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E Fu La Scintilla

stephen king,alba de cespedes,branwell brontë,patrick rambaud,scritturaNel suo On Writing – quella cosa a metà strada tra una biografia e un manuale di scrittura, l’unico suo libro cui sia stata capace di accostarmi – Stephen King dice che c’è sempre un incidente scatenante, il momento in cui, leggendo qualcosa di altrui e pubblicato, l’aspirante scrittore viene colto dalla folgorazione: ma io posso fare meglio di così!

Quanto meno, così è stato per lui. Da ragazzino leggeva storie a puntate sulle riviste pulp, e a un tratto ha deciso che era capace anche lui. Non passava metà della sua vita a raccontarsene di simili?

Dopodiché, King non finge che dalla rivelazione in poi sia tutta una strada in discesa – anzi. Dopo la prima fiammata di entusiasmo cominciano le docce fredde, l’apprendimento dell’umiltà, i rifiuti, il duro lavoro… Però intanto la scintilla c’è stata, e ha spinto l’aspirante oltre la scogliera. L’aspirante ha smesso di aspirare e basta, e ci si è messo sul serio – tanto sul serio da mandare i suoi sforzi Là Fuori in cerca di fortuna.

blackwood's magazine, stephen king, branwell brontë, alba de cespedes, patrick rambaudQualcosa del genere avvenne a Branwell Brontë, noto a tutti come lo sciagurato fratello delle sue sorelle, ma con aspirazioni letterarie sue, in gioventù. A giudicare dalle lettere, fu leggendo le poesie sulla Edinburgh Review e su Blackwood Magazine che, ancora adolescente, Branwell decise che i suoi giochi letterari* meritavano platea più ampia delle sue tre sorelle. In realtà inclino a credere che il ragazzo coltivasse già un’ottima opinione di sé stesso e delle sue poesie: il confronto con quelle pubblicate sulle riviste non fece altro che spingerlo all’azione. Allora cominciò a tormentare i redattori di quelle che erano tra le maggiori riviste letterarie del tempo, sommergendoli di componimenti accompagnati da lettere introduttive in cui si definiva da sé un genio. In realtà nessuno gli diede mai retta** e col tempo Branwell abbassò il tiro: in vita sua non pubblicò mai più in grande che sulla stampa locale dello Yorkshire. stephen king, alba de cespedes, branwell brontë, patrick rambaud, scrittura

La storia di un incidente del tutto diverso, invece, ricordo di averla letta a proposito di Alba de Cespedes. Storia narrata in prima persona, letta più di vent’anni fa in un’antologia scolastica – of all places – e davvero non ricordo se fosse tratta da un romanzo o da qualcosa di più personale, ma all’epoca ebbi l’impressione di qualcosa di molto autobiografico. Ricordo con una certa precisione questa bambina sola in un salotto all’imbrunire, accoccolata sul “divanetto di seta celeste”, immalinconita per qualche motivo. E a un certo punto le “belle parole” cominciano ad eromperle dentro “dolorosamente”. La piccola Alba scoppia a piangere per l’impatto della rivelazione, e non sa come spiegare quel che succede al padre che l’ha trovata in lacrime. E da quel giorno comincia a scrivere. Nulla a che fare col confronto, e non ho idea di quanto la storia sia romanticizzata, ma ci siamo capiti.

stephen king, alba de cespedes, branwell brontë, patrick rambaud, scritturaE a dire il vero, un incidente scatenante l’ho avuto anch’io – composito. La lettura de La Bataille, di Patrick Rambaud, non scatenò nessuna certezza di poter fare di meglio***, ma mi fece domandare se non potessi fare altrettanto, e mi spedì in Francia a visitare possibili ambientazioni per una storia d’epoca napoleonica. Come poi invece finii in Vandea e cambiai periodo è un’altra storia, ma ancora mi si levano stormi di lepidotteri nello stomaco al ricordo di una certa notte insonne in una stanza d’albergo in una cittadina chiamata Cholet. La stanza era tutta bianca e verde, faceva un caldo assassino e io avevo una certezza nuova: avrei scritto un romanzo sulle guerre di Vandea. Sapevo farlo. Potevo farlo. L’avrei fatto. And sure enough, appena tornata a casa cominciai il romanzo e – cosa più rilevante – lo finii. Cosa ancor più rilevante, quindici anni più tardi sono ancora su quella strada.

Quindi, quando concordo con Stephen King in fatto d’incidenti scatenanti lo faccio per una commistione di fiducia, precedenti letterari ed esperienza diretta dell’esaltante, prometeico momento in cui la scintilla scocca e i sogni allo stato gassoso prendono fuoco****. Non è detto che funzioni, non è detto che bruci a lungo e non è nemmeno detto che conduca da qualche parte – ma a parte tutto, è un momento felice nella vita di uno scrittore.

 

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* Molta della poesia dei Brontë aveva a che fare con i mondi immaginari di Angria e Gondal – prima o poi ne parleremo.

** E a volte viene da domandarsi se qualcuno dei rifiuti non fosse motivato anche dalle lettere, perché il ragazzo poteva essere davvero obnoxious, quando voleva.

*** A parte tutto, è proprio un bel libro – battaglia di Essling con sottile taglio meta-letterario. A quanto pare la traduzione italiana non è più in commercio. Tocca cercare copie di seconda mano – o leggere in originale, che è sempre una buona idea.

*** Waxin’ lyrical, am I?

Mar 7, 2012 - grillopensante, teatro    4 Comments

Cri De Coeur

Aninha torna in scena domani sera al Teatro Monicelli di Ostiglia, in una versione completamente rinnovata, con la bravissima Giulia Bottura nel ruolo eponimo e tutta la banda di Hic Sunt Histriones.

Le prove sono state (stanno essendo, in verità) rough going, tra il burrascoso e il pittoresco.

In parte è colpa mia, mi si dice, perché ho insistito per cambiare parte delle musiche di scena fino all’ultimo momento – e soprattutto, mi si dice, perché dopo una sessione di prove più cruenta della media, me ne sono uscita con questo inqualificabile cri de coeur (che riporteremo in forma di discorso diretto perché possiate apprezzarne appieno il devastante impatto):

“Certo che Anita e Garibaldi mi sono proprio antipatici…”

Ecco. E l’ho detto perché è proprio vero. Mi sono antipatici entrambi, anche se ammetto che forse avrei potuto aspettare un momento più tranquillo per farlo. Ma tant’è, ho dei nervi anch’io, e l’ho detto. La cosa ha prodotto un istante di silenzio denso da galleggiarci, e dieci paia d’occhi spalancati a dimensione piattino da tè.

“Ma… ma se ci hai scritto su!” ha boccheggiato qualcuno.

E io, ancora più imperdonabilmente ho detto che in principio fu la commissione…

Ecco, a quanto pare, questo è il genere di cose che non si dovrebbe dire. Ai lettori, a quanto pare, piace immaginare che ogni parola che si scrive sia frutto di appassionato trasporto nei confronti dell’argomento – nonché di profonda adesione morale ed emotiva. E guai a dire che non è così.

“Non devi dire queste cose,” mi rimbrotta R. che sospetto capisca bene un certo genere di lettore. “A parte il fatto che ti considerano falsa e mercenaria, non a tutti piace vedere i giocattoli smontati.”

E posso ammettere che non a tutti piaccia vedere i giocattoli smontati. È vero, e prometto di avere maggior considerazione per questa legittimissima esigenza in futuro.

Quanto all’apparire falsa e mercenaria, però, parliamone. Lo scrittore non è colui che s’innamora del soggetto X e ci versa quantità industriali d’inchiostro (con maggiore o minore competenza). Lo scrittore è colui che scrive. Che esplora per iscritto. Che esplora  sé stesso, il mondo, la condizione umana, la storia, whatever. Il processo di esplorazione è importante quanto e più del soggetto. Il fatto di esplorare fatti che non apprezza o idee che non condivide, non lo rende falso: lo rende capace di astrarre e di ricreare qualcosa d’altro da se stesso. Di concedere altri punti di vista. Di comprenderne e rappresentarne meglio che può le ragioni. Magari di cambiare idea in proposito – oppure no, ma intanto ha indagato idee diverse e le ha esposte all’indagine altrui*.

Il fatto di fare tutto ciò su commissione è una prostituzione della propria arte? Nonsense. Si parvissima licet, vogliamo discutere di quanti Caravaggio sono stati dipinti su commissione e quanti per puro capriccio d’ispirazione? La commissione non sminuisce l’artista o l’opera. La commissione propone all’artista un soggetto su cui esercitare le sue capacità di tecnica e d’ispirazione. Se poi si tratta di un soggetto cui l’artista non si sarebbe accostato di suo, tanto meglio: la commissione paga le bollette e allarga gli orizzonti.

Non mi sento né particolarmente falsa né molto mercenaria per aver scritto Aninha. Non più falsa di quanto sia nello scrivere qualsiasi cosa che non sia un’autocertificazione.

Il mio mestiere non è mostrare adesione sentimentale a quel che scrivo – ma raccontare storie in maniera interessante e intellettualmente onesta. E visto che ho cercato di descrivere Aninha come ho immaginato che percepisse se stessa, lasciate che mi senta a posto con la mia coscienza in questo specifico caso.

Dopodiché, faccio buoni propositi: pur continuando a giocare alla mia maniera, cercherò di non smontare troppi giocattoli in pubblico. Con l’eccezione di Senza Errori di Stumpa, si capisce – ma non precipiterò mai più nello sconforto e nella diffidenza innocenti attori e innocente pubblico.

O almeno quasi mai più.

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* Uno dei complimenti che prediligo è quando qualcuno mi dice che, per colpa mia, è andato a rispolverare l’Eneide, Tito Livio, le memorie di Garibaldi…

A’ Chacun Ses Obsessions

Tendo ad essere riluttante quando mi trovo davanti a un meme – tendo a pensare che gratifichi più il blogger che i lettori. Tendo a chiedermi chi vorrà davvero sapere dieci cose di me, o che musica ho nell’iPod, o quali sono i luoghi che vorrei visitare… E così in genere tergiverso. A volte (ai limiti della scortesia, temo) persino quando sono invitata.

In questi giorni, però, ho intravisto in giro due esemplari della specie che mi attraggono da matti. Sarà che mi ci sono imbattuta su due dei miei blog prediletti, e sia Davide Mana che Alessandro Forlani ne hanno cavato altrettanti post con i fiocchi, sia come sia – in uno dei due mi sono infilata senza invito particolare, perché si tratta di scrittura, di temi ricorrenti, qualcosa a mezza strada tra fari lungo la costa e Alisei costanti.

Ossessioni, le chiama qualcuno in giro per la blogosfera – e non è del tutto inaccurato. Temi cui si ritorna, intenti perseguiti, passioni consolidate – qualcuna deliberatamente, qualcuna quasi da sè. Tutti ne abbiamo una manciata, non è vero?

Ebbene, ecco la mia costellazione.

meme,ossessioni,scrittura1) L’Inafferrabilità della Storia – In principio erano i libri di scuola, così rassicuranti con le loro interpretazioni univoche e le loro vicende sotto vetro. Poi cadde il Muro di Berlino e il vetro si ruppe: la storia succedeva in pratica, era fluida e travolgente e piena di correnti sotto la superficie, e il mondo poteva cambiare nel giro di una notte… Allora cominciai a studiare storia sul serio, scoprendo la varietà sconfinata di punti di vista, interpretazioni e letture, e la quantità di cose perdute che non sappiamo più, che non sapremo mai, e il variare di equilibri attraverso i secoli, e il peso della sconfitta, delle leggende, della letteratura. E così scrivo narrativa (e teatro) a sfondo storico, e tendo a scegliermi protagonisti minori, o sconfitti, o maltrattati attraverso i secoli – non per mettere ordine, ma per amore di questa iridescenza del passato. Ciò è poco scientifico, ma molto narrativo. ossessioni letterarie

2) Menzogne, Bugie, Fanfaluche, Omissioni – I miei narratori sono inaffidabili, le mie storie sono oblique, i miei personaggi mentono, i miei protagonisti tendono a mentire più di tutti, ad avere secondi fini, a manipolare il prossimo. Nella migliore (o peggiore) delle ipotesi, sono costretti a mentire pur non volendolo fare. D’altra parte, che cosa c’è d’interessante nella nuda e cruda verità? Alle storie servono conflitto, dubbi, sorprese, svolte inattese, domande, tesori nascosti, segreti rovinosi – senza contare il fatto che tutta la letteratura è, in via di principio, una vasta menzogna consensuale, e il rapporto tra arte, rappresentazione, convenzione e menzogna è affascinante di per sé. Ronald B. Tobias diceva che every story is a riddle, e aveva ragione da vendere. Trovo che la sincerità sia una virtù sopravvalutata nella vita – e del tutto dull in un romanzo. O a teatro.

3798118720.jpg3) Metanarrazione – Il modo in cui le storie nascono, cambiano, si raccontano, influenzano la realtà e ne sono influenzate mi interessa quasi quanto le storie stesse. A volte persino di più. Non dico che non mi capiti anche di scrivere qualche storia letterale, ogni tanto – ma se mi si offre la benché minima possibilità di intrecciare un filo metaletterario alla mia trama, chi sono io per oppormi? Piani temporali sovrapposti, gente che si racconta inaffidabilmente, scrittori che si scrivono, storie viste attraverso gli occhi di gente che le legge, possibilità alternative, teatro nel teatro… Tutto quel  che può servire a mostrare più di un’angolazione o più di uno strato mi rende ridicolmente felice. E sì, lo so: ho una mente contorta. prometheus_brings_fire_to_mankind.jpg

4) A (generally thwarted) Need for Better Colours – Le mie storie sono piene di gente che aspetta, immagina, prefigura, s’illude, si affanna per qualcosa che non può avere. O che, quando arriva, non è come doveva essere. Ho un debole per le cause perse, per la sconfitta, per l’irreparabile momento in cui l’attesa e la battaglia sono terminate, ed è troppo tardi per tutto tranne il rimpianto. Qualcuno dei miei personaggi s’illude davvero, altri sono perfettamente consapevoli di quel che stanno facendo – ma per tutti, alla fin fine, la vita sta nella cerca e non nel risultato. Nessuno ottiene mai quel che vuole – nemmeno quando sembra che sia così.

ruscha-the-end.jpg5) Cambiamento Irreparabile ed Epocale – Quel che un sacco della mia gente scritta vuole è difendere il proprio mondo. Solo che non può, perché il mondo in questione sta finendo, tramontando, cambiando per sempre. Non c’è modo di tornare indietro – la scelta è tra l’adattarsi al cambiamento e sposare oltre ogni ragionevolezza la causa del declino. I miei protagonisti, per lo più, scelgono la seconda opzione, perché ciascuno è sentimentale a modo suo, ed è così che lo sono io. L’ho già detto che nessuno ottiene mai quello che vuole?old_england_09.jpg

6) La Vecchia Inghilterra – La storia inglese, la lingua inglese, la letteratura inglese, il nonsense il paesaggio inglese, le città inglesi hanno – forse qualcuno di voi lo avrà notato – una certa tendenza a comparire nella mia conversazione e nelle mie storie. Adoro quest’isoletta che, da terra di conquista, è diventata il centro del mondo e poi, quando ha cessato di esserlo, ha continuato a comportarsi come se lo fosse. È la commistione di arroganza, spirito di contraddizione, culto della riservatezza, assurdità e ingegno, credo. E so bene che quell’Inghilterra che è principalmente un’idea, quella in cui mi riconosco così bene, sotto molti aspetti non c’è più – ma questo non cambia le cose. Lasciatemi giocare con la mia Inghilterra immaginaria, please

7) Kit Marlowe – Anche questo, dite6a00d8341cc27e53ef0147e38c3701970b-200wi.jpg la verità, l’avevate intuito. Da qualche anno, Kit è la mia ossessione in carica. Prima c’è stato (a lungo) Annibale Barca, e prima ancora il Barone Rosso, e Manfredi di Svevia… Marlowe è diventato una specie di figura del coraggio intellettuale: un uomo che coltivava  apertamente ogni genere di idea eterodossa in un’epoca in cui le idee eterodosse conducevano alla forca (preceduta da tortura e seguita da sbudellamento, annegamento e squartamento), che scriveva storie di aspirazione, ambizione e rovina, che descriveva menti alla perenne ricerca di conoscenza infinita… ecco, un uomo così è fatto per essere raccontato a teatro e nei romanzi. E badate, inclino a credere che di persona dovesse essere insopportabile, ma fa lo stesso. Dopo tutto è parte di una collezione di ossessioni – dove è scritto che deve avere una logica?

E non dico che sia tutto, ma di sicuro è tutto molto ricorrente.

E voi? Che cos’è che tornate a scrivere? O che tornate a leggere?

Feb 19, 2012 - bizzarrie letterarie, editing    Commenti disabilitati su Omero E Il Suo Editor

Omero E Il Suo Editor

Assolutamente irresistibile – su segnalazione di Alessandro Forlani.

E se siete di Mantova o dintorni, e se vi va un po’ di teatro nel pomeriggio, oggi all 16.00, al Teatrino D’Arco, chiude Di Uomini E Poeti

Buona domenica.

Buona Domenica.

Don’t Show & Tell

Su Show, Don’t Tell si può discutere. Come tutte le prescrizioni andrebbe presa con la debita quantità di sale, e tutti siamo d’accordo sul fatto che mostrare al momento sbagliato può essere tanto disastroso quanto dire inopportunamente. Sulle proporzioni ci sono scuole di pensiero, e non intendo addentrarmi adesso nelle intricacies della faccenda.

Ma c’è qualcosa che, a mio timido avviso, sarebbe sano evitare come la forma più virulenta di peste nera – ed è mostrare & dire.

I’ll show, con un piccolo esempio tratto (e tradotto) da una mia recente e poco felice lettura.

“Posso fidarmi di te, Kit?” domandò Tom, incerto della lealtà del suo volubile amico.

Toi. Non vi viene mal di denti al solo leggerlo? Abbiamo visto che Tom non si fida granché di Kit nel momento in cui gli ha chiesto se può fidarsi di lui… perché diamine disturbarsi a dirlo? Abbiamo capito, grazie.

“Posso fidarmi di te, Kit?” domandò Tom.

Questo sarebbe servito perfettamente allo scopo, senza dare al lettore la sgradevole sensazione di essere considerato denso. Volendo, si sarebbe potuto aggiungere un gesto per sottolineare l’incertezza di Tom, o aggiungere quel tanto di subtesto – che non fa mai male.

“Posso fidarmi di te, Kit?” domandò Tom, incurvando appena le spalle e distogliendo lo sguardo.

Questo m’indurrebbe a pensare che Tom tema molto di non potersi fidare, quale che sia la risposta.

“Posso fidarmi di te, Kit?” domandò Tom, fissando dritto negli occhi il suo volubile amico.

Questo è un cavallo di un altro colore: avanti, dimmi che posso fidarmi, e ti crederò – oppure prova a dirmi che posso fidarmi, se ne hai il coraggio, a seconda del contesto.

D’altro canto, non ci sarebbe stato nulla di orribilmente criminale nel limitarsi a riferire i pensieri di Tom (il cui punto di vista coincide con quello della narrazione – la maggior parte del tempo). 

Tom era incerto della lealtà del suo volubile amico.

Non è ideale – e non funzionerebbe granché nel contesto in cui si trova nella pagina da cui ho pescato l’esempio – ma in un paragrafo di transizione o come aside che qualificasse in via marginale considerazioni diverse, potrebbe anche andare.

Sempre meglio – treni merci meglio – che mostrare & dire, perché, come dicevasi qualche paragrafo fa, il lettore tende a capire da sé le implicazioni di una domanda come “posso fidarmi di te?” La traduzione nella stessa riga è bruttina, ingombrante e una fonte d’irritazione.

Tutte cose che non fanno bene alla scorrevolezza della lettura, alla sospensione dell’incredulità e (cosa che posso garantire per diretta e frustrante esperienza) alla gioia generale del lettore.

Ott 28, 2011 - Oggi Tecnica    3 Comments

Trascrivi… Ed Essi Verranno

“Essi” nel senso di “personaggi con una voce propria.”

Nel corso di un seminario sul dialogo narrativo, Elizabeth Sims consigliava di sedersi in luoghi pubblici e ascoltare la gente che parla. E di trascrivere, magari.

“Io lo faccio spesso,” dice. “Mi siedo da solo in qualche Starbucks affollato, fingo di lavorare e in realtà ascolto e annoto. Ho trovato delle gemme, in questa maniera…”

E badate che non si riferisce a gemme di storie, ma gemme di usi colloquiali, espressioni, giri di frase e cose del genere. Il tipo di gemme che, opportunamente lucidate e incastonate nel posto giusto, servono a dare a un personaggio una “voce” individuale e credibile.

Qualcosa del genere consiglia anche Jeffrey Sweet in fatto di teatro: “Non potrò mai raccomandare abbastanza l’utilità di registrare conversazioni e trascriverle.”*

Perché entrambi cominciano col raccomandare di leggere trascrizioni: libri di storia orale, raccolte di interviste, trascrizioni di processi e tutto quello su cui si possono mettere le mani – e non so bene che cosa e quanto si trovi in giro in Italiano. Oddìo, tutte le trascrizioni giudiziarie che si possono volere e anche molte di più, apparentemente, ma pensavo alla storia orale e alle interviste senza interventi cosmetici…

Tolto questo, e al di sopra e al di là, però, Sims e Sweet cantano separatamente le lodi dell’ascoltare conversazione spontanea e trascriverla. Sweet propone un’alternativa per la gente che, come la sottoscritta, è un po’ terrorizzata dall’idea di farsi beccare a trascrivere la conversazione altrui: registrare un talk show e – you guess it – trascriverlo. L’idea di base è, suppongo, che in un talk show non si parli in modo particolarmente sorvegliato… ed è quello che si vuole: conversazione per quanto possibile spontanea**, in cui la gente s’interrompe, usa intercalari, ellissi, sgrammaticature, espressioni peculiari, digressioni.

E, dice Sweet, sarà particolarmente istruttivo notare la scarsità di aggettivi ed avverbi che si usano davvero in conversazione. Gli aggettivi che Twain consiglia di sterminare. Gli avverbi che secondo King lastricano la strada per l’inferno… Questo è un esperimento interessante: ascoltatevi e ascoltate altra gente, e vedrete che parlando si usano altri mezzi per far passare intenzioni, sfumature e colori – tutta la roba che, in un romanzo (e nel teatro di autori inesperti), viene affidata alle bestioline infestanti.

Sweet dice addirittura che l’attore americano medio, quando trova un aggettivo altisonante o un avverbio decorativo, ingrana un riflesso automatico e inserisce un’impercettibile esitazione. Come se il personaggio stesse cercando l’aggettivo o l’avverbio in questione. Affascinante teoria – e istruttiva.

Badate: con questo nessuno vuol dire che si possa ascoltare la conversazione dei vicini di tavolo e piazzarla così com’è in una pagina scritta. Il buon dialogo narrativo (e teatrale), si sa, è pesce già sfilettato: solo le parti buone, accuratamente ripulite da tutto ciò che è innecessario o non significativo.

Jon Dorf propone una versione “per sottrazione” dell’esercizio: ascoltare una conversazione*** e badare tutti gli “Er…” e “Ah,” tutte le ripetizioni, tutte le frasi non terminate, tutto ciò che non aggiunge nulla alla conversazione. E tutti sappiamo che, scrivendo, ogni parola deve servire ad almeno una di due cose: avanzare la trama e/o caratterizzare il personaggio.

E quindi? E quindi la sfida consiste nel bilanciare tra essenzialità dell’informazione e individualità della voce, e il segreto potrebbe risiedere proprio in quei patterns of speech, quelle costruzioni peculiari, quei modi d’interrompersi a vicenda o di implicare strati di conoscenza in comune – quelle gemme che Sims raccoglie da Starbucks.

Insomma, ecco un gioco: ascoltare, annotare, trascrivere. Perché in fondo in scrittura, come in alchimia, nihil ex nihilo fit. Le voci ci sono già, basta catturarle, sfilettarle e combinarle per la bisogna dei personaggi e delle storie.

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* Da The Dramatist’s Toolkit – trad. mia.

** Col che non intendo dire che ci sia alcunché di spontaneo in un talk show dal punto di vista del contenuto, ma la forma dovrebbe essere uncensored e brada quanto basta. E poi non lo so per certo, perché parlo da platanicola poco meglio che ignara. dubito di avere mai davvero guardato un TS per più di un paio di minuti…

*** “La prossima volta che uscite con gli amici, passate un po’ di tempo ad ascoltare davvero, senza dire nulla, e prendete mentalmente nota…” Oh sì, fatelo: è un po’ meno imbarazzante che farsi sorprendere con un taccuino o un registratore, ma è il genere di cose che vi fa considerare distratti e inclini ad attacchi di vaghezza. Then again, i vostri amici non ci faranno caso, perché vi considerano già così. In fondo siete scrittori – vale a dire gente un pochino strana.

Forma & Sostanza

Dopo essersi sorbito un certo numero di lai furibondi sulle lacune son et lumière del debutto di Aninha (una volta o l’altra vi racconterò), P. mi scrive così:

Senza troppi preamboli, ti dirò che non capisco il perché delle tue apprensioni per il mancato funzionamento degli effetti speciali. Capisco che, dopo aver lavorato alacremente agli effetti luce, al sonoro, e a tutti i dettagli che di sicuro rendono perfetta la rappresentazione, tu possa contemplare l’omicidio di vari tecnici. Però, gli applausi finali dovrebbero semmai darti ulteriore conferma che le tue opere hanno già molta sostanza, al punto che la forma, pur non inessenziale, può anche passare in secondo piano, purchè non si tratti di far recitare degli energumeni dotati solo dell’uso del dialetto etilico. Se le luci e il sonoro funzionassero alla perfezione, ma i tuoi lavori avessero poco da dire, il pubblico avrebbe probabilmente l’impressione di assistere ai fuochi della sagra, non credi?

Ebbene, sì e no.

Ormai è assodato che mi faccio venire attacchi di convulsioni con relativa e innecessaria facilità – ed è risaputo che della mancanza o imperfezione dei particolari del disegno luci in trentasei pagine il pubblico non si accorgerà mai. Quindi P. è ben lungi dall’avere tutti i torti.

On the other hand, però, non amo molto la teoria secondo cui la sostanza è tutto quel che conta, o almeno quel che conta di più, per la semplice ragione che in fatto di teatro, come di scrittura e di arte in genere, la forma è sostanza. Che cos’è l’arte se non espressione formale della sostanza? Metaesempio: tutti – o quanto meno molti – hanno la vaga impressione che la sostanza (nella vita reale) importi più della forma*. Però c’è voluto Shakespeare per dire che una rosa con un’altro nome profumerebbe allo stesso modo. E nel dirlo si contraddice, perché a rendere pressoché immortale la sua idea di forma/sostanza è proprio la forma. Ma in realtà, al di là degli aerei nonnulla che faceva sussurrare al suo adolescente innamorato, lo zio Will sapeva benissimo che, se si chiamasse acido tetrafenilcloridrico, la rosa conserverebbe forse lo stesso profumo, ma non troverebbe molta gente disposta ad annusarla per accertarsene…

In un romanzo, un racconto, un articolo o una poesia, ciò significa che stile e contenuto devono fondersi per stampare un’unica impronta nella mente del lettore. “Dice belle cose ma è scritto male”, oppure “E’ scritto divinamente ma non è che dica granché” sono due insegne di scrittura parimenti così così.

In teatro, alla buona scrittura devono aggiungersi la buona recitazione, la buona regia, le buone luci, le buone scene, i buoni costumi, le buone musiche e il Something-something creato dal felice combinarsi di tutti questi elementi. Se ne manca anche solo uno, il risultato resterà sempre così così. Non intendo imperfetto – l’imperfezione è un’altro mantello dell’arte – ma proprio leggermente mediocre. Lacking in quality. Dilettantesco. Un tantino naufragato sugli scogli che stanno tra intenzione e realizzazione dell’intenzione stessa.

Come dicevasi più sopra, ciò si applica anche a tutte le forme di scrittura – seppure in modo meno spinoso, perché il romanziere, il poeta e l’articolista hanno molto più controllo sulla loro forma di quanta il playwright possa mai sperare di averne sulla forma del risultato finito, che deve combinare le sue intenzioni e competenze con le intenzioni e competenze di un sacco di altra gente.

Il principio però rimane lo stesso: in qualsiasi disciplina, la più solida e profonda delle sostanze non è una scusante per le lacune della forma. E a dire il vero, cercare questo genere di scusanti cessa di sembrare una buona idea non appena si considera che curare la forma è il modo più efficace per affinare l’espressione della sostanza.

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* Francamente non sono molto d’accordo nemmeno per quanto riguarda la vita reale, ma questo è un altro post.

Ago 9, 2010 - grillopensante    3 Comments

Calvin, Hobbes e la Scrittura

Potrebbe sembrare che qui mi tiri, come suol dirsi, la zappa sui piedi, ma sto lavorando sul mio paper per un convegno di Archeologia Sperimentale cui interverrò a settembre, e quando mi sono imbattuta in questo non ho resistito. Traduzione mia.

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Esiste davvero qualcuno a cui non piacciono Calvin & Hobbes? 

Lug 30, 2010 - scrittura    2 Comments

Joseph Pulitzer diceva…

typewriter_button.jpgJoseph Pulitzer (quello del Premio Pulitzer) diceva:

Diglielo in breve, così lo leggeranno; diglielo chiaramente, così lo capiranno; diglielo vividamente, così lo ricorderanno; e soprattutto diglielo con rigore, in modo che ne siano illuminati e guidati.

Non vale solo per il giornalismo – why, dovrebbe valere ogni volta che si prende una penna in mano.

Lug 9, 2010 - scribblemania    Commenti disabilitati su Giornate d’Estate

Giornate d’Estate

Oggi mi sono piazzata in giardino con il computer portatile e una quantità industriale di autan, e ho scritto.

Ho scritto a lungo, con costrutto e con soddisfazione.

No, non ho nemmeno toccato 7K, e men che meno TRA. Siccome sono dissennata, ho lavorato per un’oretta all’ennesima lucidatura di una novella lunga che spero di vendere a una rivista (non Glimmer Train) e poi mi sono dedicata a un’altra cosa, E’ una faccenda senza capo né coda che ho in mente da secoli e ultimamente ha preso forma per l’irragionevole motivo che ho visitato un’enorme, imponente e meravigliosa abbazia benedettina – il posto perfetto per questa storia, nonostante quello che pensavo prima in proposito. Non è nulla che pensi di pubblicare, anche perché è solo semi-storica ed è in una forma irragionevolmente anacronistica: consideriamolo un esercizio, un esperimento, una vacanza – davvero non so.

Epperò scrivere per quasi cinque ore senza alzare la testa dal computer… Ah! E oggi, meteo permettendo, encore.