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Gen 24, 2014 - musica, scrittura    Commenti disabilitati su Di Chopin e Thomas Mann

Di Chopin e Thomas Mann

 

English: Thomas Mann, Nobel laureate in Litera...C’è verso la fine de I Buddenbrook questa bellissima pagina in cui il giovane Hanno improvvisa al pianoforte. Mi è ritornata in mente l’altra sera, mentre ascoltavo Chopin suonato da Marta Argerich – e poi di nuovo ieri sera, nel corso di un bellissimo concerto a base di Beethoven, Elgar e Tchaikovskij. Badavo alla sete con cui l’orecchio (non l’organo uditivo, ma l’insieme di organo, cervello e concetto di musica) aspetta la risoluzione di un tema, un passaggio di tonalità, il concludersi di una successione di accordi, la nota dopo il trillo…

E allora mi è tornato in mente Hanno Buddenbrook, del quale non si può dire che compone, perché di quel che fa al pianoforte non scrive nulla: insegue immagini, suggestioni, memorie, accosta suoni, prepara quel momento che appaga l’orecchio e poi lo ritarda all’estremo, cercando l’attimo perfetto in cui questa attesa raggiunge le vette squisite e molto anguste dello struggimento. Tutto questo Thomas Mann lo descrive con dovizia di particolari, alla fine di un capitolo teso a dimostrare come Hanno sia inadatto alla vita – e difatti non vivrà a lungo: il capitolo successivo si apre parlando di tifo. Anche la musica di questo ragazzo così smarrito è solo un’iridescenza di aspirazioni informi: bellezza, grandezza, arte, vita, tutto passa sulla tastiera di Hanno coi colori più vaghi e più irreali, sempre fuori portata – tranne per quell’attimo perfetto, l’ultimo accordo, l’ultimo arpeggio, l’ultima nota, che viene ed è già passato.

Ciò che colpisce è che Thomas Mann usa per descrivere queste improvvisazioni una versione più lucida e più consapevole della tecnica prestata a Hanno: le immagini si susseguono, la musica viene evocata, lo struggimento e la brama di compimento suggeriti e spostati sempre appena un passo più oltre… Il lettore scivola di frase in frase, di nota in nota, aspettando una risoluzione, un appagamento, un compimento, e poi ancora. Hanno

Anche Chopin fa questo. Chopin, Beethoven, Elgar, Tchaikovskij e tutta la musica occidentale, a dire il vero – ma in Chopin, nell’eleganza nuda del pianoforte solo, il principio è più evidente: l’artista crea un bisogno e lo risolve creandone un altro, e via così in un susseguirsi curvo (arco o cerchio) che conduce da un principio ad una fine. E in scrittura vale lo stesso: lo scrittore offre una domanda, la cui risposta genera un’altra domanda, e via più o meno vertiginosamente, ma sempre conducendo il lettore, trascinandolo senza mai lasciarlo andare.

Il passo “musicale” di Mann, con la sua descrizione minuziosa e il colpo crudele del tifo nella pagina successiva, è una dimostrazione geniale, costruita con la lucidità di chi conosce bene l’esercizio per averlo praticato all’infinito su di sé, prima di sperimentarlo sui lettori. Sono le ultime due pagine e mezzo del capitolo II della parte undicesima: andrebbero rilette spesso, studiate e assorbite. Andrebbero ripetute a mo’ di devozioni per non dimenticarsi mai quello che fa uno scrittore – creare un problema (un bisogno, una domanda), complicarlo e poi dargli una soluzione che è un altro problema.

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A Mano

scrittura, moleskine, waterman, stabilo point 88“Sei veloce a battere al computer,” disse l’Osservatore casuale.

“Hm…” mugugnò la Clarina, senza staccare lo sguardo dallo schermo, né i polpastrelli dalla tastiera.

“Ma usi tante dita?” insisté l’OC, benché potesse vederlo benissimo da sé.

“Dalle sette alle nove, a seconda delle giornate,” rispose la Clarina – un po’ perché era vero, e un po’ per far sobbalzare l’OC.

Alla periferia del campo visivo della Clarina, l’OC sobbalzò debitamente, e poi digerì l’informazione per un pochino. Non chiese da che cosa dipendesse la variazione da giornata a giornata – quella è una domanda che, di solito, pone la gente di formazione scientifica.

“Io più di due dita proprio non le so usare,” disse invece, a digestione ultimata. E lo disse con quel tono vagamente superiore che in genere prelude – e anche questa volta preludeva a… “Io scrivo a mano. Non riesco a pensare con una tastiera, e non so immaginare come tu ci riesca.” 

La Clarina avrebbe potuto dire che non era nata così, che era questione di abitudine e pratica, che col suo genere di lavoro era una necessità… Ma prima che potesse decidere se valeva la pena di distrarsi…

“scommetto che non sai nemmeno più scrivere a mano,” disse l’Osservatore Casuale, con una vaga nota di trionfo nella voce. scrittura, moleskine, waterman, stabilo point 88

E fu allora che la Clarina si fermò per la prima volta, si girò a guardare l’OC e protestò appassionatamente che non era, non era e non era vero.

Perché non è vero affatto: non solo so ancora scrivere a mano, ma lo faccio quotidianamente – e magari lo faccio in una grafia che legioni di insegnanti, colleghi, dipendenti, clienti e corrispondenti hanno definito e definiscono “decorativa ma illeggibile”, but still.

E anzi, a dire la verità, in anni in cui ce n’era necessità, avevo anche adottato una grafia alternativa e semistampata – che a suo tempo non impedì a un dipendente di decifrare un mio “Emanuele” come “Bmannek”, e che mi ostino ad usare ancora per compilare moduli, documenti vari e bollettini… 

Ma tutto ciò era per dire che l’uso massiccio del computer non mi ha tolto la capacità di scrivere a mano. Why, un’abbondanza di appunti a mano fa ancora parte del mio metodo, e uso quantità industriali di taccuini su cui strologo per iscritto, annoto, appunto, abbozzo, faccio liste e promemoria…

E devo dire che negli anni ho sviluppato una predilezione per i taccuini Moleskine, di cui adoro la carta liscia e consistente e vagamente cream-coloured. Per carità: mi piacciono tanto i quaderni rilegati di carta fiorentina o di Fabriano, magari tagliati a mano, belli e significativi. Solo che la grana… la grana è come la mia grafia: decorativa e poco pratica. Quando scrivo a mano mi piace farlo in maniera scorrevole, senza aver l’impressione di andare in bicicletta su una sterrata… Il che fa sì che abbia poca pazienza anche per la carta riciclata, in cui tutte le punte s’impicciano, sopratutto quelle di matita a mina dura.

scrittura, moleskine, waterman, stabilo point 88Oh sì, le matite: per anni ho scritto quasi esclusivamente a matita. Anche a scuola – tutto a matita, tranne i compiti in classe. Matite HB – dal tratto netto quando sono temperate bene, né troppo dure né troppo morbide. La prima stesura di Annibale, dramma storico in un prologo, tre atti e un epilogo, più di vent’anni fa, l’ho scritta tutta a matita. E sì, c’erano anche quei portamine di plastica, ma siamo sinceri: chiamarle matite è quasi un sacrilegio. Tutt’altra cosa sono quei portamatite che consentono di usarle fino al mozzicone più ridotto. Ne ho uno bellissimo, d’argento e lacca nera. Non lo uso granché perché sbilancia la matita, ma è molto chic. L’equivalente scrittorio di un bocchino da sigaretta.

In fatto di penne è stato più faticoso. Trovo che le Pilot scorrano bene. Quelle di plastica usa e getta, intendo. Possibilmente senza bottone, perché detesto quando mi ritrovo a schiacciarlo automaticamente mentre penso. Clic e clac e clic e clac… Mi dò fastidio da sola, e però appena mi distraggo ricomincio. La Penna a Sfera della mia vita, invece, non l’ho mai trovata. Tutti ne riceviamo da qualcuna a un diluvio nel corso della nostra vita* – ma a me non è mai capitato d’inciampare in quella giusta. Colpa mia, sia chiaro: ne ho tante, bellissime, ma nessuna è mai diventata La Penna.scrittura, moleskine, waterman, stabilo point 88

Con le stilografiche è andata meglio e peggio al tempo stesso. Possiedo da anni una meravigliosa Lady Agatha della Waterman, che scrive come un sogno e ha inchiostro di colori bellissimi come il blue-black e il sepia. Alas, dopo qualche anno di uso intenso ha cominciato a perdere e, nonostante innumerevoli pellegrinaggi per la riparazione, non è più stata la stessa. In compenso c’è questa stilo di plastica fluorescente e ultratrentenne, di marca misteriosa ma innegabilmente buona, visto che da decenni continua a scrivere – e bene – qualunque cosa le capiti. Come il ponte di Kashi, è brutta come il peccato – però fa il suo mestiere.

Però adesso non scrivo con la stilografica. Ho sperimentato un po’ con le penne a gel (non sgradevoli quando funzionano bene, pur se leggermente erratiche) ma alla fin fine, quando non scrivo a matita, in genere uso Point 88 della Stabilo. Sono pennarellini, è vero, ma scorrono bene, lasciano un tratto netto, durano ragionevolmente a lungo e tra i tanti colori ho ritrovato qualcosa di simile al blue-black e al sepia della mia amata Lady Agatha. E anche un grigio che somiglia alla mina di una matita. E magari non è del tutto sensato scrivere con una penna perché scrive come una matita, ma tant’è.

scrittura, moleskine, waterman, stabilo point 88Dopodiché, a fini di documentazione, ho provato a scrivere con cose bizzarre come pennini di varia natura, penne d’oca temperate, stili su tavolette cerate e chiodi intinti… no, non nel sangue – tranquilli. Ma quelli sono stati esperimenti e, pur con tutto il mio penchant per i secoli passati, devo confessarmi lieta di vivere in un’epoca di matite HB, Point 88 e Moleskine. 

E voi? Scrivete a mano? Con che cosa scrivete? Su che cosa scrivete? E scrivete leggibilmente?

 

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* Cena di laurea. Siamo in cinque – la neodottoressa, suo fratello e tre invitati. Tre pacchetti. La festeggiata apre il primo… penna. Levo le sopracciglia, incrocio lo sguardo del fratello e mormoro “Anch’io…” e il terzo invitato coglie e ci guarda inorridito. Tre penne su tre, povera ragazza.

Lug 13, 2013 - scribblemania    2 Comments

Piccolo Bollettino Ermetico

Al volo, solo per dire che l’aria di mare giova.

Sto scrivendo in abbondanza e con soddisfazione.

Ma non proprio… er. Voglio dire, non… è che… well.

A., non lanciare oggetti pesanti: è stata una deviazione.

Ecco.

Ne riparleremo.

Consigli A Una Giovane Poetessa

Alla liceale che gli chiedeva quali consigli avrebbe dato a qualcuno di giovane che desiderasse dedicarsi alla poesia, Seamus Heaney ha risposto quattro cose – che, a mio timido avviso, valgono perfettamente anche per la prosa:

In primo luogo leggere. Leggere tanto. Perché leggere risveglia la mente, e perché c’è un genere di felicità nel leggere cose che piacciono, nel trovare ispirazione per sviluppare una voce propria.

E questo ne segue logicamente: sviluppare una voce propria, una voce che renda felici e che spinga a scrivere. Che faccia desiderare di scrivere.

Poi di trovare un po’ di silenzio per scrivere – e di trovarlo spesso. Se si ha intenzione di diventare professionisti, in un modo o nell’altro bisogna trovarlo tutti i giorni, questo silenzio, questa quiete in cui concentrarsi e lavorare.

E infine, un amico o due. Gente con cui condividere l’interesse per la poesia e per i libri, con cui parlare a notte alta, gente con cui scambiare letture, incoraggiamento, critica costruttiva e sogni… Senza prendersi troppo sul serio, per carità. Qualcuno di affine, per tenersi in carreggiata a vicenda.

Perché, dice Heaney, la poesia è una fine combinazione di tecnica e di mistero. Per farne ci vuole una certa quantità di fiducia in se stessi e nel proprio talento, e ci vuole la pazienza d’imparare la tecnica, e ci vuole infinita pratica per affinare, imparare, cogliere l’ispirazione, cesellare. E poi nascondere la fatica certosina della creazione sotto la fluidità dell’opera finita.

È il lavoro di una vita. Un lavoro dannatamente difficile – ma, secondo Seamus Heaney, intessuto di molta felicità. 

Mar 18, 2013 - Vitarelle e Rotelle    6 Comments

Idee

N. ha dodici anni e vuole fare la scrittrice. Legge tanto, ha buoni voti nei temi, tiene un diario, inizia racconti e non sempre li finisce… Scommetto che siamo in molti a riconoscere il territorio.

Però il mio problema sono le idee. Io voglio scrivere, solo che non so che cosa scrivere. A volte mi vengono in mente delle cose, però sono già state scritte, oppure appena mi metto a pensarci vedo che non sono davvero storie.* Dove si trovano le idee? Come si fa a farsele venire?

Ah, N.! Le idee…

Adesso magari non mi credi, ma se perseveri lungo questa strada verrà il giorno in cui avrai più idee che tempo per scriverle. Molte più idee che tempo. Chissà se hai mai visto quel vecchio documentario della BBC sul mestiere del documentarista. A un certo punto racconta la storia di una troupe che voleva riprendere i salmoni occupati a risalire non so più quale fiume. Decisero di piazzare un operatore con cinepresa sul fondo – e un altro a riprendere gli sforzi del primo. Ed è così che abbiamo le immagini di un cameraman inglese degli Anni Cinquanta seduto sul fondo di un fiume e travolto dai salmoni. Gli arrivavano addosso fittissimi e senza posa, tanto che il poveretto non riusciva a manovrare la macchina da presa, e poteva solo cercare di difendersi schiaffeggiando salmoni… 

Ecco, lo ripeto: magari adesso non ci credi, ma verrà un giorno in cui ti sentirai seduta sul fondo di un fiume a schiaffeggiare idee per impedire che ti facciano deviare troppo da quel che stai facendo.

Come succederà? Quando succederà? Succederà quando comincerai a vedere idee dappertutto. Quando, in ogni circostanza (anche le meno adatte) ti chiederai “come potrei scrivere questo?” Quando non riuscirai più a leggere un libro o guardare un film senza che almeno un pezzo del giocattolo ti faccia spalancare gli occhi e pensare che ehi! ci vuoi giocare anche tu. Quando guarderai gli estranei seduti di fronte a te in treno chiedendoti dove stiano andando. Quando invece di studiare storia ti perderai a strologare storie su Anna Comnena, i tercios spagnoli e Michael Faraday. Quando le figure minori negli angoli dei quadri, le sottotrame dei romanzi ottocenteschi, i servizi al telegiornale, le leggende locali le vecchie copertine sulle bancarelle e la musica intrasentita in una strada sconosciuta non la pianteranno di sussurrare. Quando ti sveglierai nel cuore della notte per annotare un sogno. Quando, navigando in cerca di documentazione, ti smarrirai per la rete inseguendo qualcosa di completamente diverso e così narrabile. Quando ogni lapsus, ogni frase udita male, ogni assurdità, ogni paio di parole accostato per caso prenderà la forma di una storia. Quando ti commissioneranno un lavoro e tu dirai che non è il tuo genere, e poi non avrai pace finché non l’avrai scritto…

E allora riempirai taccuini e hard disk di idee di cui al momento non sai che fare – oppure lo sapresti benissimo, ma davvero non hai tempo. E tirerai un sacco di accidenti, e pregherai per avere giornate di trentasei ore, ma non vorrai mai che sia diverso.

È tutto qui, N. Leggi, studia la teoria, impara quali sono i pezzi con cui si costruisicono le storie e come li si combina, e guardati attorno. Abituati a vederli dappertutto, i pezzi – e senza nemmeno accorgertene, ti troverai seduta sul fondo del fiume, felicemente intenta a schiaffeggiare salmoni… er, volevo dire idee.

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* Non è bello quando una dodicenne vi scrive che ha imparato dal vostro blog che ci sono storie e poi ci sono cose che non sono storie?

Gen 21, 2013 - Vitarelle e Rotelle    14 Comments

La Consolante Provvisorietà Delle Prime Stesure

Scrivere una prima stesura è come orientarsi a tentoni in una stanza buia, o traudire una conversazione sussurrata, o raccontare una barzelletta senza ricordarsi come va a finire. Non so più chi abbia detto che si scrive più che altro per riscrivere e revisionare, perché è riscrivendo e revisionando che la nostra mente prende piena confindenza con ciò che abbiamo scritto.

E questo era Michael Seidman, citato da Cindy Vallar sulla HNR, un paio di numeri orsono.

Credo che sia qualcosa di terribilmente difficile da imparare, e in tutta probabilità la prima causa di morte letteraria. È difficile, difficile, difficile convincersi che la prima stesura è soltanto una prima stesura, il cui scopo è quello di buttar fuori un ragionevole abbozzo della storia. Per poi lavorarci su. Sistemare la logica, aggiungere folgorazioni, intonare la voce, aggiustare lo schema di colori, il ritmo e i particolare, scuotere la struttura e i meccanismi finché non funzionano alla perfezione – questi sono tutti compiti per la revisione.

E credete, non sto predicando – o, se lo faccio, predico prima di tutto a me stessa, perché per molti anni ho strologato fino alla nausea su ogni virgola della prima stesura e, una volta giunta alla fatidica paroletta di quattro lettere, non sapevo mai indurmi a nulla più di un safari a caccia di errori di battitura, una spolveratina qui, una timida sfrondatina là…

Ma ogni volta che si presentava la necessità – o la possibiltà – di un intervento più energico ripensavo a tutto il lavoro certosino e alla bruta fatica che avevo profuso nella prima stesura, e mi mancava il coraggio.

E questo, ammettendo che alla fatidica paroletta ci fossi arrivata affatto. Non vado per nulla orgogliosa della quantità di inizi che giacciono qua e là nel mio hardware, come ciclopiche ossa in un cimitero degli elefanti. Oh, sono tutte ossa lucidate a cera – talmente lucidate che ogni volta, alla prima difficoltà, al primo intoppo, al primo colpo di noia, ho ripensato a tutto il lavoro certosino e alla bruta fatica eccetera, e mi sono scoraggiata. 

Oppure sono ossa più nature, in cui mi pareva di non trovare la voce e il ritmo e il colore che volevo e, invece di dirmi che per quello c’era tutto il tempo, e avanzare da bravo soldato… indovinate un po’? Mi sono scoraggiata.

E ancora adesso, per quanto sappia che non è così che funziona, faccio una fatica del diavolo a non perdere una sessione di scrittura fissando lo schermo e tambureggiandomi sullo sterno la Marcia Funebre di Chopin con le dita, nell’insana fissazione di trovare la replica perfetta alla battuta del personaggio X.

E poi qualche volta mi rendo conto che non è affatto detto che la battuta di X resti così com’è indefinitamente, e forse se non riesco a trovare una risposta adatta è anche perché quella fettina di dialogo non va bene in generale, e comunque non è un problema che devo risolvere adesso, e allora aggiungo un’annotazione tipo [Y TAGLIA X A FETTINE MOLTO SOTTILI – CONCLUDENDO CON UNO SCONSIDERATO AFFONDO IN CUI NOMINA Z > CONSEGUENZE] e passo oltre. Ci penserò in fase di revisione – ammesso che debba ancora farlo.

E poi, quando arrivo alla revisione, qualche volta il problema si è risolto da sé, qualche volta è superato, qualche volta richiede ulteriori cogitazioni, ma…

Badate a questo, perché è importante – ed è l’acqua calda, I know, eppure vorrei che qualcuno me l’avesse detto prima, e anche adesso che lo so, sentirei il bisogno di incidermelo in fronte*. Dico davvero, badateci:

Il punto è che, quando si arriva a riscrivere e revisionare un nodo lasciato indietro, si è forti di tutto il resto della storia. Si sa che cosa succede dopo. Si sa come va a finire. Si sa dove e come possono germogliare le conseguenze del nodo. E, cosa non indifferente, si ha molta, molta, molta più confidenza con la storia in generale. 

Per cui, a parte tutto il resto e a parità di problema, le probabilità di saperlo risolvere in seconda stesura sono infinitamente superiori a quelle che si avevano prima.

Ecco.

Perché è in revisione che si trova l’interruttore, o ci si avvicina alla gente che sussurra, o ci si ricorda come va a finire la barzelletta. E, a differenza dei narratori di barzellette, si può tornare indietro e raccontarla meglio.

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* Modo di dire che mi piace, ma non posso fare a meno di considerare un po’ scemo, perché una volta che me lo fossi inciso in fronte, non avrei modo di leggermelo. Avrei bisogno di qualcuno che me lo leggesse. Oppure dovrei farlo incidere a rovescio per poterlo leggere allo specchio. Ma c’è anche la possibilità che un’incisione in fronte sia un procedimento abbastanza doloroso da restare memorabile a lungo – insieme alla causa della sua adozione? Ma allora forse basterebbe un’incisione meno elaborata e da qualche altra parte che non fosse la fronte? E lo so, tutto ciò non ha un briciolo di senso e i modi di dire son modi di dire, ma abbiate pazienza: sono convalescente.

Gen 16, 2013 - pessima gente, scribblemania    Commenti disabilitati su PBN

PBN

Ecco, oggi ho scritto 1750 parole – ma potrebbe non essere la buona notizia che sembra…

Facciamo così: non vi dico di cosa, eh?

Dopo tutto ho l’influenza.

Buoni Propositi

duemilatredici, anno nuovo, buoni propositi, procrastinazione, scritturaBuoni propositi per l’anno nuovo…

Sì, d’accordo, oggi è il due, e la giornata giusta sarebbe stata ieri, ma fa nulla. Diciamo di essere ancora in tempo, e facciamo buoni propositi.

1. Quest’anno intendo concentrarmi sulla scrittura. No, sul serio. Quest’anno voglio scrivere parecchio. Prima di tutto, scrivere. Ho un romanzo fermo a metà strada, momentaneamente parcheggiato nella corsia di servizio, ed è più che tempo di rimettercisi d’impegno. Ho due atti in seconda stesura e sto aspettando notizie da un paio di lettori sperimentali, dopodiché sarà ora di sistemarlo una volta per tutte. Ho un atto unico in ultima stesura, quasi – quasi – pronto per essere consegnato. Ho una mezza dozzina di progetti, tra vecchi e nuovi, su cui non vedo l’ora di cimentarmi. Avrete visto dal PBN che ho iniziato un atto unico miniature nuovo, ieri sera, perché non so se sia vero che chi scrive il primo dell’anno scrive tutto l’anno, ma mi è parso che, iniziare il nuovo corso, ci fossero modi peggiori di un inizio nuovo. Essì, forse avrei potuto dedicarmi a qualcosa che avevo già iniziato e che intendo finire, ma va bene lo stesso. Quel che conta è che il nuovo corso è iniziato.

2. Occasioni. Non perderne nemmeno una e, se possibile, crearne. Mai pensarci dopo, mai lasciar correre, mai dire “sarebbe bello ma…”, mai accantonare anche la più remota delle possibilità. Vero: se non ci provo non può andar male, ma non può nemmeno andar bene. Per cui, quest’anno ci si proverà. Si coglieranno tutte le possibilità che si presentano e anche qualcuna che non ha poi tutta quest’aria di volersi presentare, .

3. Corollario inevitabile dei due propositi precedenti: guerra alla procrastinazione. Posso voler scrivere un romanzo e un play dopo l’altro fino al prossimo dicembre, ma è ovvio che non succederà mentre cerco il nome cinquecentesco di un tipo di tessuto che forse – forse – potrebbe servirmi di qui a una decina di capitoli, o cerco su Pinterest il giusto tipo di paesaggio primaverile inglese con le siepi di biancospino. Mi piacerebbe dire che ogni volta in cui sarò tentata di procrastinare in un modo qualsiasi, mi metterò di buzzo buono e scriverò cinquecento parole, ma mi conosco: tutto quel che posso dire è che mi impegnerò seriamente.

E adesso basta così, perché tre buoni propositi sono, in my expercience, un’abbondanza di lavoro per un anno soltanto.

Ne riparliamo di qui a un anno, volete?

E voi? Che buoni propositi avete fatto per il Tredici?

Parliamo Di Numeri

Avrete notato che i Piccoli Bollettini – notturni, diurni e tutto quanto – si sono diradati.

Che devo dire? Non è come se scrivessi a carrettate, ultimamente. E qui potrei lanciarmi in alti lai sul Blocco dello Scrittore – ma non lo faccio, e invece vi mando a leggere un articolo sull’eterodosso psichiatra junghiano che sblocca gli sceneggiatori holliwoodiani. È improbabile che la lettura vi sblocchi, ma è pittoresca.

Invece vi metto a parte dei rimuginamenti indotti in proposito da un commento lasciato qui su SEdS.

Posso darti un suggerimento stupido? Smettila di contare. Se continui a contare, pensi di più ai numeri che non a quello che devi scrivere…

Ho considerato la questione, perché riconosco l’esistenza del rischio di scrivere come se si fosse a cottimo. Ma, dopo accurata considerazione, sono giunta a concludere che non è così. Che i numeri non sono una distrazione o una forma di paraocchi, ma parte del mio metodo.

E guardate, lo dico con una certa meraviglia perché sono davvero poco portata, e in via generale non riesco a contare nulla con un minimo di precisione. Eppure i numeri fanno parte del mio metodo in almeno due modi.

Da un lato, scoprire la possibilità di misurare ciò che si scrive in parole* è stato non poco liberatorio. Esiste un criterio semplice e convenzionale – per stabilire la lunghezza di pagine, capitoli e storie, e non devo occuparmene io. Eugé.

Sto facendo quel che devo fare all’interno della scena? Sto perdendo troppo tempo in convenevoli? Ho spazio per una piccola deviazione? Mi sono lasciata prendere la mano da una discussione sui massimi sistemi? Una rapida occhiata al contatore e so con ragionevole certezza se sono ancora sul sentiero che mi ero prefissa o sono andata per prati. E i numeri assomigliano a quel che dovrebbero essere, non ho bisogno di fermarmi a chiarire i dubbi. 

Poi è ovvio che le prime stesure sono prime stesure, e ci si allarga, si eccede, si ricama, si arriva alle questioni importanti non in linea retta ma di arabesco in arabesco… In prima stesura non mi sento obbligata ad essere tremendamente rigorosa – dopo tutto, per condensare c’è la revisione. Però a livello tattico avere una vaga idea di quanto si sta bighellonando per iscritto è già qualcosa. O almeno lo è per me.

E poi c’è l’altra questione, quella dei bollettini, del wordometer, dei conteggi serali. Questa è più strategica. Durante la WW mi ero prefissa un certo numero di parole in una settimana ed era importante vedere se stessi tendendo il ritmo. Adesso che non ho più questa scadenza, i numeri sono semmai ancora più utili come metodo anti-procrastinazione.

Se non ho una scadenza, è più facile che, invece di scrivere, mi metta a far lanterne. Se non c’è una scadenza effettiva, posso sempre fissarmene una da sola. Una versione tascabile della scadenza è un wordcount quotidiano, magari piccoletto. Raggiungere il wordcount è di soddisfazione. Superare il wordcount è di soddisfazione maggiore. 

È un fatto: se conto procrastino meno. Non è che smetta miracolosamente di procrastinare da un giorno all’altro, ma le cose migliorano abbastanza perché lo possa considerare un buon metodo.

E tuttavia, lo dicevo, la ragionevolezza di un bollettino quotidiano comincia a sembrarmi un pochino dubbia, per cui… Non so, per ora ho smesso di postare quando non scrivo affatto**. Probabilmente posterò un bollettino la prossima volta in cui scriverò qualcosa – perché, visto come stanno andando le cose, sarà un avvenimento degno di menzione. 

Dopodiché staremo a vedere, ma per contare, si conta.

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* Scoperta avvenuta a Cardiff, la prima volta in cui mi è stato richiesto un essay di 2000 parole. E posso anche confessare di avere consegnato il mio primo essay di diritto CEE scritto a mano, contando le parole e annotando i numerini a matita sui margini del foglio. Se avesse potuto, il mio tutor mi avrebbe tirato il collo.

** Come ieri: nemmeno una parola. Però ho fatto due lanterne di cui non sono del tutto insoddisfatta…

Scrivendo Scrivendo…

“Tu scrivi? Che bello. Anche a me piacerebbe tanto scrivere…”

“E allora scrivi.”

“Come? Cosa? Qui? Adesso?”

“Adesso. Qui. La storia che hai in mente da sempre – oppure la lista del droghiere. A mano o al computer, o con un chiodo intinto nel tuo sangue…”

“Ah, no, sai…” (risatina) “Non ho tempo, non sono capace, devo spazzolare il mio pastore alsaziano, non so da dove iniziare, ci vuole un sacco di tempo libero, mica a tutti riesce facile come a te…”

“Sssssssì, se ne potrebbe parlare. Ma resta il fatto che l’unico modo per scrivere è cominciare a scrivere. E leggere un sacco – cosa che avresti dovuto fare prima. E studiare la teoria – cosa che puoi cominciare a fare dopo avere provato a scrivere.”

“Eh, ma ci vuole il tempo. E soprattutto ci vuole l’ISPIRAZIONE. Mica puoi metterti lì e dire ‘adesso scrivo,’ no?”

“E invece è proprio quel che devi fare. Scrivere tutti i giorni, almeno un po’. Costruirti una disciplina. Pensa, se scrivessi 500 parole al giorno, cinque giorni la settimana, in otto mesi avresti la prima stesura di un romanzo di 80000 parol…

“Orrore! Sacrilegio! Anatema! Vade retro! Stiamo parlando di Letteratura, di Arte, mica di lavoro a cottimo! Forse così ci puoi scrivere la robaccia commerciale, ma la Scrittura vera… giammai!!!” 

E a questo punto, se non ho ancora perso del tutto la pazienza, di solito faccio notare che Stevenson scrisse Treasure Island in due settimane. E che Dickens scrisse la maggior parte dei suoi romanzi consegnando X parole una volta alla settimana… 

E che poche cose giovano alla scrittura come la pratica costante e disciplinata – e le scadenze.

Detto ciò, non è che ci si sieda lì e si scriva un romanzo ex abrupto: si va in battaglia preparati. In un mondo ideale, si predispone una mappa di quel che si vuole fare, ci si procura il grosso della documentazione che servirà, si fa conoscenza con i personaggi – e poi si scrive. Si scrive la prima stesura senza fermarsi, seguendo i piani, tenendo conto degli sviluppi inaspettati, senza preoccuparsi eccessivamente dei particolari. Per le finezze stilistiche, lo spelling esatto del nome del fabbro di spade toledano e le rime estemporanee della protagonista ci sarà tempo dopo. È a questo che servono le revisioni.

E questo genere di sistema vale anche se si ha tutto il tempo del mondo, ma tanto più se cè (o ci s’impone) una scadenza. Che devo dire? È da quando ho scoperto la genesi di Treasure Island che voglio fare qualcosa del genere. Una volta l’ho fatto con una novella – 42000 parole in una settimana – ma mai con un romanzo.

In questi giorni – dopo un anno abbondante dedicato esclusivamente al teatro – mi è tornato un gran prurito di provarci, e il merito è in buona parte di Davide Mana. Perchè Davide l’ha fatto. In sei giorni. Con tanto di incendio. Sei giorni più la vasta preparazione di cui si diceva – ma in quei sei giorni DM ha messo insieme la prima stesura di un romanzo.

Awesome.

davide mana, romanzo, sei giorni per salvare il mondo,  Qui trovate* i post in cui si narra l’impresa, moorcockianamente nomata “Sei Giorni Per Salvare Il Mondo”.

Qui invece trovate 6GpSiM – Il Manuale, ovvero la serie di articoli, note e stralci d’intervista che costituiscono la base teorica dell’esperimento.Vedrete che Stevenson non c’entra affatto.

Esperimento, gioco, duro lavoro, esplorazione della struttura, narrazione. E, più di tutto, scrittura. Quella cosa che non si fa aspettando l’Ispirazione.

Riuscite a leggere tutto ciò senza volerci provare anche voi? Io – ma forse s’era intuito – assolutamente no.

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* O almeno dovreste trovarli – perché forse non sembra, ma sto sperimentando con un genere di link che non ho mai tentato prima. Se non ci riuscite fatemi sapere, per favore, e provvederò a qualcosa di più tradizionale…