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Giu 15, 2016 - libri, libri e libri    Commenti disabilitati su Le Cose che Piacciono a Me

Le Cose che Piacciono a Me

Ecco le coseÈ la metà di giugno, o Lettori.

Non si direbbe – o almeno non lo si direbbe dalle mie parti,  dove ci godiamo un diluvio dietro l’altro – ma l’estate è a un passo. E, come ogni anno, Ad Alta Voce rompe le righe fino all’autunno.

Chiudiamo questa sera, all’Ostello dei Concari di Governolo (dettagli qui), con un incontro dal tema “Ecco le Cose che Piacciono a Me.”

Ricordate Tutti Insieme Appassionatamente? Julie Andrews che cinguetta con i fanciulli Von Trapp?

Ecco, una cosa così. Letture tratte dai libri che ci piacciono di più, o a proposito delle cose che ci piacciono tanto. Libri preferiti, posti, idee, passioni, ricette… Sarà come un negozio di giocattoli ideale. EccoleO magari di dolci… (Tra parentesi, quale delle due idee vi rende più felici?)

Se siete da queste parti, perché non vi unite a noi – portando qualcosa da leggere o solo per ascoltare? Sarà divertente, sarà un inizio d’estate diverso. Saranno cose che ci piacciono.

A questa sera…

Gen 29, 2016 - angurie, grilloleggente, libri, libri e libri, romanzo storico    Commenti disabilitati su Dentro Un Libro

Dentro Un Libro

12647153_504376653067983_4012154964606394078_nLa cosa qui a sinistra mi è giunta via Facebook – a me e ad altra gente – da parte di M. E quindi è tutta colpa sua, vedete? Non mi si può coinvolgere in una cosa del genere e pensare che mi limiti a rispondere con un titolo e basta…

E non si può perché da piccola leggevo Gianconiglio ed ero innamorata della biblioteca del Professor Dindon – che invece dei libri aveva delle porte che permettevano di entrarci, nei libri… E perché anche adesso che piccola non sono più, l’idea di quella biblioteca continua a sembrarmi almeno tanto attraente quanto quella del viaggio nel tempo. Se non addirittura lievemente di più.

Quindi non era come se potessi giocare a questo gioco a cuor leggero, giusto? O magari dapprincipio ho pensato di sì – ma dopo avere resistito alla tentazione di rispondere Lord Jim…

Sì, lo so. Non sembro nemmeno io. Ma il fatto è che ho affrontato la tentazione e ho resistito. O quanto meno… Qualche anno fa avevo scritto un piccolo racconto in proposito: la prossibilità di entrare in un libro, Lord Jim, il non-naufragio del Patna, la tentazione di interferire – ma poi… che ne sarebbe della storia se si interferisse a quel punto? Non era precisamente il tipo di esperienza su cui investire un desiderio usa-e-getta. Desktop-tablet-book-wallpapers-The-Book-of-Secrets-thumbnail

Quindi, dicevo, a quella tentazione ho resistito e, mentre consideravo possibilità alternative, ho cominciato a pormi domande di tipo tecnico. Per dire, che significa di preciso “un giorno”? Un giorno all’interno della storia – e se è così, lo scelgo io o mi capita in sorte? Oppure un giorno della mia vita – e allora a quanto corrisponde in termini del libro? Quel che posso leggere in un giorno o che altro? E mentre ponderavo questo genere di particolari, ecco che mi capita fra capo e collo la risposta di F., cui piacerebbe entrare in Uccelli di Rovo, nel ruolo di Mary Carson.

book-characters-coming-to-life-as-boy-reads-bmpE questo cambia le cose, perché avevo pensato che nei libri ci si entrasse come osservatori neutrali (e magari incorporei ed invisibili) oppure come personaggi aggiuntivi… Se invece ci si entra nel ruolo di un personaggio già scritto, è tutta un’altra faccenda. Per esempio, che succede al mio giorno quando il personaggio in questione non è in scena?  Perché se non voglio il ruolo del protagonista, odds are che sia fuori scena per parti consistenti della trama… Ammettiamo che scelga Rapito: non posso entrarci nei panni di Alan, perché Alan lo vorrei incontrare, e di sicuro non vogli entrarci nei panni di quell’idiota ottuso che è David – ma quale altro personaggio è in scena e a contatto con i protagonisti per un “giorno” intero? *

Ed ero a questo punto quando è arrivata l’ulteriore risposta di D., che invece nei libri vorrebbe book_world-1680x1050entrarci come sé stesso (I think) per visitare i posti descritti nei libri – certo di trovarci tutte le avventure che si possono volere. E questa è un’ulteriore e interessante possibilità, a dire il vero – anche se nel mio caso si tratterebbe più di tempi che di posti.

Altri tempi – o, più precisamente, la visione di altri tempi. Il Medioevo pittoresco e irreale di Scott? L’era elisabettiana da fondali dipinti di Josephine Preston Peabody? O quella tramontante e malinconica di Bryher? O quella amarognola e brillante di Burgess? O la Corfù nonsense di Durrell? O le fiamme notturne dei Gordon Riots secondo Dickens?

Cartoon Characters Coming Out Of A BookEcco, sì: credo che alla fin fine questo dovrebbe essere il mio criterio di scelta. Come R., che invece ha scelto il Segreto del Bosco Vecchio in cerca di un’atmosfera, farei bene ad andarmene in cerca dell’interpretazione di un’epoca. Di colori e luci e pittoresche occorrenze. E poi, una volta là – una volta allora – di certo le avventure arriverebbero.

Quanto a scegliere un libro… oh, non ho nemmeno cominciato. Ma almeno adesso ho un’idea di come provare a scegliere.

E voi, o Lettori? In che libro vi piacerebbe passare una giornata?

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* Be’, forse in realtà ci sarebbe Cluny MacPherson…

 

 

Dic 21, 2015 - libri, libri e libri, Natale    Commenti disabilitati su Natale per Iscritto I

Natale per Iscritto I

ChristmasbooksNatale – tema irresistibile su cui scrittori e sceneggiatori ci si buttano a pesce. Bisogna ammettere che è un device narrativo ottimo perché, oltre ad essere una circostanza di cui il lettore ha sicuramente esperienza, offre un’ambientazione pittoresca, possibilità di conflitto quasi infinite, ogni genere d’interpretazione… E si presta ad essere il tema unico di un racconto o di una poesia, oppure un episodio in un romanzo.

In questa seconda guisa, può venire usato a fini di caratterizzazione (come si comporterà a Natale il personaggio che abbiamo già visto all’opera in altre circostanze?), per creare incidenti (dalla cena con i parenti mal sopportati all’omicidio, a dire il vero), per sottolineare un momento lieto (aggettivo non casuale: quanti libri finiscono per Natale?) oppure per offrire un contrasto drammatico (tutte quelle carole natalizie e lucette dorate, e al Nostro capita di tutto!)… Non c’è quasi limite a quello che un romanziere può fare con un 25 dicembre. Qualche esempio?LittleWomen

Riderete, ma il primo Natale che mi viene in mente è quello che apre Piccole Donne, di Lousa May Alcott. Il libro comincia proprio con le quattro sorelle March intente ai loro preparativi natalizi: papà è lontano in guerra, i soldi sono pochini, ma questo non impedisce loro di essere allegre e sagge fanciulle. Incontriamo Meg, Jo, Beth e Amy mentre organizzano una recita per i loro amici e discutono su come spendere la mancetta della vecchia zia bisbetica, e la Alcott ci presenta le sue protagoniste con il mezzo un po’ ovvio ma efficace di far scegliere a ciascuna il suo regalo: la bella Meg vuole un cappellino nuovo, Jo, l’intellettuale di famiglia, un libro; la timida Beth sogna della musica per pianoforte, mentre Amy, artista in boccio, sceglie dei colori. Poi finiranno col comprare dei regali per la mamma, invece che per sé, mostrandoci che brave e generose ragazzine siano. E il giorno di Natale… altre piccole rinunce in arrivo, ma niente paura: la generosità è il premio di se stessa, e poi ci sono anche premi più tangibili: ecco esposti personaggi principali, temi e ambientazione. Il II capitolo di Piccole Donne è qui*. Non a caso il romanzo finirà con un altro Natale, completo di nuovi amici, bei regali, riconciliazioni famigliari e, meraviglia delle meraviglie, il ritorno del padre!

OrangeUn Natale molto ma molto meno lieto è quello che vediamo alla fine del II Capitolo di Ragazzo Nero, il romanzo autobiografico di Richard Wright. Il giovanissimo protagonista, un bambino di colore nel Missisippi degli Anni Dieci del secolo scorso, riceve come regalo di Natale un’arancia, e passa la giornata cercando di farla durare il più a lungo possibile. La annusa a lungo, la succhia pian piano, poi mordicchia la buccia pezzetto per pezzetto. Richard si è già presentato: irrequieto, sensibile, sveglio, sognatore. L’arancia di Natale diventa il simbolo di un’infanzia povera e priva di prospettive, e anche dei sogni da coltivare, da assaporare prima che finiscano. Il giorno di Natale di Wright è come un fascio di luce di taglio: riesce solo a mettere ancora più in rilievo le ombre pesanti che circondano il piccolo Richard e minacciano di soffocarlo.marcovaldo_N

Poco allegro, pur se più leggero, è il Natale di Marcovaldo, di Italo Calvino, che mette alla berlina con amarezza garbata il lato consumistico delle festività, la corsa al regalo aziendale, l’assuefazione a quella che dovrebbe essere la meraviglia del Natale, la bontà liofilizzata a cura dei programmi ministeriali… leggete qui la motivazione offerta dai figli di Marcovaldo per la necessità di “fare dei regali a un bambino povero”. Si sorride, ma si sorride storto. A due righe dall’inizio, prim’ancora che gli zampognari entrino in scena, si vede già che il Natale per Calvino è un canale in più per l’ingenuo e rassegnato buonsenso del suo protagonista.

PoggioIMperialeE adesso un’autrice italiana che pochissimi conoscono. Emi Mascagni, la figlia del compositore, pubblicò un certo numero di novelle e romanzi per fanciulle, tra cui il delizioso Compagne di Collegio. Premessa: pressoché inutile cercarlo, visto che l’unica edizione (per quanto ne so), Garzanti 1941, non è più in commercio da secoli. Qualche eroica biblioteca ne ha una copia, io ne ho una copia malridotta che era stata regalata a mia nonna, e confesso di non averne mai viste altre in giro. Detto ciò, CdC racconta l’ultimo anno di Emi nell’esclusivo collegio di Poggio Imperiale, a Firenze. Stiamo parlando di prima della Prima Guerra, quando si entrava in collegio a sei anni e se ne usciva a diciassette, e ci si stava per tutto l’anno tranne le vacanze estive, compreso il Natale. Il capitolo “Dicembre” arriva quasi a metà del libro, fa la cronaca dei preparativi di questa cittadella tutta femminile: bambine, maestre e direttrici, comprese le ragazze dell’ultimo anno, quelle che si apprestano a trascorrere il loro ultimo Natale in collegio. Qui siamo nello spirito più classico: la recita di Natale, la neve, il presepio, i pacchi di dolci, i piccoli regali tra amiche, la messa cantata e, a riscattare il quadretto che altrimenti sarebbe un nonnulla oleografico, una specie di nostalgia in prospettiva. La consapevolezza amarognola della fine della fanciullezza, di qualcosa che scompare per non tornare mai più. Emi narratrice presta a Emi diciassettenne non solo gli occhi di chi guarda per l’ultima volta, ma uno sguardo adulto e pieno di nostalgia. Nella scena più dolce, è il Vecchio Natale (una sorta di spirito semi-dickensiano legato al Collegio) a passare per le camerate e a contemplare malinconicamente le ragazze che se ne andranno per non ritornare. Emi Mascagni si serve del Natale per portare in zona-lucciconi il tema di fondo del suo libro: una malinconia che si fa strada nella spensieratezza dell’adolescenza, un senso di fuga, di irreparabilità, di fine…

Emi Mascagni è una ricattatrice morale. E anche Louisa Alcott lo è. Ma lo è anche Dickens, e in fondo anche Richard Wright. Calvino non lo è, più che altro perché si fa gioco del ricatto morale natalizio invece di praticarlo ai danni del lettore. Si potrebbe dire che, nei romanzi, il Natale offra il destro per una ricca e fiorente attività ricattatoria, che funziona tanto meglio perché è basata su uno specifico presupposto: a Natale (o a proposito del Natale) siamo tutti felici di essere ricattati.

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* La traduzione è così così, e nemmeno accuratissima. Il peggio però è l’irritante midi di sottofondo: da leggersi con l’audio basso o, meglio ancora, spento. (Vale anche per Calvino).

 

Biblioteche

BibltEssendo cresciuta con la benedizione di una casa stracolma di libri, sono giunta alla tenera età di 23 anni senza essere mai entrata in una biblioteca per piacere. In biblioteca si cercavano i testi di studio che non si potevano o volevano comprare, e questo era quanto.

D’altra parte, alla pur bellissima Teresiana di Mantova, quando ero una ginnasiale timida e impressionabile, mi sentivo sempre lievemente in colpa, prim’ancora di avere fatto alcunché, tanta era la severità con cui il personale guardava gli studenti, questi vermicelli di terra, e questo non alimentava precisamente il piacere di leggere; e la biblioteca di Giurisprudenza a Pavia era funestata dalla presenza di una bibliotecaria la cui missione sembrava essere quella di piazzarsi nel punto da cui tutti la potevano sentire e ululare i fatti suoi per ore e ore ogni giorno, il che non era propizio alla concentrazione.

Il mio primo amore in fatto di biblioteche è stata la Humanities Library dell’Università del Galles, College of Cardiff. Dopo avere biblcappurato che la mia stanzetta nel pensionato poteva contenere un numero limitato di libri, ero dovuta correre ai ripari, e cercarmi una fonte di letture che potessi restituire una volta terminate. Confesso che alcuni libri li ho restituiti proprio malvolentieri, ma considerando che nel corso del mio anno Erasmus ho letto tutta Jane Austen, tutto Conrad, tutto Kipling, tutto Walter Scott (tranne The Heart of Midlothian), tutte le sorelle Bronte, tutto Forster, una buona quantità di Thackeray, Henry James, Dickens, le signore Gaskell e Radcliffe, George Eliot, Thomas Hardy, Hope e un certo numero di altri sparsi e vari, credo che i miei genitori mi siano stati grati di non avere comperato e poi spedito a casa tutto ciò. Tra l’altro, la HL era completamente informatizzata, ed era tutto così semplice, ragionevole, efficiente…

Poi, siccome è evidente che imparo con molta lentezza, sono dovuti passare altri due lustri e mezzo prima che trovassi una nuova biblioteca con cui fidanzarmi. Da qualche anno, tuttavia, sono felicemente accasata con la Biblioteca Baratta di Mantova, che è quasi una reincarnazione della HL in un edificio molto più bello: informatizzata, efficiente, tranquilla, provvista di personale disponibilissimo e capace… Ha anche l’aria condizionata e una macchinetta che vende piccole lattine di coca-cola ben fresca, dettagli da non disprezzare quando si passano molte giornate estive a fare ricerche bibliografiche.

biblbarattaOrmai ho imparato la procedura: cerco anticipatamente quello che mi serve  sul sito del Sistema Bibliotecario Nazionale, arrivo in biblioteca con il mio elenco di titoli e collocazioni, compilo le mie richieste ed è fatta. Se poi qualcosa proprio non c’è, esiste questa meraviglia, il prestito interbibliotecario. Ormai al Baratta mi conoscono. Sanno che me ne arrivo con richieste eccentriche di libri all’altro capo del continente o robe prestate per l’ultima volta nel 1934, oppure rastrello tutte le traduzioni disponibili di una data opera, oppure mi accampo lì per giornate inter prendendo in consultazione mezze dozzine di libri per volta… Ormai sono rassegnati a me, occasionalmente un pochino incuriositi, ma sempre, sempre sempre d’aiuto.

In realtà, di recente e dopo una lunga ristrutturazione, ho cominciato a riscoprire anche la Teresiana, dove le cose non sono più com’erano durante la mia impressionabile adolescenza… O forse sono io che sono cresciuta – ma ormai mi sono affezionata al Baratta – dove, tra l’altro e non del tutto trascurabilmente, è molto più facile parcheggiare.Boo

Qualche volta ci vado anche a scrivere. Non tanto spesso quanto potrei, dovrei o vorrei, forse. Perché una volta installata là, senza distrazioni e senza interruzioni, finisco sempre con lo scrivere parecchio – solo che tante volte la pigrizia e i venti km tra qui e la città finiscono per avere il sopravvento. Mi dico sempre che col tempo diventerò più brava, ma… hm. Per ora, più che altro, è una fonte di libri.

Per dire, l’altra settimana ho passato una giornata intera a lavorare con una certa tragedia ottocentesca per una cosa di cui vi saprò dire in un prossimo futuro, mentre sabato ho restituito una traduzione del Faustus e prolungato il prestito di un’altra, ne ho consultate altre due e presa in prestito una terza – e, mentre ero lì, ho ritirato Stage to Screen, un favoloso libro sull’utilizzo di tecniche teatrali nel cinema muto… E sì, lo so: li devo restituire quando li ho finiti, ma non credo di poterlo davvero considerare un difetto del Baratta.

E voi, o Lettori? Quali sono le vostre biblioteche preferite? Ci andate per studio? Per documentazione? Per lavoro? Per diletto? Per leggere? Per scrivere? Do tell…

Ago 25, 2015 - Genius Loci, posti    2 Comments

Genius Loci

Genius lociSto pensando che mi piacerebbe davvero riprendere e portare in giro Scrittori & Città, le conferenze che avevo tenuto due o tre secoli orsono alla UTE di Mantova. L’idea – credit where it’s due – era partita dalla signora Paola Donati, e io avevo contribuito al ciclo con cinque titoli. Bel tema, un sacco di possibilità interessanti, argomento che mi sta a cuore…. La ricordo come una bella esperienza.

E sì – l’argomento mi piace parecchio. Ho sempre creduto all’alchimia fra posti e persone: posti e persone si costruiscono a vicenda, cosa che ho imparato in un’altra vita, quando costruivo case. Oh, d’accordo: tetti di case, ma il concetto non cambia e vale ancora di più per le città.

Tutti noi siamo, almeno in parte, il prodotto dei posti di cui assorbiamo la cultura, il clima sociale (e anche quello meteorologico), le idee e le tradizioni, di cui sfruttiamo le opportunità o subiamo gl’inconvenienti. Lo scrittore, che per sua natura è una combinazione tra una spugna e un frullatore, oltre ad essere un prodotto dei suoi posti può diventare anche l’osservatore, l’interprete e, talvolta, persino l’artefice.

Pensiamo a Emily Brontë e alle brughiere dello Yorkshire. Emily amava le sue brughiere e le ha ritratte, ricreate e Lorna-Doonedrammatizzate nel suo romanzo con tanta efficacia che tutti noi associamo all’idea di brughiera la voce di Cathy che chiama Heatcliff nel vento. Attraverso Cime Tempestose, le brughiere di Emily sono diventate le brughiere di un sacco di gente che ha visto o non ha visto una brughiera per davvero.

Altre volte l’associazione non è solo geografica, ma anche storica. Pensiamo alle varie componenti sociali della Sicilia ottocentesca ritratte nei romanzi di Verga, di Tomasi di Lampedusa e di De Roberto, per esempio. Oppure all’idealizzazione romantica del Sud degli Stati Uniti alla vigilia della Guerra Civile compiuta da Margaret Mitchell in Via Col Vento. Perché non è affatto detto che lo scrittore debba essere obiettivo o scientifico: i romanzi non fanno cronaca, ritraggono un’era, un’atmosfera, un clima… in un posto specifico.

SalammboPoi ci sono autori vagabondi o cosmopoliti, autori che scrivono di molti posti che hanno visto, che non hanno mai visto o che hanno inventato, autori che ricercano sui libri, autori che immaginano, autori cui non importa molto del posto in cui si trovano. Byron ha trascorso molto tempo a Venezia, e la Venezia delle sue opere è deliberatamente una collezione di fondali d’opera, mentre la Grecia di Durrel è ritratta attraverso una spessa lente nonsense. Per contro, i Caraibi di Salgari sono pura fantasia, così come la Russia di Dumas e l’Italia della signora Radcliffe. Oppure c’è un Flaubert, che, prima di scrivere Salammbo, se ne va in Algeria e Tunisia, a caccia di colori e di luci: “…il cielo diventa di un verde pallidissimo e il mare si rischiara sotto questa grande striscia indefinita… ormai ci sono pochissime stelle, molto diradate; tutta la parte sud e ovest di Cartagine è di un biancore brumoso…” Ci si legge l’ansia puntigliosa di ricreare questo posto (una Cartagine ormai morta da venti secoli) quando sarà di nuovo in Francia, seduto alla sua scrivania.Utopia

Ci sono anche autori che inventano i loro posti: Swift e Lilliput, Thomas More e Utopia, Hope e la Ruritania, Cyrano e i Regni della Luna e del Sole. E il discorso appare meno peregrino quando si pensa a come questi posti inventati rispecchino, distorcano, idealizzino, mettano in parodia o in satira dei posti reali.

Infine ci sono autori che finiscono con l’incarnare un luogo perché non solo le rappresentano ripetutamente nella loro opera, ma a loro volta rappresentano tipicamente un’epoca, un modo di vita, una generazione, una corrente intellettuale. Questi legami sono particolarmente evidenti con quelle città che hanno svolto il ruolo di centri intellettuali. In una grande città piena di gente che va a teatro e legge i giornali, che crea e segue le mode, che sperimenta in prima battuta i cambiamenti sociali e le innovazioni, lo scrittore ha una quantità infinita di stimoli, di contatti, di possibilità e di pubblico. Le città, con le corti, le università, le biblioteche, i musei, le cattedrali, i caffè, i mercati, i teatri, l’umanità fitta, varia e affamata di storie e parole, in tutte le epoche attraggono gli scrittori come calamite, li lusingano, li portano alla fama o li relegano nelle soffitte.

DickensLondonE in cambio, ogni tanto, uno scrittore coglie lo spirito di una città, lo assorbe, lo fa suo, gli dà forma e colore e lo consegna alla letteratura. Qualche volta la città diventa un personaggio a pieno titolo, qualche volta una cornice pittoresca, o una quinta teatrale, o un’ispirazione inesauribile, o un simbolo, o un’idea. Una città di carta e inchiostro può essere tanto varia e complessa quanto la sua controparte di mattoni.

Provate a pensare all’amore/odio tra Dickens e la sua Londra fatta di prigioni, botteghine, tribunali, strade sudicie, slums e ponti, immersa nella nebbia, offuscata dal fumo, nera di fuliggine, eppure brulicante di vita. Non è detto che Londra fosse così – eppure la forza della visione di Dickens è tale da condizionare ancora oggi quella dei suoi lettori: a due secoli abbondanti di distanza, tutti andiamo a Londra e cerchiamo Dickens.

Questo è, in definitiva, il sugo del legame tra uno scrittore e una città. È quel che avevo cercato di indagare e raccontare in Scrittori & Città – e adesso mi ritrovo ad averne nostalgia, e mi piacerebbe rispolverare i risultati. Mi metterò in cerca di posti – ma intanto, se a qualcuno da qualche parte interessa sentirmi bagolare di Londra, Parigi, Vienna ed Edinburgo attraverso le opere dei loro numi tutelari letterari, fatemi sapere. C’è un form, qui in fondo alla colonna a destra, chiamato “Domande, idee, dubbi, curiosità?” Contattatemi – e ne discuteremo.

Lug 3, 2015 - grilloleggente    2 Comments

Baratti

book_swapVi ho mai raccontato di Polly?

Polly e io abbiamo condiviso per quattro anni una stanza di collegio e, pur volendoci un gran bene, per quattro anni ciascuna di noi ha sospirato con tristezza e scetticismo sui gusti letterari dell’altra.

All’epoca, Polly leggeva avidamente Tom Robbins, gli Scandinavi e ogni Sudamericano possibile e immaginabile. Io divoravo Conrad (tutto, tutto, persino i libri brutti), un sacco di saggistica storica e tutti i romanzi navali su cui potevo mettere le mani.

Tuttavia, lo spirito missionario è insito nella natura umana, e a ognuna delle due pareva impossibile non poter inculcare un po’ di buon senso letterario all’altra… Parlavamo molto di libri, ci raccontavamo a vicenda trame e meraviglie di quello che avevamo letto, e avevamo surreali discussioni in cui Polly parlava di Vargas-Llosa e io di Golding: ciascuna andava felicemente per il suo binario, e scambiavamo cenni sporgendoci dal finestrino dei rispettivi treni.

Quello che facevamo ogni tanto, però, erano i baratti: se tu leggi X, allora io leggo Y.bookexchange

Sì, sul serio. Per esempio, ho letto La Casa degli Spiriti di Isabel Allende in cambio di Lord Jim di Conrad. No, nemmeno a me sembra uno scambio equo, ma tant’è: c’era poco che non avrei fatto per la causa di Lord Jim, e la mia diabolica compagna di stanza se n’era accorta…

E ho letto Eva Luna Racconta in cambio di Rapito, e Polly mi rinfaccia ancora adesso l’infinità di pagine che David impiega a rendersi conto che non è poi così naufrago, e che con la bassa marea potrebbe andarci a piedi, sulla terraferma… Naturalmente non ho perso molto tempo, negli ultimi vent’anni, a difendere David, ma, nemmeno Alan ha conquistato Polly. E nemmeno Jim. E d’altra parte nessun abitante della Casa degli Spiriti ha conquistato me. E tuttavia, sono molto grata di quei baratti, tanti anni fa. Se Polly non avesse insistito, non avrei mai sfiorato un libro della Allende con l’orlo della veste per… be’, non c’è altro nome per questo: prevenzione. Adesso ho letto qualcosa di suo, e posso dire con cognizione di causa che non mi piace, e perché non mi piace. Allargare gli orizzonti, and all that jazz. A parte tutto, non si sa mai che cosa si può scoprire.

Tant’è che qualche baratto abbiamo continuato a farlo per anni, anche dopo l’università… Poi, quasi senza nemmeno accorgercene, abbiamo smesso, ma forse è ora di riprendere: è bello avere qualcuno che, ogni tanto, ti spinge al di là delle abitudini/latitudini acquisite.

 

Lug 1, 2015 - libri, libri e libri, Storia&storie    Commenti disabilitati su Alla Ricerca del Libro Perduto

Alla Ricerca del Libro Perduto

scavenger-hunt-mapRambling ahead, vi avverto…

Mai cercato disperatamente un libro? Non perché vi servisse, non per motivi di studio o di lavoro: solo perché lo volevate tanto. Adesso che c’è Internet capita assai meno, ma ho trascorso la mia adolescenza e prima giovinezza cercando l’uno o l’altro libro. Sempre qualcosa fuori catalogo, o qualcosa che non si trovava più, o qualcosa di pubblicato da uno sconosciutissimo mini editore di provincia…

E ogni volta che arrivavo in una città nuova, ogni volta che passavo davanti a una libreria mai vista prima, entravo e chiedevo. Era come avere una caccia al tesoro tutta mia, e quindi continuavo anche di fronte alla crescente evidenza che la maggior parte delle librerie erano diventate come farmacie: ti procuravano quello che c’era in catalogo; per il resto potevi attaccarti al tram e fischiare in curva. Biblioteche, lo confesso, meno possibile, perché non c’era altrettanto gusto. Voglio dire, trovare il tesoro e non potertelo tenere, averlo in prestito per un misero mesetto… No, non era la stessa cosa. Nondimeno, capitavano i miracoli, le volte in cui, dopo lunghe ricerche, si trovava il libro e lo si poteva anche portare a casa. Definitivamente. Come La Bufera di Edoardo Calandra, scovata, tra tutti i posti possibili, in un istituto di vendite giudiziarie. O come la vecchia edizione BUR della Saga di Gösta Berling rinvenuta (insieme a varie altre meraviglie) al Parnaso, meravigliosa libreria pavese specializzata in edizioni fuori commercio. Ah, quante volte sono stata sul punto di chiedere al proprietario del Parnaso se non gli servisse una commessa, anche a metà stipendio… ma non divaghiamo, parlavamo di ritrovamenti miracolosi.

!B(k2puw!mk~$(KGrHgoH-CEEjlLl0F63BKdC-+pbRw~~_35.jpgLa mia storia prediletta è quella di Io sono il Barone Rosso, autobiografia di Manfred Von Richtofen. Cercato per anni, libreria dopo libreria, città dopo città: “Buongiorno, cerco Io sono il Barone Rosso, di Manfred Von Richtofen”… Per lo più mi sentivo dire che non l’avevano e tutto finiva lì. Qualche volta una ricerca (sui cataloghi cartacei, I’m that old). Più raramente una vaga promessa di ricerche. Perché l’edizione italiana esisteva eccome: Pocket Guerra della Longanesi, pubblicato negli Anni Settanta… possibile che non si trovasse da nessuna parte? Eppure no: non si trovava. Una volta, al mare, in un posto che sembrava più un magazzino navale che una libreria, un signore anzianotto con il codino grigio mi disse che certo, cavolo, come no? Von Richtofen! Ma sicuro, che ce l’aveva… volevo aspettare un attimo? Volevo, eccome, se volevo… Immaginatemi che aspetto mentre l’omino sparisce tra pile di libri. Sbuffa, impreca, chiama. Fiuta, razzola, fruga. E poi ricompare, brandendo, tutto trionfante, le memorie di Von Ribbentrop. E a questo punto, immaginatemi che non scoppio a piangere per puro miracolo. Non avevo ancora quattordici anni, mi si può perdonare.

Poi lo trovai su una bancarella di libri usati in una fiera di paese,  tra zucchero filato, bigiotteria, giocattoli, occhiali da sole taroccati… Quando il bancarellaro mi disse che l’aveva, ammaestrata dai precedenti non non mi affrettai troppo a crederci – e invece lui lo tirò fuori, ancora nel cellophane: Pocket Guerra Longanesi, Io sono il Barone Rosso, di Manfred Von Richtofen! Colpo al cuore. “Diario segreto del più grande asso della caccia mai esistito”, recita il ridicolo sottotitolo italiano. Diario segreto un bottone! Von Richtofen dettò i suoi ricordi a un giornalista, lo zio di tutti i ghostwriters, perché le folle adoranti volevano sapere, e lo Stato Maggiore voleva che sapessero… però il giornalista aveva fatto un buon lavoro, e la personalità del Barone traspare bene: un misto di spavalderia, di riservatezza e di vena malinconica.

Corradino027Adesso, come dicevo non succede più molto. C’è Internet, c’è eBay, c’è Amazon, c’è Alibris…  E nondimeno capita. Ci sono quelle cose che non si trovano proprio – o così pare, come Il dramma di Corradino di Svevia, di Salvator Gotta e Andrea Fanton. Libro per fanciulli, e gl’inizi della ricerca difatti risalgono alla mia lontana preadolescenza, quando soffrivo di medievite grave e Manfredi di Svevia era il mio eroe… E di Manfredi Corradino era il nipote – close enough, tutto considerato – ma il libro per fanciulli proprio non si trovava. Uscito di catalogo presto, immagino, e refrattario alle mie ricerche. Anni più tardi, venuta l’era di internet, ci riprovai – e nulla. Nemmeno una traccia, davvero, da nessuna parte, se non una manciata di copie in altrettante biblioteche remote… E sì, avrei potuto ricorrere al prestito interbibliotecario, ma l’ho già detto: non è così che funziona. Non con questi libri che non servono a nulla, ma si vogliono e basta. Non li si vuole per restituirli dopo un mese, vi pare? Così mi convinsi che proprio non ci fosse modo e rinunciai una seconda volta – ma non prima di avere raccontato la storia al mio amico S., collezionista compulsivo e cacciatore in rete.

Ebbene S. non disse nulla all’epoca, poi qualche settimana fa se ne arriva con un regalo di compleanno… E indovinate un po’? Corradino! E quindi c’era, dopo tutto. Difficile a trovarsi ma non introvabile. Non avete idea di quanto mi abbia fatto felice vedere quel librino verde uscire dal pacchetto. Adesso l’ho letto, e credo di avere capito perché fosse sparito nel nulla. È un libro strano, scritto nel 1972, ma alla maniera di molti anni prima. Salvator Gotta era vecchio agli inizi degli anni Settanta – e aveva in mente il gusto di altre generazioni. Fanton, evidentemente, non aveva colto il problema o non ne aveva fatto granché… Ed è fin troppo facile immaginare insegnanti e fanciulli che storcono il naso davanti a questa storia episodica, al linguaggio un po’ antiquato, al Medio Evo di Maniera… Sarei curiosa di sapere quante classi ebbero Corradino per l’ora di narrativa. Non molte, sospetto. A me bambina sarebbe piaciuto – era il genere di storia, di modo di raccontare – e tutto sommato di linguaggio – che mi piaceva trovare nei libri. Era il tipo di luce in cui mi piaceva veder rappresentata la storia. Nulla di terribilmente realistico, sia chiaro – ma a dieci, undici anni avevo già il sospeto che la realtà sia sopravvalutata.

Ad ogni modo, trent’anni più tardi, Corradino è arrivato, e l’ho letto in un paio di tarde serate estive – con la forte impressione che a sbirciare da sopra la mia spalla, e a compiacersi di quel che leggeva, ci fosse la piccola Clarina in vacanza di tanti anni fa.

 

 

Giu 5, 2015 - grilloleggente, libri, libri e libri    Commenti disabilitati su La Fetta in Mezzo

La Fetta in Mezzo

trilNon so se sia perché qui si è messo a fare proprio caldo, o forse sono le zanzare o che altro – ma oggi devo dar voce a un peeve.

Oggi parliamo di trilogie. O tetralogie. O N-logie, se è per questo. E forse è il caso di premettere che esistono diversi tipi di di N-logie: ci sono quelle composte di libri a sé stanti legati da un protagonista o un’ambientazione; ci sono quelle in cui ciascun volume copre un arco minore all’interno di un arco generale; e ci sono quelle che in realtà sono un’unica storia divisa in parti…

Ciò detto, il post s’intitola come s’intitola perché ho appena finito il secondo volume di una trilogia da recensirsi per la HNR. Per quel che ne so è il secondo volume di una trilogia del terzo genere, e forse cominciare dal secondo volume non è il modo più saggio di accostarsi ad alcunché – ma non è questo il punto. L’inizio in medias res funziona, e l’autore ha fatto un buon lavoro nel chiarire fin da subito chi è chi e chi vuole cosa e perché, e la trama è più intricata in apparenza di quanto sia in realtà…

Quel che mi ha irritata – che mi irrita invariabilmente in situazioni del genere, è questo: si legge, si segue, pagina dopo pagina ci s’interessa a storia e personaggi, ci si lascia prendere dal ritmo e  dal movimento… Finché non ci si accorge che mancano cinquanta pagine alla fine, e non c’è umana possibilità che l’autore conduca in porto tutto quel che ha avviato… E d’accordo – è un volume da primo a penultimo, e dunque non ci si può (né deve) aspettare la Conclusione. Ma qualche genere di conclusione? E invece le pagine calano a trenta, a venti, a dieci… ed è evidente che nessun aspetto della trama mostra la benché minima intenzione di toccar terra. E infatti la fatidica paroletta di quattro lettere (o le due fatidiche parolette di tre) calano come un sipario e, nella migliore delle ipotesi, tutto rimane a pendere dal bordo di una scogliera.

Sì, questa è un'affettatrice...

Sì, questa è un’affettatrice…

E dico nella migliore delle ipotesi, perché talvolta – come nel caso in questione – non c’è nemmeno un buon vecchio cliffhanger. C’è giusto quel tanto di appoggio che basterebbe per una fine di capitolo, e la sensazione è quella che la storia sia stata tranciata in fette spesse con un’affettatrice da salumi – con più riguardo al numero commerciabile di pagine che alle aspettative del lettore o alla logica narrativa.

E sì, per carità: mi rendo conto che l’idea è quella d’indurre il lettore a comprare il prossimo volume – but you know what? Su di me un non-finale troppo blando ha buone probabilità di ottenere l’effetto contrario. Non ho necessariamente obiezioni ad essere manipolata – tutti leggiamo narrativa con l’ovvia intenzione di essere manipolati un pochino – ma mi aspetto di essere manipolata con garbo e intelligenza.

E se la mia preferenza va ai libri che, per tradurre un’efficace espressione anglosassone, stanno in piedi da soli, non sono immune al gusto di finire un libro e compiacermi del fatto che se ne possa avere ancora… Tuttavia, persino quando in realtà si tratta di un’unica  storia suddivisa in tre, quattro, n parti, la mia mente – che in fatto di storie ragiona per archi – si aspetta una parvenza di punto d’attracco, di boa, di risoluzioncella minore, o persino di scogliera alla cui cima appendere tutto.

Persino se siete gente più saggia di me e cominciate sempre tutto dall’inizio, persino se non scrivete per una rivista che incoraggia recensori diversi ad occuparsi della stessa serie, ditemi un po’: non vi piace avere l’impressione che il sipario si chiuda per una ragione? Una ragione narrativa oltre che editoriale e commerciale?

 

Mar 23, 2015 - libri, libri e libri    Commenti disabilitati su Charlotte, Frances, Rudyard: Relazioni Non Intenzionali

Charlotte, Frances, Rudyard: Relazioni Non Intenzionali

booktiesCapita a volte di leggere qualcosa e riconoscerci l’ombra di qualcosa d’altro.

Una somiglianza nella trama, il profilo di un personaggio, un incidente, un posto… qualcosa che ha l’aria di un’ispirazione o di un omaggio. O a volte di una scopiazzatura – ma questo è un altro discorso.

Forse vi ho già detto di come il Will (Shakespeare) di Robert Brustein in The English Channel a me sembri irresistibilmente simile a quello di Shaw in The Dark Lady of the Sonnets. A parte tutto il resto, lo stesso modo di interrompere se stesso e tutti gli altri per annotare scampoli di conversazione – perché potrebbero tornare buoni…

Solo che tra i precedenti e le influenze del suo play Brustein non cita affatto Shaw.

Oppure, e mi è tornato in mente mentre scrivevo questo post, la somiglianza che a me pare evidentissima tra la Piccola Principessa di Frances. H. Burnett e la vicenda del piccolo Kipling, così come compare nella sua autobiografia, ne La Luce che si Spense e in Bee Bee Pecora Nera. Voglio dire – e lasciate che vi metta qui una tabella:

SaraPunch

Si nota, non trovate? Si nota un certo qual parallelismo nelle due storie. Epperò poi si scopre che, apparentemente, l’ispirazione per Sara Crewe non ha nulla a che fare con Kipling. Pare avere radici, invece, nella Emma di Charlotte Brontë.

No, non mi sono sbagliata, non volevo dire Jane Austen. C’è una Emma brontiana – solo che è incompiuta e poco sconosciuta. C’è questa ereditiera abbandonata in un collegio… E quindi sì, le somiglianze ci sono – ma come la mettiamo con Kipling? In realtà Sara Crewe (in forma di novella a puntate) e Punch arrivano alle stampe lo stesso anno, il 1888 – e anzi, il primo episodio di Sara precede Punch di qualche mese. Ma Punch è troppo autobiografico perché l’ispirazione possa avere funzionato all’altro modo…

Che bisogna pensarne? Che capita di scrivere la stessa storia senza saperlo – cosa di cui sono dolorosamente consapevole dal giorno in cui ho scoperto che W.S. Maugham aveva già scritto quello che mi piaceva chiamare il mio primo romanzo, molti anni prima di me e molto meglio… Capita. A volta sembra impossibile che non ci sia una corrente di ispirazione, un ramo di parentela, un legame di qualche genere… e invece non c’è.

O meglio, c’è – ma non necessariamente quella che saremmo portati a pensare.

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* Il clima inglese… sì.

** E in realtà, da adulta non posso fare a meno di domandarmi: ma possibile che nessun’altra bambina ne faccia mai fatto con i genitori? Insomma, fino a un certo punto, Sara è la star del collegio, l’ereditiera dalle romantiche circostanze di cui la direttrice è sempre pronta a parlare agli altri genitori, perché avere una “principessa dei diamanti” tra le allieve è un motivo di vanto. Poi all’improvviso la rimarchevole ragazzina decade a sguattera maltrattata… Nessuna bambina ne racconta a casa? Nessun genitore leva un sopracciglio? Diciannovesimo secolo, I know, but…

Dic 12, 2014 - libri, libri e libri, Natale    Commenti disabilitati su Ad Alta Voce – Fuori Sede

Ad Alta Voce – Fuori Sede

Udite udite, rullo di tamburi e squilli di trombe…

Ad Alta Voce sta per compiere il grande passo. Guardate un po’:

LocAAV

Per la prima volta, AAV lascia il nido, esce di casa, prende il volo – e lo fa per l’evento degli auguri di Borgocultura, di cui trovate qui tutti i particolari.

La formula è la consueta: un tema, tanti libri, tanti lettori/ascoltatori, tante sfaccettature diverse della stessa idea. Scampoli di romanzo, racconti, poesie, memorie, saggi, testi di canzoni, articoli… Se si può leggere ad alta voce, e se è attinente al tema, allora va bene. In questo caso, ça va sans dire, abbiamo scelto il Natale… però, anziché leggere al sicuro tra le mura della nostra beneamata Biblioteca Zamboni, ci avventuriamo Là Fuori. Pubblico nuovo, nuove idee, nuove domande, nuovi confronti.

Siamo emozionati? Un pochino. È un esperimento, un passo in più nel processo per tentativi ed errori con cui stiamo costruendo Ad Alta Voce. E francamente, non vediamo l’ora di vedere come se la caverà il nostro gioco fuori dalle mura di casa.

Se tutto va bene… be’, se tutto va bene,  in primo luogo avremo scambiato auguri inconsueti con un gruppo di nuovi amici, e poi vorrà dire che quel che abbiamo fatto una volta si può fare ancora, e AAV allargherà i suoi orizzonti.

Stiamo a vedere.

E a dire il vero, se volete vedere come va – o se siete curiosi di vedere che cosa facciamo – non c’è modo migliore che unirvi a noi, domenica mattina alle dieci e mezza, alla Masseria in Piazza Broletto, a Mantova.

Vi aspettiamo – e mi raccomando: portate la vostra storia di Natale preferita.

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