana… Si potrebbe dibattere (e in effetti si dibatte da secoli, letteralmente) se gli Stewart fossero criminalmente incauti o sfortunati da non dirsi… Se lo chiedete a me, erano entrambe le cose – e per di più costretti ad appoggiarsi a una base molto divisa in Scozia e un’alleanza molto dubbia in Francia – ma fa lo stesso.

Culloden, dicevamo. Culloden fu La Battaglia, se volete. L’immagine generale è quella di un sacco di gente in kilt e un sacco di gente in giubba rossa – e tutti costoro se le danno di santa ragione – e finisce molto male per quelli in kilt. Il che si chiama semplificare molto le cose, ma non è del tutto inaccurato…

RoyleCullodenEcco, Trevor Royle inorridirebbe, se leggesse l’ultimo paragrafo. Lui ha fatto ricerche molto approfondite in materia, ricostruendo tutte le notevoli complessità del caso, e concentrandosi – per una volta – sul lato governativo della faccenda. Gli uomini del Duca di Cumberland, quelli con la giubba rossa. A qualcuno alla Royal Society pareva bello, dopo duecentosettant’anni e monetina, cominciare a ricordarsi che c’erano anche loro, sul campo di Culloden – e Royle era pienamente d’accordo. Così, libro: la battaglia raccontata dal punto di vista di una manciata di giovani ufficiali governativi, con un’attenzione ai rispettivi background e (per lo più notevoli) carriere successive. L’idea era che a fronteggiare i Giacobiti non c’erano dei villains di cartone – ma uomini con capacità, aspirazioni, idee, convinzioni…

Una buona idea, don’t you think?

Ebbene, il libro si ricerca, si scrive, si pubblica – e Royle non ci pensa più fino al giorno in cui gli capita sotto gli occhi un articolo sullo scrittore che si è messo in un sacco di guai socialmediatici scrivendo su Culloden.

“How very bizarre…” pensa Royle – e legge l’articolo**, e scopre che lo scrittore in questione è… lui! È lui che la sezione scozzese della Rete va furiosamente bollando come revisionista, traditore, hanoveriano e agente del MI6*** – giusto per confinarci a ciò che si può ripetere in polite company.

Morale: Royle esterrefatto, l’editore deliziato dalla pubblicità, il mondo accademico-giornalistico diviso… non tanto su Culloden in sé, quanto sul fatto che, dopo duecentosettant’anni, ammettere la possibilità che il Nemico non fosse un mostro insensato sia materia di furibonda, fiammeggiante polemica.Culloden

Che Culloden, laggiù nel 1745, sia ancora una faccenda personale per un sacco di Scozzesi. E sì, consideriamo pure l’amplificazione e distorsione che tutto avvolge in Rete – ma a quanto pare, una volta che si è messo a cercare, Trevor Royle non ha trovato nulla di troppo diverso in campo analogico.

Il che è una storia interessante. Non necessariamente edificante – ma rivelatrice delle ombre lunghe che la storia passata e la sua narrazione e percezione gettano e seguitano a gettare sui secoli a venire e sull’identità. Sulla presa indistruttibile di certe idee. Sulle difficoltà, le meraviglie, le irragionevolezze e il peso della Storia come elemento della vita quotidiana…

Una piccola storia da raccontare, magari, agli implumi che tornano a scuola oggi – e sono tentati di chiedersi a che cosa serva mai studiare la Storia?

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* È arrivato Outlander in Italia? I romanzi della Gabaldon, sì – ma la serie TV? A ovest della Manica la serie ha portato nuova e travolgente popolarità al Quarantacinque e, mi si dice, un aumento considerevole dei flussi turistici a Culloden…

** No, lo so. Nemmeno io credo fino in fondo al sovrano disprezzo per la Rete e alla completa sorpresa. Dopo tutto, questo è il XXI secolo, giusto? Ma bisogna ammettere che suona bene.

*** “I treasure that one…”

Set 10, 2018 - angurie    4 Comments

Rieccomi!

ImbackSono qui, o Lettori!

Non ero sparita, sapete? O meglio, sì – in effetti sono sparita per una dozzina di giorni, ma non di mia volontà…

Chiamiamola una piccola emergenza in fatto di salute, il genere di emergenza che richiede un po’ di ospedale e poi della convalescenza. Il genere che fa franare a valle cose lungamente preparate come un’edizione speciale del Palcoscenico di Carta e uno Shakespeare in Words davanti alla Rotonda di San Lorenzo. Il genere che costringe a prendersi una pausa dalle prove e a dilazionare impegni di lavoro già presi. Il genere che costituisce una sesquipedale seccatura, insomma – ma che ci si può fare, se non obbedire ai medici e sperare che tutto passi alla svelta?

Intanto sono qui, vedete? Sono a casa, finalmente – e questo è già tanto. Però sono convalescente. Mi si dice che, con un po’ di pazienza, potrò tornare gradualmente alla mia vita*. Me lo si dice con rassicurante convinzione, e io ho fiducia. Però la parola operativa sembra essere pazienza… Ciò significa che – proprio adesso, nella stagione in cui di solito il blog riprende la corsa dopo la pigrizia estiva – non so troppo bene come andranno le cose su Senza Errori di Stumpa nell’immediato futuro.

leisureOh, ci sarò senza dubbio – ma non prometto una regolarità terribilmente svizzera, ecco. Vedremo come va, di giorno in giorno.

Intanto, siccome la mia iperprotettiva famiglia sta prendendo molto sul serio questa faccenda della convalescenza, ho parecchio tempo per leggere. Credevo di non avere il tempo per una Reading Week, quest’anno – e invece comincia a sembrare che ne avrò più di una… Oh well: questa è una cosa di cui non sono davvero propensa a lamentarmi.

Grazie per la pazienza, o Lettori – e a presto. Promesso.

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* Anche se c’è chi mi fa notare che i medici hanno parlato di “vita normale”, e che questo non significa necessariamente la mia vita – che normalissima non era to begin with…

O Forse Non Proprio Glasgow…

GlasgowSkyRieccomi qui! Vi avevo detto Glasgow, giusto?

Invece non era affatto Glasgow, dopo tutto, ma Cumbernauld – villaggio nelle collinosette campagne glasvegiane… E per dire la verità, anche del villaggio ho visto ben poco, quel che si vede di un posto passandoci accanto in taxi, perché i miei tre giorni scozzesi sono stati trascorsi tra seminari, lezioni, dimostrazioni pratiche di armi e costumi d’epoca, dibattiti – e una favolosa cena di gala, con tanto di piper e candelieri d’argento… ammetto che, entrare a cena in processione preceduti dalla cornamusa, è stata un’esperienza da romanzo – storico, of course.

E ho incontrato due agenti – nessuno dei quali rappresenta esattamente il genere di cose che scrivo… e su questo potrei levare un piccolo sospiro, perché nel cercarsi un agente, ci si sente dire di fare i compiti a casa, di cercar di capire che cosa il singolo agente cerca… e io l’avevo fatto, studiando siti web, interviste, twitter… salvo poi scoprire cose che, ad averle sapute prima, mi avrebbero indotta a presentare il mio pitch a qualcun altro. Quindi sì, o Agenti – è giusto che dobbiamo fare qualche sforzo per trovare la persona giusta, ma come possiamo farlo, se quel che si trova in rete è incompleto o addirittura fuorviante?

Ma ciò non toglie che gli agenti in questione, di persona, si siano rivelati persone gentilissime e disponibili, con un sacco di consigli da dare, e di cose molto lusinghiere da dire sulla mia scrittura e sul mio romanzo… Non foss’altro che come paio di opinioni di gente “dell’industria”, come suol dirsi, i due incontri sono stati molto soddisfacenti e utili.

E poi…

GlasgowPrizeE poi, inutile girarci attorno: il punto focale dell’intera faccenda, è stata la Short Story Competition…  Ricordate la storia che non voleva essere scritta? Quella della scadenza rispettata all’ultimissimo minuto utile? Ebbene, la sera prima di partire ho scoperto che la storia in questione era nella terzina finalista della HNS – e non vi dico che soddisfazione sia stata già quella. La HNS è uno dei non tantissimi palcoscenici riservati alla narrativa storica, ed è notoriamente difficile da accontentare. Per cui, quando sabato pomeriggio sono andata alla proclamazione, ero pienamente disposta a considerarmi contenta di un secondo o anche di un terzo posto. Poi Richard Lee, presidente della HNS, dopo avere annunciato la terzina e fatto qualche considerazione sulla qualità molto alta delle storie partecipanti e sulle difficoltà incontrate dalla giuria nello scegliere,  ha chiamato il terzo classificato – e non ero io. Poi ha chiamato il secondo… e nemmeno quello ero io.

“You’ve won! You’ve won!” ha cominciato a strillare Wendy, l’autrice americana che era seduta accanto a me… e non aveva tutti i torti: il racconto vincitore era il mio, The Revolution in Rivabassa.

Dopodiché… il mondo anglosassone è siffatto che ho passato la maggior parte delle ventiquattro ore successive a ricevere le congratulazioni di un sacco di gente – anche gente pubblicata, pubblicatissima e celebre, e agenti letterari, ed esperti americani di marketing letterario… Ecco – ho ricordi molto dorati di questi tre giorni scozzesi.edinburgh-skyline-in-watercolor-splatters-with-clipping-path

Ero ancora molto sulle nuvole domenica pomeriggio, a passeggio per il centro di Edimburgo – e mi è venuto da pensare che a Edimburgo ci ero arrivata per la prima volta ventisei anni fa, scolaretta spedita in Scozia a imparare la lingua, pressoché incapace di mettere insieme due frasi di senso compiuto… È stato bello – e in qualche modo “giusto”, if you see what I mean, venirmene via di nuovo, dopo un quarto di secolo abbondante, con un premio in tasca per una storia scritta in Inglese.

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