Giu 3, 2010 - grilloleggente    2 Comments

Pezzettini di Teschio: parte II – in cui, a fini scientifici, si svela il finale

Lunga e interessante conversazione post-prove con la regista e il primattore, ieri sera: una di quelle cose in cui si parla d’arte, vita e massimi sistemi. Tra l’altro, facevamo paralleli tra il modo in cui un musicista ascolta musica e il modo in cui uno scrittore affronta roba scritta: sempre con un lobo del cervello teso a catturare struttura, elementi, costruzione, sviluppo e ammenicoli vari.

 

Il che mi porta ad applicare al TdC una considerazione che ieri sera applicavamo ai gialli televisivi, ma che vale per qualsiasi storia abbia un colpevole da smascherare.

 

Prima, però, badate bene e ritenetevi avvertiti: se non volete sapere chi è il colpevole nel Teschio di Cristallo, non leggete questo post.

 

Se non v’interessa, o se v’interessa meno dell’ingegneria delle trame, tirem innanz.

 

Allora, quando in un giallo si può indovinare l’assassino sulla base della meccanica della trama, allora qualcosa non funziona. Non sto parlando di logica, ma di puro e semplice processo d’esclusione, in base al quale certi personaggi hanno una funzione così evidente (fornire informazioni al lettore, esprimere le convinzioni dell’autore…) che non possono essere il colpevole. Ora, non voglio negare che ci sia un certo grado di costruzione nel TdC, ma è quasi tutta nella sezione elisabettiana: il lettore sa fin dal primo capitolo che qualcuno è morto nella caverna dove è nascosta la pietra, e a un certo punto scopre che si tratta di Cedric Owen. Come ciò sia possibile, visto che tutti e ciascuno non fanno che ripetere come Owen sia morto e seppellito a Cambridge, rimane l’unico, e intendo davvero l’unico, elemento di dubbio.

 

Per quanto riguarda il giallo contemporaneo, temo che sia svolto in modo un nonnulla goffo. Per cominciare, c’è il modo in cui Stella va raccontando il suo grande “segreto” a chiunque le capiti a tiro. Ben prima della crisi finale, mezza Cambridge sa della Pietra Azzurra, e anche diversa gente ad Oxford. E se parte della comunità accademica inglese rimane all’oscuro, è solo grazie alla cautela del resto della combriccola, perché Stella proprio non sembra conoscere il significato della parola “discrezione”.

 

Ad ogni modo, la loquacità di Stella provvede il lettore di una teorica serie di possibili colpevoli (con il dubbio aggiuntivo che Kit possa essere in combutta con qualcuno di loro), ma quando il colpevole alla fine è rivelato, non è una sorpresa.

 

No, è piuttosto uno di quei momenti ‘Embè?’, non so se mi spiego. Se c’è un personaggio che non mostra mai un’ombra d’interesse a possedere la Pietra, e anzi ne ha paura, quello è proprio Fraser, l’allegro, amichevole, speleologico, saggio, scozzesissimo Fraser. E’ vero, ci viene detto che in realtà Fraser fingeva soltanto di temere la Pietra, ma il punto è proprio questo: ci viene detto, e mai mostrato, neppure obliquamente, neppure per finta. Così come ci viene detto che Fraser ha cercato disperatamente la Pietra per trent’anni, ma a quanto pare nessuno lo sapeva, e la cosa salta fuori dal nulla nella terz’ultima pagina, quando Fraser sta puntando una pistola alla tempia di Kit, e spiegando tutto a tutti quanti.

 

Della spiegazione, d’altra parte, c’è un gran bisogno, perché non c’erano indizi che conducessero a Fraser. Non aspettatevi di battervi la fronte ed esclamare almeno una volta ‘ah, ecco dove conduceva in realtà questo particolare che sembrava condurre altrove! A posteriori, è così chiaro!” No. Non è chiaro nemmeno a posteriori. Non ce lo saremmo potuti aspettare, semplicemente perché non c’era nulla da aspettarsi in proposito, e questo, a parer mio, si chiama barare. Peggio ancora, si chiama barare goffamente, perché in realtà, per il processo di esclusione di cui sopra, visto che quella di Antony Bookless è troppo ovviamente una falsa pista*, e ci è stato ripetuto fino alla nausea che Stella e la Pietra si fidano di Davy Law, l’assassino poteva essere soltanto il cugino Lawrence oppure Fraser. Dei due, l’uno. E quando Lawrence non compare sulla scena del climax finale (e che ne è di lui, a proposito? Vaporizzato nell’incendio della casa di Ursula?), rimane un solo sospettato. All’autrice piacerebbe che dubitassimo fino alla fine anche di Kit, ma siamo sinceri: quand’anche foste un malvagio in pelli d’agnello, se il vostro complice tentasse (con un certo grado di efficacia) di farvi fuori a pagina dieci, sareste ancora il suo complice a pagina duecentonovanta?

 

E qualora tutto ciò non bastasse, badate bene a questo: dopo che ci è stato ripetuto in ogni possibile salsa che la Pietra è la chiave per salvare il mondo, a Fraser non importa un bottone dell’armageddon impendente, del folklore maya e lappone, e di tutto l’alone mistico della faccenda. Lui vuole la Pietra perché è “uno dei più grossi zaffiri al mondo.” Ah.

 

Mi piacerebbe sperare che la conclusione voglia essere ironica, ma temo di no. Temo tanto che l’autrice stia predicando. Sarà un caso che il vilain della storia sia proprio l’unico cui importa molto meno dei poteri mistici della Pietra che del suo valore in denaro? Cattivo, Fraser! Cattivo!

 

Ma è pur vero che una tendenza alla predicazione permea tutto il libro, come si vedrà nel prossimo post.

 

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* Per indicare una falsa pista, un depistamento deliberato, l’Inglese ha questa bellissima espressione, a red herring, ovvero un’aringa rossa. A quanto pare, la locuzione origina nell’uso di trascinare un’aringa sul terreno per confondere l’olfatto dei segugi durante la caccia alla volpe. Certe volte, solo gl’Inglesi, vero?

Giu 2, 2010 - libri, libri e libri    Commenti disabilitati su Festa della Repubblica

Festa della Repubblica

Festa della Repubblica, oggi. Mi piace celebrarla ricordando una persona che la Repubblica l’ha servita con le stellette, in una posizione spesso scomoda e qualche volta ostracizzata in anni difficili, e che ha trovato il tempo di scrivere (anche se non di finire) un libro fuori dal comune.

Don Sergio Lasagna era un cappellano militare, personaggio pugnace, coltissimo, appassionato alla sua vocazione di sacerdote in uniforme, dallo sguardo acuto e dalla battuta pronta. Oltre alla sua posizione di cappellano, all’insegnamento, alla guida di un’emittente radiofonica cattolica, a letture vastissime e a una conoscenza enciclopedica del Greco e del Latino, Don Sergio si dedicava alla scrittura.

La Rivincita è il libro fuori del comune di cui dicevo: un romanzo filosofico, uno straordinario viaggio in un Paradiso contemporaneo che mescola ispirazione dantesca, spirito pungente, meravigliosa ricchezza inventiva, molta umanità e uno sguardo disincantato e intenerito insieme. Aggiungete uno stile personalissimo, vivido e raffinato, e un andamento un po’ magmatico – frutto forse di una mancata ultima revisione, ma affascinante di per sé. La Rivincita viene pubblicato privatamente e in tiratura ridotta a ventisette anni dalla morte dell’autore, ma per forza e per originalità – oltre che come testimonianza di una personalità notevole – meriterebbe una diversa attenzione editoriale. Chissà, magari in qualche futuro…

Giu 1, 2010 - grilloleggente    2 Comments

Pezzettini di Teschio: parte I

Cominciamo col dire che Il Teschio di Cristallo è un romanzo “multiperiod“, cioè combina due storie ambientate in periodi storici diversi, una delle quali è la chiave dell’altra. Nello specifico, la parte elisabettiana riguarda un medico (fittizio), custode di un misterioso artefatto di cristallo blu dotato di volontà (più o meno) propria. La Pietra del Cuore è un’eredità di famiglia, e Cedric Owen non sa troppo bene che cosa farne. Nel corso della sua metà della storia viaggerà fin nel Nuovo Mondo per scoprire di essere invischiato in una serie di profezie Maya riguardo alla fine del mondo nel 2012; farà abbastanza fortuna da rendere ricco il suo College (fittizio) di Cambridge; e infine metterà la pietra Là Dove Deve Essere, per il bene dell’umanità tutta (e dell’altra metà del libro). Nel 2007 a Cambridge, l’astrofisica e speleologa Stella Cody ha appena sposato Kit O’Connor (a sua volta dottore in qualcosa che non capiamo fino in fondo, ma probabilmente qualcosa d’informatico applicato alla crittografia/steganografia). Kit, vedete, è l’astro montante del College (fittizio) di Cedric Owen, e il suo sogno accademico è ritrovare la Pietra del Cuore. Perché si suppone che la Pietra sia un segreto segretissimo, eppurtuttavia, tutti lo sanno, e ancora più gente lo saprà prima della fine. E siccome Kit e Stella non sono i soli a volerla, prima della fine ci saranno anche morti e feriti. Quindi, per riassumere: stiamo parlando di un giallo intrecciato con un romanzo storico, entrambi conditi con una generosa spruzzata di fantasy.

Ciò detto, passiamo a chiarire che il TdC ha i suoi pregi. Personaggi, per dirne uno, cominciando da Cedric Owen, intelligente, intenso, di mente aperta, goffo e autoironico. E il suo grande amico Aguilar, nonostante sembri uscito da un film di Erroll Flynn. In età moderna, direi che le mie simpatie vanno a Kit, combattuto tra la sua passione per la Pietra e ogni genere di insicurezze improvvise dopo il ritrovamento della Pietra e il primo incidente… oh be’, immagino che svegliarsi invalidi dopo un volo di cinquanta metri, e scoprire che la propria moglie ha improvvisamente sviluppato una specie di unione mistica con quello che si credeva il proprio tesoro ritrovato non faccia bene all’autostima. Già, la moglie. Stella non è del tutto mal caratterizzata, e per esempio mantiene fino alla fine un certo scetticismo a proposito della profezia Maya, in un modo che contrasta bene con la pronta accettazione della storia da parte di Cedric Owen. Anche la frustrazione di Stella verso le reazioni tra il geloso e il depressivo di Kit è trattata in modo convincente; il modo in cui s’impadronisce allegramente del sogno di suo marito lo è un po’ meno. Stella non fa altro che ripetere che ‘deve’ fare questo o quello, e che ‘è la Pietra a decidere’ per lei… Non fa gran meraviglia che Kit, costretto su una sedia a rotelle, diventi un nonnulla insicuro. Ma su questo torneremo.

Con i personaggi minori, ahimè, veniamo alle dolenti note. Antony Bookless, Master del Bede’s College e mentore di Kit, presenta qualche ombra di complessità, completamente sacrificata alla necessità d’indirizzare tutti i sospetti su di lui, sospetti così ovvi, tra l’altro, da poter essere soltanto un tentativo di depistaggio. Gli altri personaggi sono malinconicamente tutti bidimensionali e/o nient’altro che plot-devices. Prima tra tutti Ursula Walker, la tosta-ma-raffinata antropolga che non solo è la maggiore esperta sulle profezie Maya ma, guarda caso, ha il segreto di Cedric Owen nascosto nella casa dei suoi avi; poi c’è Najakmul, sciamana (o si dice sciamanessa? Insomma, uno sciamano femmina) Maya, che tutto sa e tutto comprende; e che dire di Martha Huntley, la bella vedova intrepida che entra in scena a dieci pagine dalla fine senz’altro scopo che far innamorare il Capitano Aguilar, perché DEVE esserci una discendenza? poi ci sono Padre Calderon, il cugino Lawrence, Edward Wainwright, Nostradamus, e il sergente Jones, che entrano ed escono di scena per dispensare l’informazione giusta al momento giusto; e Davy Law, che (viene chiarito in modo singolarmente poco sottile) deve piacerci, Perché L’Autrice Ha Detto Così; e Fraser, lo Scozzese pittoresco per cui non si può non avere simpatia… Tutta gente che se ne va in giro utile ed inespressiva come i segnaposti del Cluedo, e tu, Lettore, li conti sulle dita: da una parte quelli puramente funzionali ad una svolta della trama, dall’altra quelli che sono lì soltanto come candidati al ruolo di Vilain. Chi fa cosa?

E questo ci porta ad un altro enorme difetto di questo libro… da vedersi nel prossimo post!

Mag 31, 2010 - grilloleggente    Commenti disabilitati su Pezzettini di Teschio: le truci intenzioni

Pezzettini di Teschio: le truci intenzioni

Non è che non legga mai fantasy, ma davvero non mi sono scomposta per la quantità di storiellone fantastico-avventurose fiorite attorno alla supposta fine del mondo nel 2012. Conto seriamente che i Maya si sbagliassero e prendo atto delle potenzialità che una profezia del genere offre al cinema e al mercato editoriale. Unico tra i numerosi titoli, Il Teschio di Cristallo di Manda Scott aveva suscitato in me qualche curiosità per un solo motivo: una parte della storia è ambientata in epoca elisabettiana. Può non sembrare granché, ma per me è abbastanza da giustificare almeno un tentativo. Tra l’altro, l’autrice si era creata un certo nome con una serie di romanzi incentrati su Boadicea, regina degli Iceni, tutt’altro che male. Metti mai…

Adesso, avendolo letto qualche tempo fa, posso dire con cognizione di causa che Il Teschio di Cristallo è un libro bizzarro. Premetto che si fa leggere, perché la signora Scott sa come creare ritmo e tensione, e le sue descrizioni sono spesso una meraviglia. La qualità della scrittura è davvero buona, abbastanza da trasparire inequivocabilmente anche in traduzione… E allora? si chiedeva un lembo del mio cervello mentre leggevo. Che cosa c’è che non va? E’ ben scritto; è mezzo giallo e mezzo romanzo storico; la parte storica è ragionevolmente accurata; la parte contemporanea è ambientata a Cambridge… perché diavolo mi lascia insoddisfatta?

Ebbene, mi lasciava insoddisfatta perché è un libro insoddisfacente. Sotto la vernice della buona scrittura, c’è tutta una varia ed affascinante collezione di difetti. Difetti gravi, difetti strutturali, difetti di caratterizzazione, difetti d’intento. Difetti che si sarebbero potuti eliminare, facendo de Il Teschio di Cristallo un buon libro ben scritto, anzi che un libro mediocre nonostante il modo in cui è scritto.

Ci ho rimuginato su, ed essendo la collezione di difetti in questione molto, molto istruttiva, ho intenzione di dissezionare molto dettagliatamente questo libro nel giro di quattro o cinque post. 

Sarà un’operazione un tantino sanguinolenta, e il finale sarà rivelato senza misericordia, ma è come Galvani: spellando la rana (povera rana!) si fanno interessanti scoperte sull’elettricità.  

Mag 30, 2010 - cinema, musica    Commenti disabilitati su Put On Your Sunday Clothes

Put On Your Sunday Clothes

Adoro i vecchi musical americani, con quell’aria ingenua e colorata, con quell’atmosfera da Il Mondo Come Dovrebbe Essere, con i guai risolti a suon di musica e passo di danza, con il sipario che si chiude sempre su un gaio numero di ensemble, con quelle canzoni che ti risollevano il morale anche se non vuoi…

Tutti sappiamo benissimo che la vita non è così, ma ogni tanto, per un’oretta o giù di lì, è bello far finta di pensare che tutto si possa risolvere con gli abiti della festa e una gitarella in treno!

 

Buona domenica a tutti!

Mag 28, 2010 - Somnium Hannibalis    4 Comments

Dietro Le Quinte

“E com’è venuto, dopo tutto, il colpo di stato? Era bello da vedere?” mi chiede M. (Annibale). E non lo so: ero in scena anch’io, ricordi?

Non me ne ricordavo più, ma da dietro le quinte non si vede nulla! Avevo sperato di vedermelo dalla platea, il mio spettacolo, ma naturalmente no, avendo io ereditato la parte di un giovane mercante cartaginese – durante il colpo di stato del 201 a.C.

Tuttavia posso dire che: a) con il pubblico davanti, il tutto ha acquisito un ritmo meravigliosamente sciolto, fluido e liscio; b) una volta aperto il sipario, il tempo comincia a scorrere in modo diverso, tutto rotola per la pendenza giusta e, prima di accorgersene, è già l’ultima scena; c) sto scrivendo cose solo limitatamente sensate, ma sono ancora un tantino lessa dopo un’ultima settimana di prove, di pasti saltati, d’insonnie, di patemi, arrabbiature, colpi di panico e sorprese. Ho bisogno di molte ore di sonno, grazie. Ah, e poi d): sono risalita su un palcoscenico per la prima volta dopo quasi quindici anni (e con scarso preavviso, if any at all), e mi è piaciuto moltissimo – quella specie di corrente tra la scena e il pubblico, il senso di sospensione, l’attesa tra le quinte, il ritmo del dialogo, il momento giusto, ma proprio giusto per dire quello che bisogna dire…

Ma è evidente che il mio mestiere resta quello di scrivere storie se, nella frenesia della giornata, qualche lobo del mio cervello ha trovato il tempo di cucire una storia addosso al mio mercante.

Per adesso è tutto. Spero di avere presto qualche fotografia da postare. Stasera si ricomincia a lavorare per la replica del 5 giugno.

Mag 27, 2010 - Somnium Hannibalis    1 Comment

Il Gran Giorno

Oggi è il gran giorno. Mancano dodici ore – minuto più, minuto meno.

Sto iperventilando.

Voglio emigrare – voglio emigrare a Tuvalu, o qualche altro posto senza teatri. Ieri alla generale (o era la tecnica? Ma se era la tecnica, quando facciamo la generale? E se era la generale, quando facciamo la tecnica?) è successo di tutto. Questo dovrebbe essere incoraggiante, in un certo senso. Voglio dire, da che mondo è mondo, una prova generale infelice conduce a una prima stratosferica, giusto?

Speriamo.

Nel frattempo posso dire che alcune scene, che ho visto oggi per la prima volta con le luci a posto, sembravano altrettanti quadri spagnoli. E questo è bene. La musica non mi piace alla follia, ma fa lo stesso: ho constatato che non interessa troppo a nessuno se a me piace o no la musica… Il telo per le proiezioni è stato un salvataggio dell’ultimo minuto – o meglio, lo sarà domani, quando sarà stato sistemato definitivamente. Stasera ne è crollato metà, ma sono dettagli.

La cosa più pittoresca e allarmante, però, è che ho raccattato per strada una parte. Oh, una particina, sia chiaro: cinque battute rimaste scoperte per un forfait medico-famigliare dell’ultimo minuto. “Tanto tu la sai a memoria, no?”

Come dicevo, sto iperventilando.

Più tardi, all’ora in cui la gente normale va a pranzo, io me ne vado a teatro, e la regista mi passa al tritacarne nel tentativo di farmi sembrare parte dello spettacolo, anziché una pezza.

Pensatemi, stasera. Pensatemi dietro le quinte in trepida attesa; pensatemi mentre mi mangio le unghie tra una fila di lance e un tavolino empire; pensatemi inopinatamente in scena con addosso un costume in prestito, nella scena con le luci di taglio che sembra rubata a El Greco; pensatemi con lo stomaco pieno di farfalle e poi – si spera – pensatemi in proscenio, all’esterno della riga, a raccogliere gli applausi insieme agli Histriones.

E questa, Signori, – tanto per parafrasare Annibale – sarà una notte felice.

Mag 26, 2010 - considerazioni sparse, pennivendolerie    Commenti disabilitati su Battaglia Navale

Battaglia Navale

Questa bella foto è opera di Claudio Gobbetti, e ritrae l’affondamento della flotta viscontea a Governolo nel giorno di S.Agostino del 1398 – ricostruito per il son-et-lumière “La Notabile Fabbrica”: i Viscontei andarono all’assalto del borgo fortificato di Governolo, lungo il fiume Mincio, nell’intenzione di muovere su Mantova, ma – come racconta l’ingegnere seicentesco Gabriele Bertazzolo, “i difensori mandando loro addosso le acque per mezzo della Chiusa, gli affogarono quasi tutti nelle fosse, e la maggior parte de’ principali soldati e capitani […] Ed alla fine il Visconti vi perdé si può dire tutto l’esercito, con 34 pezzi di bombarde, forse 50 galeoni, ed altre barche armate, con tutti i i padiglioni, baliste, catapulte, carriaggi, vettovaglie, ed altri armamenti di guerra, con tanti migliaia d’uomini e soldati a piedi ed a cavallo, poiché anche quelli, che si trovarono in luoghi, ove non arrivarono le acque, furono presi e morti.W%20-%20DSC04511b.jpg

 

Lo spettacolo (di cui ho curato testi e regia) è andato in scena nell’estate del 2008, per celebrare l’inaugurazione del restaurato Manufatto del Bertazzolo-Pitentino.

Mag 24, 2010 - grilloleggente    2 Comments

Pag. 319

Finito! Se piace agli dei della letteratura, ho finito L’Eleganza del Riccio.

Allora, ammetto che il finale mi ha sorpresa. Ho temuto abbastanza a lungo che la Portinaia finisse con lo sposare Monsieur Ozu, e…

C’est bien, prima di proseguire lo faccio di nuovo: se non avete letto L’EdR fermatevi qui, volete? Anche se credete di non leggerlo affatto, anche se vi rifiutate a priori di sfiorarlo anche soltanto con l’orlo della veste, questa serie di post è la prova che non si può mai dire. E qualora doveste leggerlo, credetemi, sarete lieti di avermi dato retta e di esservi fermati qui.

Detto ciò, è vero: twist in the tail. La morte di Renée è giunta inaspettata: proprio quando sembrava che la vita della Portinaia fosse destinata a cambiare, ecco che ci si mettono un impulso generoso e un furgoncino della lavanderia. Renée muore serena in quello che forse è il miglior momento possibile, sulla soglia della felice risoluzione. Ho sempre pensato, indipendentemente dal Riccio, che un passo dalla piena realizzazione sia l’apice della perfezione – e che tutto quello che viene dopo tenda ad essere una fregatura. Renée, tutto sommato, non finisce male: è finalmente in pace con sé stessa e con i suoi fantasmi, è rasserenata e raddolcita, ha scoperto di essere capace di amare e ha in mano la promessa della felicità. Risparmiarsi la quotidiana realtà da Mme Ozu, la reazione del condominio, un drastico cambiamento di abitudini a cinquantaquattro anni – o qualunque altra forma di piccola meschinità dovesse seguire il Momento Perfetto non è poi così male, almeno in via teorica. Muriel Barbery regala a Renée la Portinaia la felicità incorrotta, la promessa senza la disillusione, la vigilia senza l’indomani, e non sono cattivi doni da fare a un personaggio.

Mi è piaciuto, allora? Sono disposta a dire che dopo tutto il libro mi è piaciuto più di quanto pensassi?

Temo di no.

Per quanto apprezzi l’impianto concettuale del finale, restano un paio di fatti che me lo inacidiscono alquanto. Per cominciare, il complesso da sorella morta della Portinaia, di cui leggiamo per la prima volta – e del tutto out of the blue – a pagina 280 o giù di lì. C’è il pianto liberatorio con la IDI, apprendiamo che le spinosità di Renée si devono alla morte della sorella sedotta e abbandonata, e la cosa sembra finire lì. Venticinque pagine più tardi, abbiamo un secondo pianto liberatorio, stavolta con Monsieur Ozu in un ristorante giapponese: apparentemente, quello con la IDI non era stata sufficiente. E può darsi che sia solo questione della mia conclamata durezza d’animo, ma questa catarsi a puntate per me non funziona. Finisce con l’annacquarsi, col non essere veramente significativa nessuna delle due volte – al punto che, dopo avere letto la versione sushi, sono tornata indietro a rivedere la versione IDI, perché mi pareva di essermi persa qualcosa. Di essermi persa la rilevanza dell’intera faccenda, ad essere sincera: questa motivazione da melodramma appiccicata sopra tutto questo lungo disquisire di arte, filosofia e camelie mi fa davvero un po’ l’impressione dei cavoli a merenda.

Poi c’è tutto questo repentino affratellamento con la IDI. Possibile che si siano ignorate per dodici anni e all’improvviso vadano da sospettoso vicendevole scrutinio al gemellaggio d’anime in un paio di settimane? Tanto che la Portinaia consideri la IDI una sorta di figlia spirituale e la IDI si senta sconvolta e trasformata dalla morte della Portinaia? Anche supponendo che simili epifanie possano accadere nella realtà (e lo ammetto in via puramente teorica e con un certo scetticismo), in un libro suonerebbero meglio se fossero preparate con qualche anticipo.

E infine, com’era penosamente ovvio fin dal principio, la IDI non si suicida affatto: ha trovato nell’amicizia con la Portinaia il buon motivo per vivere. Posso dire che l’avevo detto?

Quindi, insomma, l’ho letto. L’ho letto tutto, sono partita prevenuta e strada facendo non ho trovato gran motivi per cambiare opinione. E’ senz’altro un libro astuto, ma a parte questo trovo pochi meriti da riconoscere a Mme Barbery. LEdR è una miscela di luoghi comuni, arte&filosofia in pillole, captatio benevolentiae mascherata da tutt’altro e acidità sociale, il tutto confezionato con occhio decorativo e una punta di snobismo.

Evidentemente se si deve giudicare dal successo enorme, la ricetta funziona.

Mag 23, 2010 - musica    Commenti disabilitati su Così Fan Tutte

Così Fan Tutte

E’ una settimana che ascolto e riascolto e canterello (rigorosamente tra me*) Così Fan Tutte, e quindi non potevo esimermi. L’indiavolato finale del I Atto, nella produzione di Glyndebourne del 2006, con un cast di gente non stranota – con la possibile eccezione di Rivenq/Don Alfonso – ma in gamba, la direzione di Ivan Fisher e la spassosa, movimentatissima regia di Nicholas Hytner.

Buona domenica a tutti!

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* Però è una settimana che, tutte le volte che non capisco qualcosa, rispondo “Parla un linguaggio che non sappiamo”. La famiglia sospira e sopporta.