Mag 21, 2010 - grillopensante, memories, teorie    Commenti disabilitati su Viaggio a Izu

Viaggio a Izu

Questa storia risale alla mia vita precedente, ma rimane indicativa del mio rapporto con la letteratura giapponese…

Ero stata invitata a “un evento teatrale in un giardino, una cosa che deve assolutamente tenersi al tramonto” e, incautamente**, avevo detto di sì. Ieri sera, trascinandomi appresso M., ci sono andata. M., dato il dettaglio del tramonto, temeva vagamente che ci saremmo ritrovati a dar retta a qualche matto che crede di vedere le fate… alla fin fine, non aveva proprio tutti i torti. A parte il fatto che solo in loco abbiamo scoperto che l’invito contemplava una quota di partecipazione di 10 euro a cranio, c’era una tizia, un’organizzatrice, che si comportava come una sacerdotessa di Apollo in procinto di officiare, e che ci ha sgridati più di una volta perché non eravamo disciplinati e ha ripreso molto severamente la gente che è arrivata in ritardo…

Alla fine (con mezz’ora di ritardo sull’ora prevista e, cosa che ha mandato fuori dai gangheri la piccola pizia, sul tramonto), ci hanno riuniti in un giardino, fatti sedere e ammoniti di starcene in religioso silenzio. Per terra c’erano una stuoia giapponese, uno sgabellino di legno e varie ciotole coperte. Dopo un po’, da quella che in un primo momento avevamo preso tutti per un oleandro tardivamente coperto per l’inverno, è saltato fuori un attore vestito più o meno da Giapponese il quale, dopo essersi piazzato sulla stuoia, ha cominciato a recitare un racconto giapponese, appunto. Come avevamo appreso dai fogli che ci erano stati distribuiti, si trattava di Viaggio a Izu.* Devo dire che l’attore era molto bravo, molto immedesimato e molto raffinato. Persino l’accento francese, pur nettissimo, non era affatto fastidioso. Solo che…

Confesso che avevo già cominciato ad allarmarmi quando avevo letto sul foglietto esplicativo che occorreva “dimenticare i ritmi del racconto occidentale”… Forse sarebbe stato più pertinente dire che occorreva dimenticare la nozione di ritmo affatto. Il racconto si è rivelato un’incredibile pezza non solo senza ritmo, ma senza trama, tutto uguale e pure banalotto. Suppongo che fosse delicatissimo e poetico e tutto quello che si può volere ma sinceramente, quando ho visto sull’orologio di M. che erano le nove e i personaggi erano ancora a Shimoda, mi è venuta una certa qual malinconia. Se il racconto si chiama Viaggio a Izu era segno che dovevano arrivare a Izu, e invece dopo un’ora erano soltanto a Shimoda, che non è Izu… poi ho afferrato che Izu non è una città, ma una regione che comprende Shimoda, per cui a Izu c’erano già, grazie al cielo… nondimeno c’è voluta un’altra mezz’oretta… e intanto faceva sempre più freschino e le zanzare e le pampogne volavano tutt’attorno… Enfin, per il sollievo generale, il protagonista è rimasto senza soldi e ha preso, sia pur tra mille patemi, la nave che doveva riportarlo a Tokio. Allora abbiamo applaudito tutti compuntamente, abbiamo rimesso in moto le membra intorpidite, ricacciato in sede le mandibole slogate nello sforzo di non sbadigliare…

Ci sarebbe stato anche il rinfresco, ma noi ce ne siamo venuti via digiuni perché ci pareva di esserci rinfrescati abbastanza.Tra parentesi, perché mai fosse così indispensabile tenere tutto l’ambaradan proprio al tramonto non è stato chiaro per nessuno. Il commento di M., appena fuori portata uditiva del resto della comitiva, è stato che uno di questi giorni mi strangolerà lentamente…
Comunque è stato istruttivo, su un duplice fronte: da un lato, è evidente che l’eccesso di rarefazione, poesia e delicatezza è soporifero, specie se dilatato oltre ragionevolezza; dall’altro, catch me again ad accettare certi inviti senza informarmi minutamente sul come, il cosa e il perché!!
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* Nel frattempo ho scoperto che si tratta di un racconto di Yasunari Kawabata. All’epoca, evidentemente, ero troppo esulcerata per preoccuparmi di annotare chi fosse l’autore.
** Nella mia vita precedente usavo un sacco di avverbi.

Mag 18, 2010 - grillopensante    1 Comment

Il Giappone e io

220px-Great_Wave_off_Kanagawa2.jpg“Ma non ti piace il Giappone?” chiede I., che sta seguendo il mio diario di lettura per L’Eleganza del Riccio.

Allora, chiariamo: ci sono aspetti della cultura giapponese che m’incantano. Per lo più si tratta di aspetti visivi e di mores, come la pittura del periodo Edo, il modo di accostare i colori e le consistenze, la cerimonia del tè, anche nelle sue forme più semplici, la grazia delle giapponesi (la mia compagna di corso M., a Londra, mi chiamava Claire-San e c’è un’adorabile anziana signora in kimono che vedo all’opera a Vienna, e ogni volta mi sorride perché anni fa le ho raccolto la busta degli occhiali che le era caduta per terra), le infinite sfumature dei suffissi di cortesia, il modo in cui imparano a disegnare, i giardini (anche se non vorrei un giardino giapponese), la ferrea solennità dei ritratti degli ammiragli, l’ikebana, l’origami e tutte queste combinazioni di grazia e precisione…

Narrativamente parlando, però, sono un animale occidentale fino al midollo. In una storia ho bisogno – e intendo proprio bisogno – di uno o più archi che conducano da un punto A a un punto B attraverso un concaternarsi logico di cause ed effetti, di azioni e conseguenze e, tra A e B, qualcosa deve essere cambiato (o, se non è cambiato, qualcuno deve pagare il prezzo del mancato cambiamento). La storia che manca di tutto ciò, per me, non è una storia.

E sia chiaro: questa è una preferenza del tutto personale, ma non trovo piena soddisfazione nell’accostamento un po’ vagabondo di elementi pur pieni di poesia e di grazia, nell’inserimento qua e là di elementi squisiti che però non conducono la storia da nessuna parte, nei ritmi dilatatissimi e laschi – anzi, diciamolo: nell’assenza di ritmo narrativo come lo intende l’Occidente.

Una scrittura del genere non mi soddisfa indipendentemente dall’origine: non è che non mi piaccia perché è giapponese, ma queste caratteristiche che compaiono in tanta narrativa e cinematografia giapponese me ne rendono difficile la digestione.

Tutto qui.    

 

Mag 17, 2010 - grilloleggente    2 Comments

Pag. 198

Tra le prove tutte le sere e l’opera a Zurigo, non ho avuto molto tempo, ma tant’è: pag. 198.

E così Monsieur Ozu è arrivato, e non solo è proprio il regista*, ma essendo un artista giapponese (e non un Occidentale ottuso) ha sgamato Renée al primo colpo. Però, essendo un Giapponese delicato e gentile (e non un villanzone occidentale) ha aspettato qualche giorno prima di sgamarla ancora di più* e invitarla a cena.

A cena, sì. E allora abbiamo assistito a una trasformazione à la Cenerentola, con Manuela (la domestica portoghese, ricordate?) nelle vesti di fata madrina. Come sia andata la cena, ancora non lo so, perché Renée, sulla soglia dell’appartamento di Monsieur Ozu, si è bloccata in estatica contemplazione della copia di una natura morta fiamminga, e questo ha dato la stura a una serie di considerazioni teoriche sull’Arte che Mme. Barbery cerca di contrabbandare come un rallentamento del ritmo narrativo a fini di suspence.

In realtà, Mme Barbery sta tentando di contrabbandare un sacco di cose, a questo punto. Il fatto che proprio Monsieur Ozu venga ad abitare proprio al n° 7 di Rue de Grenelle mi sta anche bene, perché è il genere di straordinario incidente per cui esiste la sospensione dell’incredulità. Che anche lui sia un cultore di Tolstoj, che il gatto Lev compaia proprio al momento giusto, che un’inquilina sia lì per fare proprio la domanda che dà a Renée l’occasione di tradirsi con l’incipit di Anna Karenina, che la prima cosa che si vede aprendo la porta sia una natura morta – genere che Renée ama alla follia, anche se non l’abbiamo mai saputo prima di adesso – be’ tutto questo comincia a sembrarmi un po’ tanto da ingoiare. La mia incredulità comincia a sentirsi precariamente sospesa, e potrebbe franarmi in testa da un momento all’altro.

E poi, naturalmente, c’è l’Insopportabile Dodicenne Innominata. Avete notato che è stata promossa da Dodicenne Innominata a Insopportabile Dodicenne Innominata? Ecco, naturalmente la IDI ha fatto subito amicizia con M. Ozu, il quale, altrettanto naturalmente, l’ha invitata (sola tra i condomini) a prendere il tè insieme alla sua migliore amica, è affascinato dalla sua conversazione e la mette a parte delle sue elucubrazioni sulla Portinaia. Ora, vediamo un po’, risalendo in senso inverso (e saltando la conversazione). La Portinaia, prima di Ozu, la IDI l’aveva nominata una volta per sbaglio. All’improvviso, scopriamo che ci ha fatto su dei pensieri, che le ha visto un libro di filosofia nella borsa della spesa, che la sospetta di non essere quello che vuole sembrare, che la crede dotata dell’eponima eleganza del riccio. A little abrupt. Ma credo che mi si voglia indurre a pensare che la IDI fiorisce sotto la benefica e benevola influenza di M. Ozu, perché altrettanto all’improvviso scopriamo che la IDI ha, dopo tutto, una migliore amica. Stupiti, vero? Dopo essersi atteggiata ad asociale completamente isolata per metà abbondante del libro, la cara ragazzina c’informa dell’esistenza di Marguerite, la sua migliore amica da due anni, mezza francese e mezza nigeriana, “dal punto di vista concettuale e logico non un fulmine”, ma allegra, bella e dalla battuta sempre pronta.

Non so ancora se Marguerite conterà un granché nell’economia generale del romanzo; per adesso sospetto che sia solo parte dell’arredamento. Voglio dire: Monsieur Ozu, lo si è detto, è giapponese, come pure la sua adorabile nipotina Yoko; Marguerite è per metà nigeriana; Paul N’Guyen, il giovane, capace e bel segretario di M. Ozu, è per metà vietnamita**, la domestica Manuela è portoghese, e questi sono (con le note eccezioni della Portinaia e della IDI), i soli personaggi del romanzo provvisti di finezza d’animo, freschezza vitale e bontà di cuore. Capita l’antifona?

Insomma, mi sembra di annaspare vieppiù tra luoghi comuni, luoghi comuni e altri luoghi comuni che né il finto rude candore dell’autodidatta, né la supponenza finto-ingenua dell’infanzia superdotata, né la robusta dose di affettazioni multiculturaliste riescono a rendere meno comuni. E dire che Renée mi piaceva, all’inizio… ma credo di averlo già detto altrove: sebbene mi piaccia essere condotta a spasso per molte pagine, mi aspetto di essere condotta a spasso con garbo, sottigliezza e rispetto, grazie.

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* Se a qualcuno interessasse, Renée si è tradita citando Tolstoj, del che ha dato la colpa a un caso lampante d’insaputo freudiano.

** Renée riconosce alla metà europea di N’Guyen i seguenti meriti: alta statura, zigomi slavi, occhi chiari. Le qualità spirituali sono tutte vietnamite. D’altra parte, nemmeno la mamma del giovanotto è francese, ma bielorussa: chissà se un Bielorusso conta come un Occidentale?

*ETA: Argh! Ennò, no, no! M. Ozu non è il regista, dopo tutto. E’, pensate un po’, un lontano cugino!! Arrossisco fino alla radice dei capelli… potrei dire che sono stata indotta a crederlo, potrei dire molte cose, ma il fatto è che non ho prestato attenzione. Quindi sono qui che pontifico e poi mi lascio sfuggire i dettagli. A riprova della mia buona fede, tuttavia, invece di emendare il post alla chetichella per nascondere la mia storditaggine, ammetto tutto pubblicamente. Deducetene quello che volete: o, per quanto mi sforzi, proprio non riesco a lasciarmi prendere a sufficienza da questo libro, oppure la mia non è un’analisi affidabile. Your choice, a questo punto.

Mag 16, 2010 - musica    1 Comment

Onegin

Ecco, appunto. Thomas Hampson e Karita Mattila nel finale dell’Onegin. Oh, meraviglia!

Buona domenica a tutti.

Mag 15, 2010 - grillopensante    Commenti disabilitati su Storie nelle Storie

Storie nelle Storie

Siccome ieri sera sono andata a vedere e sentire (ho sempre difficoltà a scegliere il verbo giusto per l’opera) Thomas Hampson che cantava l’Evgeni Onegin di Tchaikovskij, si discuteva se si tratti o meno di una storia di presunzione punita.

Sì, naturalmente, perché Evgeni – per ennui o poco meglio – rifiuta con supponenza l’amore della giovane e ingenua Tatjana quando la conosce in campagna, ma poi, ritrovandola maturata, raffinata e principessa a Mosca, è lui a innamorarsi e lei a rifiutarlo. Evgeni capisce troppo tardi che sono proprio le qualità della ragazzina di campagna a fargli amare la principessa, ma lei adesso è la moglie leale di un altro uomo. Per cui sì: lui si credeva molto dappiù, ed è punito con perfetto contrappasso.

“Ma come, non è una storia d’amore, allora?”

Ecco, è questo il punto. l’Onegin è anche una storia d’amore, anzi, più d’una considerando anche Olga e Lenskij; ed è anche una storia di amicizia (Evgeni e Lenskij), di rimorso, di peso delle convenzioni sociali, di rinuncia, di maturazione, di occasioni perdute…

Le buone storie tendono a non essere mai storie di una cosa sola. La complessità che fa di una storia un piccolo mondo nasce dalla stratificazione di temi diversi e correlati, dall’incrociarsi e ostacolarsi (più o meno volontario) degli scopi contrastanti di diversi personaggi, e dal modo in cui ciascun aspetto illumina o modifica parzialmente gli altri.

Il povero Lenskij è un poeta e sogna un idillio campagnolo con Olga, la sorella allegra di Tatjana. Nel primo atto Evgeni non sa troppo bene che cosa vuole, ma la sua annoiata vaghezza di propositi finirà per scontrarsi tragicamente con il sogno di Lenskij. Tatjana, considerata una specie d’intellettuale da amici e vicini, appare ad Evgeni come il prototipo della piccola provinciale cresciuta a romanzi. Il fatto che Evgeni incarni l’uomo ideale che Tatjana ha atteso e sognato rende ancora più amaro il gelido rifiuto di lui… E via dicendo, in un continuo intersecarsi di prospettive. Ed è questo che fa dell’Onegin una buona, soddisfacente, ricca e commovente storia.

Non tutte le storie complesse sono necessariamente belle, ma di sicuro una storia di cui, alla domanda “di che cosa parla?” si può rispondere con una parola soltanto, faticherà molto di più a catturare il cuore del lettore – e a tenerlo prigioniero.

 

Mag 14, 2010 - Somnium Hannibalis    Commenti disabilitati su Somnium Hannibalis – Le Prove

Somnium Hannibalis – Le Prove

E qui, finalmente, c’è il trailer delle prove di Somnium Hannibalis – a Play, la riduzione teatrale del mio romanzo, a cura del gruppo teatrale storico sperimentale Hic Sunt Histriones, con la regia di Gabriella Chiodarelli:

Mag 13, 2010 - cinema    2 Comments

Diesel

“…E nel film su Annibale che uscirà…” dice M.

“Cosa? Cosa? Che film?” dico io, drizzando le orecchie.

“Sai, quello che esce nel 2011…”

“Quale dei due?!” strillo, e il mio oscuro riferimento a La Nemica di Nicodemi va del tutto perduto, ma fa lo stesso. M. mi guarda con occhi tondi e chiede come sarebbe a dire due? “Denzel Washington o Vin Diesel?”

“Non Denzel Washington,” pronuncia M., dopo averci pensato un po’, e io gemo nel mio modo più melodrammatico. Sia chiaro, nemmeno Denzel Washington sarebbe stato la mia prima scelta per interpretare Annibale, ma Vin Diesel…

“Vin Diesel!!” pigolo, “Vin Diesel!!!”

“Non ho idea,” M. scrolla le spalle, perplesso di fronte alla mia disperazione. “Mai coverto. Chi è?”

“Uno che non cambia mai espressione – mai, nemmeno per sbaglio…”

“Oh…” M. comincia a vedere la tragedia. “E’ che se lo produce lui, il film, sai…”

Oh catastrofe, delitto, sacrilegio, ecatombe! Magari sono prevenuta, non lo so, ma ho tanto idea che questo film sarà un’avventurona approssimativa, truculenta, con gli eserciti fatti al computer e un Annibale che procede torvo e allucinato, mascella digrignata e spada in pugno. Se non avessero inteso di sacrificare tutta la complessità del personaggio all’azione, avrebbero scelto qualcun altro, giusto? E se uno con il curriculum di Vin Diesel si sogna di autoprodursi un film sul più grande condottiero dell’antichità, è così malevolo da parte mia pensare che abbia in mente proprio solo gli elefanti e le battaglie all’arma bianca?

Ossignore…. Vin Diesel! Sbaglierò, ma per il momento – così, sulla fiducia – sono in lutto.

Mag 12, 2010 - scrittura    Commenti disabilitati su Fulminante

Fulminante

“La scrittura del romanzo ha tre regole. Sfortunatamente nessuno sa quali siano.”
(William Somerset Maugham)
E siccome dal 9 al 15 di maggio si tiene la Reading Is Fun Week, la donna che si è lasciata sfuggire la Giornata Mondiale del Libro (due volte) tenta di redimersi segnalando un libro del meraviglioso autore in questione:
La Diva Julia, di W. S. Maugham, Adelphi, 2000, ben tradotto da F. Salvatorelli.
Come la lettura di questo delizioso libro abbia costituito uno dei più grossi shock della mia vita – il genere di colpo che ti stronca sul nascere ogni velleità di scrivere – è una storia che racconterò un’altra volta…
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Perché invece oggi l’editor di testo non voglia saperne di spaziarmi i paragrafi è uno di quei misteri che lascio risolvere a gente più sveglia di me.

Mag 11, 2010 - grilloleggente    Commenti disabilitati su Pag. 113

Pag. 113

Uffa.

Dopo la meravigliosa – sì, meravigliosa! – scena della seconda nascita di Renée a scuola mi ero illusa: ecco la poesia, ecco la bellezza, ecco che finalmente ci siamo…

E invece no. Archiviata la faccenda in una paginetta, si è tornati a girare in tondo. Kant, il gatto Lev, un condomino, l’altro condomino, i poveri & i ricchi, la Manuela portoghese, il tè al gelsomino, l’ottusità imperante… Ieri sera ho chiuso sull’ampiamente irrilevante sottocapitolo in cui la Portinaia e la diciannovenne Olympe (finalmente una condomina che si salva, ma è una dolce ragazza che vuole fare la veterinaria in campagna) discutono con dovizia di particolari la cistite idiopatica da stress della gatta Constitution.

Questo mi ha fatto sorridere, ma non per meriti del libro in sé: il fatto è che ce l’ho anch’io il gatto con cistite idiopatica da stress*, con pari divertita esasperazione del veterinario e mia.

Detto ciò, tuttavia, nelle ultime tre righe di questo capitoletto è giunta la prima cosa che somigli, anche da lontano, a un svolta della trama: la notizia che la neo-vedova del quarto piano (o è del sesto? Francamente non tengo il conto) vende l’appartamento. Anche senza la quarta di copertina sarei arrivata a dedurre speranzosamente che questo preluda all’arrivo di un nuovo e significativo condomino. Avendo letto la quarta in questione, suppongo che si tratti di Monsieur Ozu. Sarà poi il regista giapponese del cui lavoro la Portinaia è tanto éprise? Sarà un parente? Sarà un omonimo? Stiamo a vedere.

In ogni caso è un Giapponese, e quindi si preannunciano ulteriori diluvi di camelie sul muschio, tè al gelsomino ed altre espressioni di nipponica raffinatezza, perché se qualcosa si è chiarito in queste cento e tredici pagine, è che la Portinaia, la Dodicenne Innominata e Mme. Barbery adorano all things Japanese.

Tant’è che anche l’andamento narrativo di questa storia è molto giapponese**: come si spiegherebbe altrimenti che, a un terzo del libro, non abbiamo ancora fatto altro che predisporre la scena e sistemarci dentro i personaggi? Ripeto: il primo snodo della trama è a pagina 113, e dovete ammettere che, per una persona ossessionata dalla fabula come la sottoscritta, c’è di che lacrimare un pochino…

E intanto lo snodo c’è stato, il che non è una precisa garanzia del fatto che ce ne saranno altri, ma tirem innanz.

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* E guai a chi è anche solo tentato di suggerire che la colpa dello stress sia mia, per averlo chiamato Udrotti.

* Una volta o l’altra vi narrerò l’epica storia di come mi ritrovai esposta a Viaggio a Izu.