Giu 13, 2010 - Spigolando nella rete    Commenti disabilitati su Costumi

Costumi

Fra mezz’ora mi precipito a Sacchetta (MN) per la seconda giornata di Vita In Insula Sacha, la rievocazione storica medievale che il Comitato Sacha Caprianorum organizza per raccogliere fondi per il restauro dell’Oratorio Cavriani. C’è un mercatino, ci sono duellanti, giocolieri, arcieri, osti, fornai e birrai, e ci sono le guide che conducono i visitatori alla scoperta della chiesa e dell’oratorio – con una buona dose di storia in the bargain, – tutti rigorosamente in costume.

2010-06-12-54853.jpgMi piacerebbe avere qualche foto, ma per ora dispongo solo di questa: la sottoscritta che prova una combinazione di cercine e velo. La pubblico perché i miei esperimenti mi portano logicamente al sito che volevo segnalare: The Costumer’s Manifesto, curato da Tara Maginnis, e in particolare la fantastica sezione Costume History. Si tratta di una ricchissima collezione di immagini, links, indicazioni bibliografiche, cartamodelli, articoli e risorse di ogni genere, suddivisi per secoli e aree geografiche. Oltre ad essere una benedizione per chi si trova nell’improvvisa necessità di riprodurre un copricapo di foggia sufficientemente period, questo sito è una miniera d’informazioni in fatto di abiti e tutto quello che ci gira attorno. Non solo la moda, ma la confezione, la cura e l’uso degli abiti, i codici sociali di colori e stoffe, i dettami dell’igiene e della proprietà, sono aspetti importanti della vita quotidiana, particolari che cambiano attraverso i secoli e che – oltre ad essere interessanti di per sé – possono fare molto per lo spessore e la credibilità della narrativa a sfondo storico.

C’è veramente di tutto, dagli articoli sulla storia delle leggi suntuarie ai glossari, dalle tavole di Racinet alle istruzioni per fare una parrucca Settecento, dalle bambole di carta alla teoria del costume… non tutti i links sono sempre funzionanti, ma sulla quantità vale sempre la pena di tentare.

Il fatto che Dr. Tara Maginnis sia una docente universitaria di storia del costume non nuoce di sicuro. Oh, e naturalmente è tutto in Inglese, ma è organizzato in modo tale da essere perfettamente navigabile anche con la conoscenza più basilare della lingua.

E adesso via, a fare la guida in costume! E se ci sono trenta gradi all’ombra e il mio costume è di velluto… be’, è per una buona causa.

 

Giu 12, 2010 - libri, libri e libri    4 Comments

I Due Conti Pecorai

Ippolito Nievo oggi all’Accademia Virgiliana di Mantova. E qui devo confessare (cospargendomi di cenere il capo) di aver creduto a lungo che Nievo avesse scritto soltanto le Confessioni Di Un Italiano e il Novelliere Campagnuolo… Invece scopro oggi che esiste altro, tra cui Il Conte Pecoraio, romanzo d’ambiente contadino e d’ispirazione parzialmente manzoniana.

Una volta chiarito l’illuminante particolare che il protagonista eponimo e la di lui figliola Maria sono in realtà nobili decaduti da qualche generazione, una volta accennato che la trama è una storiellona d’ingiustizie, innocenza perduta, gente che legge i Promessi Sposi, coincidenze e voti, vengo all’aspetto che mi ha colpita di più nella relazione di Simone Casini, curatore dell’opera omnia. Si dà il caso che, oltre alla versione a stampa pubblicata nel 1857, del CP rimanga una prima stesura manoscritta, redatta a partire dal 1855. Ebbene, pare che la differenza tra le due sia abissale: la trama è modificata, ma la cosa più sorprendente è la metamorfosi del linguaggio.

Nel 1855, in una lettera, Nievo aveva dichiarato l’intenzione di scrivere “un romanzo semplice semplice”, poi evidentemente cambiò idea. Fossero i consigli dei colleghi scrittori (gente come Tenca e Fusinato…) a cui aveva mostrato la prima stesura, fosse qualche insoddisfazione nei confronti di una certa inconsistenza espressiva, fosse un’improvvisa folgorazione stilistica, qualcosa indusse il venticinquenne Ippolito a riprendere in mano il suo romanzo e riscriverlo puntigliosamente, frase per frase, quasi parola per parola, caricando il tutto “in senso aulico ed espressivo”.

Il risultato è stupefacente: un linguaggio dal registro indefinibile, affollato di impossibili toscanismi fianco a fianco con espressioni dialettali, calchi, echi dei Promessi Sposi (ma, badate bene, dell’edizione del 1827, pre-bucato in Arno), scelte lessicali eccentriche, costruzioni convolute e bizzarrie miste assortite – compresi i contadini friulani che parlano un Toscano tanto aulico da sembrare trecentesco… Quali che fossero le perplessità di Nievo sulla sua prima stesura, non si può certo dire che il linguaggio della seconda abbia giovato alla fortuna del Conte Pecoraio, la cui storia editoriale è singolarmente scarna.

Adesso esce, per l’appunto, pubblicato da Marsilio, e non esce una volta sola: tra qualche mese sarà la volta di un nuovo volume, dedicato alla prima stesura, quella manoscritta, quella “semplice semplice”, quella non ancora “rassettata”.

Non sono certissima che leggerei il Conte Pecoraio se ne esistesse soltanto la versione a stampa… forse potrei essere curiosa di dare un’occhiata al romanzo che ha preceduto le Confessioni, forse potrei voler leggere le scene quasi metaletterarie in cui Maria s’ispira o si paragona alla Lucia manzoniana, ma nulla di più. Le due versioni così disparate tra loro, però sono un cavallo di tutt’altro colore: una metamorfosi congelata nella carta anziché nell’ambra, una porta aperta sul modo in cui uno scrittore ripensa il suo libro parola per parola… come resistere all’opportunità di vedere il funzionamento di un meccanismo del genere? Personalmente so già che non resisterò affatto – non proverò nemmeno a resistere, che diamine!

Intanto, per chi si fosse incuriosito, qui c’è, insieme ad alcuni altri titoli, Il Conte Pecoraio (versione a stampa 1857) in PDF.

Giu 11, 2010 - Oggi Tecnica, scrittura    Commenti disabilitati su Occhi Blu, Capelli Neri, Naso uno.

Occhi Blu, Capelli Neri, Naso uno.

Certe cose sono come salare l’acqua per la pasta: non ci pensi fino a quando non ti tocca farlo, oppure fino a quando non t’imbatti nelle conseguenze degli errori altrui…

Nello specifico, questo goffo riferimento culinario era per parlare della descrizione fisica del personaggio nel cui punto di vista si sta scrivendo. Allora, il problema non si pone quando si scrive in terza persona onnisciente perché il narratore tutto sa e tutto vede, e quindi può benissimo descrivere al lettore ogni personaggio nel momento in cui entra in scena – e questo è uno dei pochissimi compiti che la III Onnisciente facilita al lettore. Per quasi tutto il resto, scrivere una buona, solida III Onnisciente è orribilmente difficile e quindi forse vale la pena di risolvere questo specifico problema e concentrarsi su una voce narrante diversa.

Per esempio una Prima o una Terza Limitata, ed ecco che torniamo alla domanda iniziale: come descrivere al lettore l’aspetto di un personaggio da dentro la sua testa? Perché se scrivo dal punto di vista di Geremia, il lettore può sapere solo quello che Geremia vede, pensa e sente, e siamo onesti: quante sono le probabilità che Geremia spenda del tempo a passare in rassegna i propri tratti fisici?

La III Limitata offre ancora una possibilità di scampo, se la storia non è raccontata completamente dal punto di vista di Geremia: posso aspettare che, nella scena successiva, il punto di vista passi a Yvette, la quale forse vede Geremia per la prima volta e ne osserva occhi, capelli, numero di nasi, statura e tutto il resto. Oppure Yvette conosce benissimo Geremia, ma può avere ogni genere di motivi narrativamente legittimi per scompigliargli il ciuffo corvino, guardarlo nel profondo delle iridi blu o dargli un pugno sull’unico naso…

Se invece sono limitata al punto di vista di Geremia e voglio proprio darne una descrizione fisica, dovrò darmi da fare per trovare una buona ragione. John Olson sostiene che non è poi così necessario descrivere i personaggi: se Geremia ha una voce abbastanza caratteristica, se le sue azioni, i suoi pensieri e le sue parole suggeriscono un minimo di tipo fisico e di età, il lettore sarà perfettamente felice di immaginarsi il personaggio come vuole. A dire il vero, non sono sicura di essere d’accordo. Quando leggevo le commedie di Shaw, per prima cosa andavo a cercare le descrizioni di tutti quelli che dovevano entrare in scena, e restavo molto delusa nei casi in cui non c’erano. Non voglio otto paragrafi di minuzie fisiognomiche, e non voglio un estratto della carta d’identità, ma mi fa piacere sapere come l’autore vede il suo personaggio, grazie. Mi fa assai meno piacere, però, essere trascinata fuori dal punto di vista e dalla storia per ricevere una lista dei connotati di Geremia…

E allora?

Allora bisogna domandarsi come e perché Geremia potrebbe essere indotto a fare considerazioni sul proprio aspetto. Un metodo collaudato sono le speculazioni che il personaggio fa sulle reazioni altrui – specialmente in circostanze inusuali. Diciamo che Geremia vede Yvette per la prima volta dopo essere stato salvato dall’annegamento in un fiume particolarmente fangoso. Diciamo anche che Yvette sia l’incarnazione perfetta della donna dei suoi sogni*, ed ecco che c’è posto per qualche legittima considerazione sul proprio aspetto non precisamente immacolato. “In altre circostanze avrei fatto affidamento sul fascino dei miei occhi blu”, o qualcosa del genere. Tra parentesi, non occorre che la descrizione arrivi tutta in una volta, confezionata in un unico e comodo pacchetto: meglio, molto meglio se i capelli neri e il naso arrivano in momenti successivi e pertinenti, procedendo insieme alla storia invece di fermarla per un’edizione del notiziario descrittivo.

Tutto diventa più facile se i caratteri fisici del personaggio hanno un ruolo nella storia. In Hunting The Corrigan’s Blood, una storia di fantascienza narrata in prima persona, la protagonista-narratrice Cady Drake ha più di un ottimo motivo per descriversi: da un lato, è il prodotto di una teoria genetica passata di moda, in base alla quale la sua esecrabile madre l’ha resa, diciamo così, inconfondibile; dall’altro vive in un futuro in cui alterare radicalmente il proprio aspetto è facile e relativamente economico. L’aspetto di Cady è significativo dal punto di vista concettuale e strettamente narrativo, e il modo in cui lei descrive se stessa nel secondo capitolo è perfettamente funzionale.

Non sempre va così bene, ma in alternativa si può sperare che l’aspetto del personaggio sia così perfetto per il ruolo, o così improbabile per il ruolo da meritare qualche commento. Potete giurare che Geremia non va attorno meditando sulla sua combinazione di colori, ma se è un agente segreto e deve infiltrarsi in Irlanda, potrà ringraziare fuggevolmente il fato benigno che gli ha fatto ereditare gli occhi blu di suo padre e i capelli scuri di sua madre. O in alternativa, se si ritrova paracadutato per errore nello Swaziland, potrà comprensibilmente essere scettico sulle sue chances di mimetizzarsi tra la popolazione locale.

E’ vero, c’è sempre lo specchio. Quante volte abbiamo letto che “Geremia gettò un’occhiata allo specchio, soffermandosi sugli occhi blu, sul naso diritto,” eccetera eccetera? Collaudato anche questo, ma da prendersi con cautela. Onestamente, se un romanzo si apre con una descrizione di qualcuno che si guarda allo specchio, farà bene ad esserci un ottimo motivo per questo, o qualcosa di davvero interessante che interrompe la contemplazione in tempi brevi.

Insomma, alla fin fine si possono trovare diversi modi di introdurre una descrizione fisica, ma l’importante è tenere a mente un paio di cose: attenersi a ciò che il personaggio vede, sente e pensa; avere un buon motivo per ogni dettaglio che si mette sulla pagina; utilizzare i caratteri fisici per far avanzare la storia.

Se non è possibile incorporare nella descrizione almeno due di queste tre caratteristiche, forse è saggio considerare l’opzione Olson e rassegnarsi a non descrivere affatto.

______________________________________________________________________________

* Che esempio orribile!! Mi cospargo di cenere il capo per averlo concepito.

Giu 10, 2010 - grilloleggente    Commenti disabilitati su Pezzettini di Teschio: parte V e Ultima

Pezzettini di Teschio: parte V e Ultima

Oh, dunque: il finale.

 

Premessa 1: se si stabiliscono delle regole interne al mondo che si crea nel libro, queste regole vanno rispettate. Anche se significa che il protagonista deve prenderla nelle costole. Sennò non vale.

 

Premessa 2: se per tutto il libro si conduce il lettore ad aspettarsi un finale, è perfettamente legittimo sorprenderlo; molto meno legittimo scodellargli il finale di una storia differente e lasciare senza risposta due terzi delle domande sollevate. Anche se si ha in programma una trilogia.

 

Detto ciò, vediamo come va a finire.

 

Dunque, sappiamo che ci sono tredici teschi di cristallo, il più importante dei quali è la nostra Azzurra Pietra del Cuore (e no: non sappiamo perché sia la più importante, dobbiamo fidarci sulla parola). Sappiamo anche che, se posizionate in altrettanti luoghi giusti, le pietre daranno all’umanità una chance di evitare la Grande Catastrofe. Vago, ma tant’è. La GC, per amor di cronaca, è attesa, sulla base dell’infinitamente preciso calendario Maya, per il 21 dicembre 2012. Inoltre sappiamo (perché ci è stato ripetuto spesso) che che tutti i Custodi delle Pietre muoiono/sono morti/devono morire portando a termine il loro compito, e che Stella è l’ultima Custode della Pietra Azzurra che, per motivi che non vengono mai chiariti, ha i suoi stessi lineamenti (e anche quelli della nonna di Owen, il quale a sua volta somiglia al nonno di Stella, benché non ci sia parentela).

 

Date queste premesse, ci aspetteremmo svariate cose, giusto?

 

Di cento non ci aspetteremmo che il Momento Critico per mettere la Pietra al Posto Giusto arrivi nel 2007. Perché mai? Non ci viene detto. E il 2012? E chi lo sa? Forse c’è un secondo volume in programma.

 

Ma allora, cosa succede? Be’, francamente non è chiaro. Stella, una volta entrata nel Posto Giusto, ha una breve visione di gente e draghi, poi Cedric Owen (che è già morto per la Pietra da vari secoli) le dice che è stata brava e, molto cavallerescamente, prende il suo posto, consentendole di non morire e tornare invece da Kit.

 

Quando Stella emerge dalla catacomba, che era il Posto Giusto e dove non è successo molto, Fraser è defunto, Davy Law e Antony Bookless se ne sono tornati a casa e Kit è lì che aspetta, molto impressionato e molto in salute, e anche molto noncurante in generale, considerando che pochi capitoli prima aveva rifiutato di essere curato dalla Pietra con quel tipo di veemenza che – tanto nei libri quanto nella vita reale – di solito conduce nello studio di un divorzista. Ma no, nulla di tutto ciò: Stella e Kit si baciano felici. Fine.

 

Un nonnulla di un anticlimax? Già.

 

Veniamo ancora informati succintamente che i Nostri riescono a far passare sotto silenzio le circostanze della morte di Fraser, e tutti si riuniscono dopo il funerale: Stella trionfante, Bookless riabilitato, Ursula guarita dalle ustioni (un miracolo della medicina, tra l’altro) e Davy Law improvvisamente riconciliato con Kit dopo dieci anni di feroce ostilità.

 

Er… e la fine del mondo? E chi lo sa? E chi se ne importa?

 

Morale (dell’autopsia, non del TdC): questo è un libro con dei seri difetti di trama, temi e caratterizzazione. La qualità della scrittura è buona, ci sono alcuni personaggi attraenti, delle bellissime descrizioni, dell’atmosfera, dei solidi dialoghi, e abbastanza tensione (soprattutto nella porzione elisabettiana) da catturare l’attenzione del lettore, ma tutto questo non basta.

 

E’ davvero un peccato che Manda Scott non abbia dedicato un po’ più di cura alla costruzione della trama e che non abbia maneggiato i suoi temi in modo un po’ più sottile: indipendentemente dal genere, ci sono alcune leggi della fisica narrativa che non si possono infrangere con impunità. Una è che la storia deve stare in piedi da sé, non per un atto di fede del lettore; un’altra è che le domande devono trovare risposta – non necessariamente le questioni filosofiche di fondo, ma di sicuro le domande sollevate dalla logica interna della storia; una terza ha a che fare con le regole interne della storia: l’autore crea queste regole, ma poi è tenuto a rispettarle se non vuole che la sua storia si afflosci su se stessa come un soufflé mal cotto; e un’altra ancora vorrebbe che si rispettasse sempre l’intelligenza del lettore, senza barare con le sue aspettative, senza sbattergli il messaggio sulla testa a ogni piè sospinto, senza pretendere che creda a tutto quello che l’autore gli dice.

 

Un romanzo, in fondo, è una bugia di quattrocento pagine – e il lettore lo sa benissimo quando prende in mano il libro. Il mestiere dell’autore non è raccontare la verità, ma raccontare storie con tanta efficacia e intelligenza che, giunto all’ultima pagina, il lettore sia al tempo stesso appagato dall’esperienza ed estremamente dispiaciuto di dover lasciare il mondo che è stato creato per lui. Se invece il lettore si sente imbrogliato e deluso, se non ha avuto quello che gli era stato promesso – o qualcosa di sorprendente in cambio – allora qualcosa non va.

Giu 9, 2010 - grilloleggente    2 Comments

Pezzettini di Teschio: parte IV

E veniamo, come promesso, all’Azzurra Pietra del Cuore.

 

La Pietra è un personaggio a pieno titolo. Splende, canta, parla per via telepatica, piange, rende il suo coustode molto felice, dà l’allarme quando ci sono i ladri in casa, insegna come effettuare complesse operazione chirurgiche, fa un ottimo caffè… Ok, il caffè me lo sono inventato io, ma tutto il resto viene pari pari dal romanzo: chi non vorrebbe un’Azzurra Pietra del Cuore? Non è meravigliosa? Be’, ecco, forse lo sarebbe come coinquilino. Come elemento di un romanzo, lo è assai di meno. Capiamoci: è un simpatico oggetto, ma spesso diventa un vero e proprio deus ex machina, specialmente nella storyline contemporanea. Proprio quel d.e.m. che era tanto di moda ai tempi di Sofocle, non so se mi spiego.

 

La Pietra non solo avverte Stella del pericolo imminente, ma le indica chi è degno di fiducia (con qualche eccezione, se vogliamo, visto che si fa sfuggire completamente il vero assassino, ma diffida per tutto il tempo di un innocente), la spinge nella direzione giusta quando Stella divaga, la conduce sempre al posto giusto per gli snodi della trama, offre folgorazioni intuitive al momento opportuno… Curerebbe persino le menomazioni di Kit, se lui lo permettesse, e anzi: alla fine lo fa, con o senza il suo consenso.

 

Insomma, per la maggior parte del tempo è la Pietra a muovere il libro in avanti, e se posso capire la fiducia implicita che Cedric Owen, uomo del Rinascimento, ripone nell’oggetto che ha guidato la sua famiglia per generazioni, con Stella è tutta un’altra questione. Quest’astrofisica del XXI Secolo, tosta e razionale, che non impiega nemmeno dieci minuti ad innamorarsi della Pietra, tanto da fidarsene più che di suo marito, mi resta un po’ di traverso.

 

Non che abbia torto: la Pietra parla con la voce dell’Autrice, e l’Autrice sa che cosa è bene per la sua protagonista. Forse anch’io, se mi capitasse per le mani uno zaffirone tanto gentile da passarmi le dritte del mio Autore in vista del Lieto Fine, gli darei retta… Oh, ma aspettate: non dovrei sapere che le dritte arrivano dall’Autore, giusto? Sapevo che c’era qualcosa che non andava…

 

E ormai siamo in dirittura d’arrivo: non ci resta che il finale.

Giu 8, 2010 - Somnium Hannibalis    Commenti disabilitati su Fotografie

Fotografie

Ecco le prime fotografie dello spettacolo Somnium Hannibalis, in una miscellanea delle due rappresentazioni (ordine narrativo ma altrimenti sparso) ad opera di Giorgio Andreasi [GA] e Giuliano Squinzani [GS]:

DSC02882.jpg “A Roma! A Roma!” [GA]

DSC02891.jpg

 “Tu non sei come gli altri, tu sei un Barca, e c’è un prezzo da pagare per questo” Achille Cominotti (Amilcare) e Simone Rossini (Annibale Bambino) [GA]

DSC03035.jpg

“Devi solo dare l’ordine, e la città è tua, stanotte stessa!” Domenico Zapparoli (Ufficiale), Maurizio Vaccari (Annibale), Adriano Fioravanti (Mercante) [GA]

IMG_9017GS.jpg

“Non volevo essere come mia madre, piena di amarezza per ogni donna che mio padre si prendeva!” Elena Gallio (Himilce), Luciana Frigeri (la Nutrice), Maurizio Vaccari (Annibale) [GS]

DSC03040.jpg

“Che cosa è rimasto di tutti quelli che ti seguivano?” Claudio Burchiellaro (il Re di Siria), Maurizio Vaccari (Annibale) [GA]

Qui ce ne sono altre.

Giu 7, 2010 - grilloleggente    Commenti disabilitati su Pezzettini di Teschio: parte III – in cui si parla di casse di sapone

Pezzettini di Teschio: parte III – in cui si parla di casse di sapone

Scatole di sapone è un modo di dire, naturalmente. Get off the soap-box, ovvero scendi dalla scatola di sapone, significa: piantala di predicare. E’ un invito che avrei volentieri rivolto alla signora Scott, molte volte in corso di lettura.

A tutti piacciono i libri con un messaggio; a tutti piace che il messaggio arrivi attraverso le scelte di personaggi convincenti, messi alla prova in una trama avvincente e imprevedibile; a tutti piace assai di meno quando il messaggio viene ripetutamente sbattuto sulla testa del lettore attraverso il semplice meccanismo di far predicare i personaggi. Predicare, predicare, e ancora predicare.

 

Oh no, ripetono ad nauseam I Buoni del TdC, non crediamo affatto che ci sarà qualche apocalisse soprannaturale nel 2012: crediamo invece che l’improvvida umanità per allora sarà riuscita a distruggere questo meraviglioso mondo che abitiamo.

 

Un momento, però: l’umanità? No, è chiaro, non tutta l’umanità, bensì l’egoistico, capitalistico, consumistico, guerrafondaio Occidente! Perché, vedete, gli sciamani Lapponi, che conducono una vita semplice e pura tra le nevi perenni sono innocenti e buoni. Loro non distruggerebbero mai il mondo, loro. Così come le altre brave persone che conducono vite altrettanto semplici e pure, che so, nelle savane, nei deserti, nelle steppe…

 

E sapete, tuttavia, chi è ancora peggio di un Occidentale? Provate a indovinare… ci siete quasi… fuochino, fuochino… Fuoco: un Occidentale maschio! Perché non so voi, ma mi rifiuto di credere che sia un caso se tutti i papabili assassini sono uomini, e tutte le donne del libro sono invece buone, sagge e capaci. L’Autrice non tenta mai nemmeno per sbaglio di insinuare il più lontano dubbio su Ursula Walker, Najakmul, Martha o Stella. Persino nel breve interludio con la Polizia dello Yorkshire, l’Ispettore (maschio) è un idiota superficiale e pieno di sé, e i neuroni in dotazione al reparto li ha tutti il Sergente (femmina). Tutte le donne del TdC sono profonde, intuitive e pure di cuore. Nella peggiore delle ipotesi, anche quando sono ossessionate da teorie bizzarre (e allora però sono meno che comparse), sono in buona fede. Il solito Davy Law ci dice che non ha mai visto una fossa comune di cui fosse responsabile una donna. Yawn. Gli uomini, invece, oh gli uomini hanno tutti le loro debolezze, I loro secondi fini, le loro zone d’ombra, il loro lato oscuro – il che, si potrebbe sostenere, fa di loro dei personaggi più complessi, ma ho tanto il sospetto che questa non fosse la preoccupazione principale dell’Autrice.

 

E chiudiamo l’argomento con un ultimo indovinello: Chi è persino peggio di un Occidentale maschio? Ma un militare maschio occidentale, ça va sans dire! Prendiamo Antony Bookless. Ci viene ripetuto in continuazione (e in un modo che vorrebbe essere sottile) che Antony Bookless è stato ufficiale dell’Esercito, che ha prestato servizio nell’Irlanda del Nord, che è stato un consulente militare per l’Iraq, e che è ancora uno storico militare. E’ vero, alla fin fine non è lui l’assassino, ma è chiaro che l’Autrice si aspetta da noi che diffidiamo di un uomo con un background militare. E una volta di più, qualora qualche lettore particolarmente denso avesse mancato di cogliere l’ovvia implicazione, il solito Davy Law, il Reietto Brutto e Incompreso, dal Cuore d’Oro e dalla Lingua Tagliente è lì per dirlo a chiare lettere: Bookless ha portato un’uniforme! Come ci si può fidare di lui?

 

Infine,  la ciliegina sulla torta: si direbbe che all’Autrice sia dispiaciuto un po’ non poter fare del Maggiore (o era Colonnello?) Bookless l’assassino. Perché sarà un caso, un candido, perfetto, assoluto caso, ma quando la malvagità, colpevolezza e avidità  del fintamente gioviale Fraser si rivelano nel dénouement, indovinate che cosa assume la sua voce? Una durezza militare!

 

Sottile, vero? Ma se vogliamo parlare di sottigliezza, la prossima volta ci occupiamo dell’Azzurra Pietra del Cuore.

 

Giu 6, 2010 - cinema, musica    2 Comments

As Time Goes By

A dire il vero, volevo postare la versione di Louis Armstrong, ma mi par di capire che ci siano questioni di diritti. Per cui, Frank Sinatra:

 

It’s still the same old story, a fight for love and glory, a case or do or die…

Buona domenica a tutti!  

Giu 5, 2010 - Somnium Hannibalis    2 Comments

Stasera

LocGov.png
Prima di stasera ci dovrebbero stare altre due prove, una filata e una tecnica (anche perché la musica non è ancora completamente a posto); l’Uomo delle Luci deve montare un impianto di proporzioni epiche; gente di due associazioni diverse deve montare due gazebo in posizioni non ancora ben chiarite; gente del Comune deve disporre le sedie e dare un secondo colpo di disinfestazione antizanzare; bisogna sperimentare l’accensione del fuoco nei bracieri; alle 6 e alle 7 ci sono le due visite guidate al Manufatto – durante le quali non si potrà provare in senso stretto; alle 8 un’altra associazione ancora cucina il risotto alla pilota; non appena l’aere principia a scurirsi bisogna fare i puntamenti alla velocità del fulmine…
… Dopodiché si va in scena. Sarà una lunga giornata.
Giu 4, 2010 - pennivendolerie    Commenti disabilitati su In Cerca Di Fortuna

In Cerca Di Fortuna

E così viene il giorno in cui, dopo avere scritto, riscritto, riletto, stampato, corretto, avuto ripensamenti, agito sulla base dei ripensamenti, riscritto nuovamente, ristampato, ricorretto, agonizzato sulla lettera d’accompagnamento, stampato anche quella, chiuso tutto in una busta – viene il giorno, dicevo, in cui si manda la nostra ultima opera Là Fuori, nel vasto mondo, in cerca di fortuna.

Ogni volta è un crampo, ogni volta si vorrebbe la buca delle lettere per riprendersi indietro il prezioso dattiloscritto, ogni volta si è presi da ogni sorta di abominevole dubbio di avere trascurato qualcosa di essenziale – oppure dalla folgorazione di come si sarebbe potuto fare tutto molto, molto meglio se solo… Di solito è questione di un quarto d’ora, poi passa tutto e subentra il senso di anticipazione. Non che l’attesa sia davvero più ragionevole: si fanno conti sull’efficienza delle patrie poste, speculazioni su chi aprirà il fatidico pacchetto, rimuginamenti sui tempi di risposta e, con tutto questo, si comincia a sussultare a ogni squillo di telefono e ad ogni approssimarsi di portalettere mezz’ora dopo essere tornati dall’ufficio postale. E poi… poi si vedrà, e a volte si vedrà per molto tempo, perché certe case editrici hanno tempi biblici, altre non rispondono affatto (à la Pascali’s Island), altre ancora ti colgono a tradimento e rispondono prima di subito – in genere “no grazie”.

Diciamolo: è uno dei bruciori di stomaco della pennivendoleria, ma si finisce con l’impratichirsi, con l’ispessirsi l’epidermide, con lo sviluppare strategie. Di mio, finora, ho accumulato un limitato numero di perle di saggezza. Non farina del mio sacco, solo consigli altrui che ho trovato efficaci e veritieri, filtrati attraverso l’esperienza personale.

1. Fare l’ultimo controllo su una copia stampata, non sullo schermo del computer. Sembra una quisquilia, ma fa tutta la differenza del mondo: in qualche modo, sullo schermo gli errori di battitura hanno una sciagurata tendenza a sfuggire. L’ideale sarebbe leggere tutto ad alta voce, aggiustare le magagne, stampare, leggere e segnare gli errori, far leggere a qualcun altro che segni gli errori, correggere al computer, ristampare e dare un’ultima lettura. Mortalmente tedioso, è vero, e non fingerò di dire che lo faccio tutte le volte, ma funziona.

2. La lettera d’accompagnamento è fondamentale: è il primo assaggio di scrittura che il destinatario vedrà, e c’è da scommettere che un assaggio di sintassi approssimativa, divagazioni innecessarie, fasla modestia o affermazioni stravaganti non lo disporrà bene verso il manoscritto. Meglio essere beneducati, essenziali e professionali, dare le informazioni rilevanti (fondamentalmente che cosa è il libro e chi è l’autore) e niente di più.

3. Informarsi per bene. Anche questo richiede tempo e pazienza, ma può fare molta differenza. Non è del tutto utile spedire indiscriminatamente. Le case editrici hanno siti web dove spesso (non sempre) si trovano istruzioni e preferenze per l’invio di manoscritti: sempre meglio seguirle dettagliatamente. In secondo luogo, non è una cattiva idea dare l’impressione di avere scelto la casa editrice a ragion veduta: un discreto riferimento a un autore particolare, a una collana specifica, a una linea editoriale tende a fare una buona impressione. Infine, con un po’ di pazienza non è impossibile individuare il nome di un editor a cui indirizzarsi: non è detto che il pacchetto finirà sulla sua scrivania, ma non si sa mai, e comunque si dimostra di avere fatto i compiti a casa.

4. Ricordarsi che, come regola, le case editrici rifiutano per lettera e si dichiarano interessate per telefono. Non è detto al cento per cento, ma in genere non è il caso di farsi venire la tachicardia alla vista di una busta intestata. Le notizie via email possono essere ambivalenti.

5. Non scoraggiarsi. La maggior parte delle volte, la risposta sarà qualcosa sul genere “abbiamo letto con interesse, ma i nostri programmi editoriali al momento non ci consentono…” eccetera. Qualche volta non ci sarà risposta affatto. Più di rado – e più felicemente – ci sarà il rifiuto motivato: no grazie, ci sono buone cose e cattive cose, questo va, questo non va, perché non ci manda qualcos’altro? La prima lettera di questo genere è un evento da festeggiare: segno inequivocabile che si è sulla buona strada!

Ecco. E adesso, siccome questo post non era teoria pura, esco per quattro passi in direzione dell’ufficio postale.