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Feb 12, 2011 - Oggi Tecnica    2 Comments

Elevator Pitch

Ricordate The Sentence? Il vostro romanzo in quaranta parole, esercizio di focalizzazione – perché fa sempre comodo avere ben chiaro che genere di storia stiamo raccontando – nonché strumento di promozione, buono per l’editor incontrato al ristorante, per il lettore ancora solo vagamente curioso e per l’intervistatore alla fiera del libro…

In un articolo su The Red Room, Nina Amir propone un’interessante variazione sul tema, incentrata sul concetto di Elevator Pitch. Il termine è mutuato dal marketing, e descrive un’introduzione del proprio prodotto/servizio/ditta/libro tanto breve da poter essere fatta nel corso di uno spostamento in ascensore, e tanto efficace da spingere l’interlocutore a formulare la magica richiesta: “Mi dica di più..”

Il discorso è interessante perché Amir non si limita a prescrivere la preparazione di una Sentence, ma spiega anche come usarla all’atto pratico, supponendo di ritrovarsi in ascensore o al buffet con il responsabile delle acquisizioni della casa editrice dei nostri sogni.

Punto primo: se credevamo che comprimere un romanzo in quaranta parole fosse un’ordalia, adesso la cosa si complica ulteriormente: 25 o 26 parole, dice Amir, e davvero non vogliamo superare il limite. Questo perché nell’ipotetico mezzo minuto non vogliamo parlare  solo noi. L’editor deve avere il tempo di fare qualche domanda, anzi: in un mondo perfetto dovremmo indurlo a fare qualche domanda, con il nostro perfetto, attraentissimo, intrigante pitch di 25 parole. Ecco che allora ogni singola parola, ogni congiunzione e ogni articolo devono essere valutati con cura, ogni aggettivo deve raccogliere più connotazioni possibili, ogni verbo deve essere tanto efficace quanto può esserlo. Diventa necessario scegliere tra nomi, cognomi e attributi, o addirittura tra premesse, tratto singolare e antagonista. Qual è l’aspetto più unico della storia? Che cosa solleticherà di più la curiosità dell’interlocutore?

Una bambina disobbediente gioca una partita d’astuzia con un lupo parlante, e la posta in gioco è la sopravvivenza. (19)

Punto secondo: un tratto fondamentale dell’elevator pitch è quello di mettere in risalto il beneficio per il consumatore. Ora, questo può essere ovvio per la pasta d’acciughe, il sapone liquido e per un libro su come imparare a suonare il violino da soli. Per un romanzo sembra quasi impossibile, vero? Qual è mai il beneficio di leggere un romanzo, a parte il piacere di leggerlo? Amir suggerisce di concentrarsi sul tema di fondo: che cosa impara il protagonista? Verosimilmente è quello che imparerà anche il lettore.

In una letale partita d’astuzia con un lupo parlante, una bambina impara che la mamma ha sempre ragione: mai parlare agli sconosciuti. (22)

Punto terzo: una volta pronto il pitch, bisogna anche impararlo a memoria, esercitarsi a dirlo in modo fluido, sicuro e non meccanico. All’editor  che potrebbe comprare il nostro libro (e, se lo fa, dovrà vendere anche la nostra immagine insieme al parallelepipedo di carta) vogliamo dare l’impressione di sapere quello che diciamo, di essere brillanti, sani di mente e competenti su quello che abbiamo scritto.

Punto quarto: bene, immaginiamo che il pitch abbia funzionato. L’editor annuisce e ci invita a dirgli qualcosa di più… vogliamo farci cogliere impreparati? Giammai, poffarbacco! E’ qui che Amir suggerisce di prepararsi almeno tre punti su cui sviluppare il discorso, tre aspetti rilevanti del libro e/o di noi (se abbiamo ambientato il libro in Cina dopo avere trascorso dieci anni a Pechino, questo è un buon momento per dirlo), tre buoni motivi per cui l’editor dovrebbe sentirsi ancor più interessato al nostro romanzo e a porre altre domande.

La storia esplora vecchi temi legati al folklore centroeuropeo, sezioni della narrazione sono nel punto di vista del lupo/antagonista per mostrare la protagonista attraverso occhi ostili, e ho ambientato il tutto in un Settecento tedesco ricostruito con un misto di rigore storico e concessioni al fiabesco…

A questo punto dovremmo essere avviati felicemente e, se l’editor decide che il libro non fa per lui, almeno sapremo di non avere rovinato tutto con le nostre mani. Possono esserci infiniti motivi per cui la casa editrice dei nostri sogni non vuole pubblicare il nostro romanzo, ma se – quando l’occasione si presenta – riusciamo ad essere efficaci, brillanti e concisi, non saremo noi ad aggiungerne uno in più.

Gen 25, 2011 - scrittura    Commenti disabilitati su Corso Di Scrittura Narrativa A Nogara (VR)

Corso Di Scrittura Narrativa A Nogara (VR)

CORSO DI SCRITTURA NARRATIVA.JPGSono davvero felice di annunciare il mio nuovo corso di scrittura, organizzato dall’associazione LOGiCA presso la biblioteca di Palazzo Maggi a Nogara (VR).

Da febbraio ad aprile, dieci incontri alla scoperta dei meccanismi, degli elementi, delle tecniche – una specie di giro dietro le quinte della scrittura di una storia, con uno spirito decisamente hands-on.

Non ci limiteremo a vedere come funziona: proveremo a costruire trame, a caratterizzare personaggi, a creare atmosfere,  a giocare col linguaggio, a raccontare attraverso il dialogo, il punto di vista e l’azione… esploreremo e sperimenteremo la pratica del mestiere – quella che serve per dare forma all’ispirazione.

Non vedo l’ora!

Le iscrizioni sono aperte fino al 31 gennaio, e i dettagli e i contatti si trovano qui.

Gen 22, 2011 - scribblemania    Commenti disabilitati su Narrativa Lampo

Narrativa Lampo

Le linee guida di Glimmer Train impongono un limite massimo di 12000 parole per storia. Non c’è limite minimo – anche se raramente una storia al di sotto delle 500 parole suona completa.

Altrove le storie al di sotto delle 500 parole sono ricercate specificamente e fatte oggetto di appositi concorsi, sotto il nome di flashfiction. Il che non significa che a GT abbiano torto, anzi: la difficoltà sta, appunto, nel raccontare in maniera compiuta una storia in 500, 400, 200 o 100 parole*.

E’ difficile. Tanto difficile che la maggior parte di ciò che va sotto il nome di flashfiction non è costituita da storie, ma da bozzetti descrittivi, squarci di prosa poetica, fettine e altre cose sperimentali. Non storie. Le storie sono rare, col risultato che il genere è complessivamente noioso da leggere. Non so se esista davvero gente che legge per diletto l’altrui flashfiction, e non la sto consigliando come lettura.

Sto consigliando di scriverne, cavallo di tutt’altro colore: dover infilare tutti gli elementi di una storia – trama, personaggi, conflitto, atmosfera, descrizione – in poche centinaia di parole è un lavoro di cesello, perché obbliga a considerare il peso e la necessità non solo di ogni frase e concetto, ma di ogni singola parola. Che cosa è davvero essenziale? Che cosa può essere sottinteso? Come indurre il lettore a immaginare tutto quello che non c’è spazio per dire?

Favoloso esercizio che costringe a guardare da vicino la propria scrittura, ad analizzarla al microscopio – o meglio: con una lorgnette da gioielliere. Si possono fare sconcertanti scoperte sul proprio rapporto con gli aggettivi, per esempio. O sulla natura delle proprie costruzioni sintattiche, o sul proprio metodo di caratterizzazione. O sui propri inizi… oh, gli inizi!

Naturalmente, scrivere bozzetti descrittivi non vale. Bisogna sforzarsi di farne una storia, una storia, una storia. In 500 parole prima, poi in quattrocento e via amputando – magari di 50 in 50. Quand’è che smette di essere una storia? Qual’è il limite dell’irrinunciabilità? Che cosa segna il confine tra la potatura e la lobotomia?

Attenzione: il gioco genera assuefazione e dipendenza.

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* Una volta ho partecipato a una cosa chiamata 60 Words Epics. Era un tantino estremo…

Nov 27, 2010 - grilloleggente, Oggi Tecnica    2 Comments

Entered From The Sun – Pag. 145

Sì, dopo tutto non l’ho piantato lì, e dopo tutto anche il Capitano Barfoot è stato incaricato da altra gente (davvero?) di indagare sulla morte di Marlowe. A differenza di Hunnyman, Barfoot non accetta per paura o per avidità, ma perché è incuriosito e per proteggere gli interessi della sua famiglia. Tra parentesi, è vieppiù chiaro che Hunnyman è un caso senza speranza: un buon ragazzo che si crede molto più astuto e più cinico di quanto sia, alla completa mercé sia della vedova che del suo misterioso datore di lavoro – chiamiamolo Tom, per il momento. I have a fondness per Tom Walsingham, anche se forse nel 1597 non sarebbe stato considerato così giovane da descriverlo sempre come “un giovanotto”. E chiunque egli sia, il suo giudizio in fatto di investigatori è suscettibile di dibattito…

Ma non è di questo che volevo parlare.

Quello che mi fa diventare matta in questo libro sono i punti di vista. Tutto è cominciato con una narrazione in III persona a punti di vista alternati: Hunnyman, poi Barfoot, poi Hunnyman, occasionalmente Alysoun… salvo che poi ogni tanto s’infila altra gente, come un misterioso narratore in I persona che all’inizio si è presentato come “nulla più che un fantasma”, poi ha cominciato a sconfinare nei capitoli di Barfoot, e io credevo che fosse uno sporadico intervento autoriale, ma adesso sono sicura che non è così. Costui salta fuori ogni tanto come un pupazzo a molla, fa considerazioni e digressioni, moraleggia e ipotizza, si rivolge al lettore – why, in almeno un’occasione, per un po’, identifica il lettore con Barfoot… E quando il discorso si fa indiretto, a volte sembra essere lui che ascoltiamo.

Un fantasma… che sia Marlowe? Ma no: da un lato, l’autore ha descritto tutti i personaggi come fantasmi; dall’altro il narratore in I persona (che non è l’autore) ha elencato i personaggi comprendendo sé stesso e Marlowe (che in questa storia non avrà molto da dire per sé) come entità distinte. Ossignor!

A scuola c’insegnano a limitare funzionalmente i punti di vista. Ad essere molto cauti nel mescolare I e III persona (e ad evitare la II come la peste); ad essere coerenti nei tempi verbali; e soprattutto a non confondere il lettore – mai – e a non permettere che la scrittura abbia il sopravvento sulla storia. Ebbene, con Garret non ho mai la più pallida idea di chi parlerà nella pagina successiva – e ho smesso di considerare significativi i titoli dei capitoli), mi trovo chiamata in causa come in conversazione nei momenti più inaspettati, vengo sbalzata continuamente dall’immediatezza colloquiale del presente al distacco apparente del passato remoto, dal discorso diretto (come usa nei romanzi) al discorso indiretto caricato di ulteriori strati di significato, mi ritrovo a sbirciare le lettere di Barfoot per suo fratello, e per di più mancano deliberatamente un sacco di pronomi.

Sono confusa? Un pochino, a volte, ma non tanto quanto mi pare che dovrei esserlo nelle circostanze. Noto troppo la scrittura? La noto di sicuro, ma con golosa delizia. Il notarla mi trascina fuori dalla storia? No, accidenti, no! In qualche misterioso, alchemico, invidiabile modo, questa scrittura fa parte della storia, o forse è la storia… o quanto meno, è congegnata in modo tale da non farmi notare l’allarmante particolare che la storia in realtà non c’è.

Perché siamo, per l’appunto, a pagina 145 e non è ancora successo un bottone. O almeno pochi bottoni. A parte il fatto che Hunnyman spera di sistemarsi con la vedova e Barfoot aiuta segretamente i missionari gesuiti, ci sono le due indagini, ed è vieppiù evidente che, se qualcuno può scoprire qualcosa, quello è Barfoot, che sa come muoversi per le cancellerie, ungere le ruote giuste (o pizzicarle con la punta di un coltello), dissotterrare informazioni dai posti più improbabili. A parte questo, zero. In circostanze normali sarei furibonda e avrei già abbandonato la lettura. E’ chiaro che la scrittura iridescente, imprevedibile e densa di Garret non è una circostanza normale.

E non solo voglio continuare a leggere: voglio provare a fare altrettanto, cribbio!

Nov 16, 2010 - scribblemania    2 Comments

Cattive Abitudini

Nella scrittura, come in tutte le cose, ci sono buone idee e cattive idee. E, come in tutte le cose, non è così facile distinguere le une dalle altre, perché ci sono idee controproducenti tout court, e idee apparentemente pessime, che però per qualcuno funzionano come la panacea.

* Editare mentre si scrive, per esempio, è una pessima idea. Se pretendo di non procedere fino a quando pagina 1 non sarà perfetta in ogni sua virgola, allora posso star fresca. Confesso che per me c’è voluto del bello e del buono per imparare che una prima stesura è solo una prima stesura, ma prima di revisionarla è meglio averla completata. Un po’ per la cronica insicurezza degli scrittori, un po’ perché la procrastinazione può prendere le forme più disparate, un po’ (nel mio caso) per deformazione professionale, la tentazione di dare una sistematina anziché procedere è sempre forte. Particolarmente insidiosa, perché si ha l’impressione di lavorare e invece non è così. Provate a immaginare di limare il vostro primo capitolo alla perfezione, scrivere gli altri ventitre capitoli e, solo allora, accorgervi che il primo capitolo dopo tutto non vi serve…

* Scrivere a un computer connesso a Internet è un’altra abitudine non eccessivamente sana. Perché magari ci si stacca dal proprio .doc solo per un attimo, solo per controllare la data di fondazione di quel tal giornale milanese, ma poi da quello si divaga su un’affascinante storia della stampa nell’Italia pre-unitaria e, mentre si è lì, ecco il cinguettio che annuncia l’arrivo di una mail – che sia il cliente da cui si aspettano notizie con tanta ansia? Come si fa a non dare un’occhiata? Invece no, è gente che sostiene di non avere ricevuto la vostra fattura di agosto (e aspettano adesso a dirvelo?), seguita da una comunicazione via FaceBook a cui dovete assolutamente rispondere. E mentre siete lì, aggiornate il vostro stato per dire quanto vi è difficile concentrarvi stamattina, e poi controllate anche su Amazon, per vedere se vi hanno spedito il benedetto libro dall’America o no… Ehi! Ma non stavamo scrivendo?

* By the same token, ho fatto disinstallare dal mio portatile (le cui magagne di connessione ho lasciato volontariamente irrisolte) anche tutti i giochi. Chi non ha mai pensato di fare una piccola pausa con un solitario o una partitellina a Campo Minato? Dopo tutto, quando si è proprio bloccati, fare qualcosa di diverso per cinque minuti può essere una buona idea, no? Ne riparliamo quando i cinque minuti si saranno gonfiati in un’oretta buttata al vento.

* Questa non è una forma di procrastinazione come le altre, ma per me è un danno inverecondo: state scrivendo qualcosa che, per un motivo o per l’altro (diciamo una scadenza o autoimposizione), dovete proprio scrivere. E intanto vi germoglia un’idea per qualcosa di diverso e molto attraente. Qualcosa per cui non avete tempo, né adesso né nell’immediato futuro. Qualcosa che vi piacerebbe proprio tanto scrivere… Ma non si può, e allora ricacciate l’Idea Intrusa in un angolino buio e vi rimettete all’opera da bravi. Ma naturalmente l’II non vuole saperne di essere ricacciata in un angolino buio, e più tentate d’ignorarla, più vi piomba addosso a tradimento, sempre più interessante, sempre più ricca di possibilità. Allora cedete per un’ora: prendete il vostro quaderno (o file) delle idee e buttate giù l’Idea Intrusa con annessi e connessi – e probabilmente vi ritrovate con materiale sufficiente per una trilogia. Be’, adesso è lì, annotata con cura, pronta ad aspettare che siate liberi per occuparvene… E questo dovrebbe risolvere il problema. Per me, francamente, tende a non risolverlo affatto. anzi: sentendosi presa in considerazione, l’II seguita a germogliare in ogni possibile direzione, sviluppando boccioli troppo belli per essere ignorati… e così io apro in tutta buona fede l’atlante storico per controllare la diffusione delle linee telegrafiche del Regno di Sardegna nel 1857, ma poi com’è che mi ritrovo a contemplare una carta della Repubblica di Venezia nel 1468?

* Risultato delle cattive abitudini summentovate, prese singolarmente o in una qualsiasi combinazione, è spesso il ridursi all’ultimissimo momento. Di sicuro non è bello fare le quattro scrivendo furiosamente, notte dopo notte, nel tentativo di concludere l’opus entro mercoledì, eppure non posso fare a meno di ammettere che tende a funzionare. A parità di fattori, non c’è nulla come una bella scadenza incombente per rendere alacri e creativi e pervicaci fino alla fatidica paroletta di quattro lettere…

Il che sembrerebbe, tutto sommato, contraddire il succo di questo post, provando che la procrastinazione non è un vizio ma una virtù – conducendo come conduce a esplosioni di creatività da panico. Hm, non sono sicura che la logica di questa conclusione sia del tutto solida, ma al momento suona attraente.

Magari, cinque minuti per un solitario li ho, dopo tutto?

Ott 8, 2010 - scrittura    9 Comments

Come Non Scrivere Un Romanzo

La settimana scorsa, in recensione a Come Non Scrivere Un Romanzo. Una Guida Per Evitare i 200 Errori Più Comuni, l’ultima novità in fatto di manuali di scrittura, ad opera di Howard Mittelmark e Sandra Newman, Il Giornale ha pubblicato un articolo di Daniele Abbiati, che francamente ho trovato un tantino gratuito.

Abbiati definisce il libro “un brogliaccio slegato, incoerente, noioso e senza capo né coda”. Su questo non mi pronuncio: non ho letto Come Non Scrivere Un Romanzo, e può benissimo darsi che sia tutto ciò e anche di peggio. E se non l’ho letto, perché diamine ne parlo? Non ne parlo affatto, faccio notare. Quello di cui parlo è l’articolo di Abbiati, che contesta sarcasticamente a Mittelmark e Newman di avere bocciato, nella loro ansia pedagogica, una quantità di capolavori della letteratura universale, come la Recherche, il Don Quixote, la Coscienza di Zeno e via dicendo.

Ha-ha. Very funny.

Divertente, perché in realtà i consigli di M&N riportati nell’articolo sono solidi (se non terribilmente originali) principi narrativi, come “Evitare di scrivere scene nelle quali il personaggio ricorda o rimugina sul proprio passato e basta.” E Proust, allora? tuona Abbiati. Si dà il caso che Proust fosse, per l’appunto, Proust. Bisogna sapere dannatamente bene quello che si fa per interessare il lettore a una scena (let alone uno o più libri interi) in cui non si fa altro che strologare standosene seduti in poltrona. Bisogna essere estremamente originali, padroni dei propri mezzi e, meglio di tutto, bisogna averlo fatto per primi o giù di lì. E poi, volete che vi dica qualcosa di semi-sacrilego? Se tentasse di pubblicare oggi, difficilmente Proust troverebbe un editore – il lettore odierno non sta volentieri a contemplare un narratore che ricorda e rimugina.

Il che ci viene ribadito quando M&N affermano che “una caratteristica comune a quasi tutti i manoscritti che restano inediti è una selvaggia sproporzione tra introspezione e azione a tutto vantaggio della prima.” A nessuno piace sentirsi dire lungamente ciò che potrebbe essere mostrato, indipendentemente dalle sigarette di Zeno.

E l’articolo continua così, citando casi letterari dal poco pertinente all’estremo, per concludere con una citazione di Checov: “Scrivendo faccio pieno assegnamento sul lettore, nella presunzione che aggiungerà da sé gli elementi che mancano nel racconto.” Molto bello, ma altra epoca, altro mercato editoriale, altra mentalità. E può darsi benissimo che Come Non Scrivere Un Romanzo sia l’ennesima rifrittura di cose già dette, ma sbeffeggiandolo come fa, Abbiati non rende un gran servigio all’apprendista scrittore, incoraggiando l’idea che la scrittura sia una solitaria coltivazione delle idiosincrasie individuali, anziché l’elaborazione di uno stile personale dopo che si sono imparate le buone vecchie regole e studiate con umiltà e passione le grandi eccezioni.

Writing Software

Si era già parlato, tempo fa, di software di scrittura. Fermo restando tutto quello che avevo detto allora, volevo aggiungere qualche articolo alla lista – editor di testo, ma non solo:

WriterPad è un editor di testo a meno di 6 MB e mezzo, uno di quelli con poche distrazioni. Buono per le prime stesure, quando non ci si deve preoccupare di formattazione e stile, e si può voler stampare senza particolari problemi. Ha uno spellchecker, ma è in Inglese, per cui forse non è il caso di contarci troppo. Il punto di forza è la possibilità di strutturare il testo, creando capitoli, sottocapitoli, sezioni o che, e spostare qualsiasi elemento nello schema della struttura, con la certezza che il programma sposterà anche il testo relativo. Il peggior difetto mi sembra essere la mancanza di una funzione di backup automatico.

Storybook è tutta un’altra faccenda: non è un editor di testo, ma uno strumento organizzativo. Consente di creare e gestire linee narrative multiple, capitoli, scene, personaggi, posti e tempi – soprattutto tempi!. Una volta introdotti i dati, è possibile organizzarli e visionarli in modi diversi, mettendo a confronto i vari piani temporali, pescando subito chi è dove in ogni dato momento di una cronologia stabilita, facendosi un’idea di quanta luce della ribalta si è data ad ogni singolo personaggio ed altre meraviglie per la gioia di chi scrive trame complicate. Il tutto viene in una quindicina di lingue, compreso l’Italiano, e fa un backup istantaneo di tutto quello che viene introdotto. E tutto sommato, pesa solo 17 MB. Difetti? La versione che si scarica gratuitamente è illimitata nel tempo e provvista di quasi tutte le funzioni, ma ha l’irritante abitudine di richiedere una donazione alla società sviluppatrice ogni volta che si crea una nuova scena – cosa che non accade facendo una donazione di almeno 10 $. Il mio consiglio è di provare, vedere come ci si trova e se si è in grado di convivere con la questua. Semmai c’è sempre tempo per investire 10 Dollari. Oh, e “ufficialmente” non è compatibile con il MAC, whatever that means.

Dark Room (Windows) e Write Room (MAC OS) sono due versioni della stessa idea: schermo nero, il minimo delle funzioni, niente distrazioni – scrivere, scrivere, scrivere! Quello che un recensore del New York Times ha definito the ultimate spartan writing utopia, ma in realtà niente di molto diverso da Q10. Sempre roba da prima stesura, ovviamente. DR è gratis, mentre WR ha una demo gratis e poi costa 25 $.

EverNote, con un elefantino per logo, è un programma di archiviazione enormemente versatile, che consente di organizzare appunti, immagini, files audio, fotografie, pagine web e più o meno qualsiasi cosa tranne una tazza di caffè, attraverso più dispositivi se occorre. Sospetto che sia utile anche sotto altri aspetti, ma le possibilità durante la fase di documentazione di un romanzo sono pressoché infinite, anche on the go. Pensate a cose come Viaggio a Cartagine di Flaubert, e immaginatene una versione hi-tech…

The Literary Machine è qualcosa che sta a mezza strada tra tutti gli altri: è un editor di testo senza fronzoli, permette di organizzare appunti e files, di fare brainstorming e di strutturare la trama spostando automaticamente il testo. Non l’ho mai usato di persona, ma gente di cui mi fido me ne dice meraviglie, e in particolare canta le lodi di uno specifico aspetto: chi non ha mai desiderato di poter vedere versioni alternative della cosa che sta scrivendo ? E’ meglio che l’Ammiraglio incontri il Sultano appena giunto alla Fortezza, o è meglio che prima ci sia il dialogo con il Vizir? TLM consente di creare le versioni alternative senza l’orgia di copia&incolla.

E per finire, Text Block Writer è un grazioso programmino di index cards virtuali, buono per strutturare trame. Non so se l’abbiate mai fatto: si prendono quelle piccole schede di cartoncino che vanno nei mini-classificatori, su ognuna si scrive il sugo di una scena, poi ci si siede a un tavolo largo (oppure su un tappeto) e si sposta, si sperimenta, si gioca, si vede come va a finire… questo programma consente di farlo senza rischiare che coniugi, prole e genitori camminino sulla faticosamente elaborata trama del VI Volume, o se ne servano come base per mettere la conserva di pomodoro nei vasetti, o stacchino tutte le schedine perché vogliono giocare con la lavagna di sughero…

Ecco qui. Nulla di cui non si possa fare a meno, varie cose utili. Tutte demo di prova, versioni gratuite o freeware – salvo indicazioni differenti, e no: non percepisco percentuali su nulla. 🙂

Ago 13, 2010 - scrittura, teorie    8 Comments

Scrittura ed Efficacia Secondo Orwell

george-orwell-writing.jpgNel 1946 George Orwell scrisse un saggio intitolato Politics and the English Language, in cui lamentava una serie di difetti che affliggevano il giornalismo di entrambi i lati dell’Oceano, a scapito di chiarezza, efficacia e comprensibilità della scrittura. Come s’intuisce dal titolo, ciò che Orwell deplorava non era tanto un’epidemia transatlantica d’incuria, quanto un uso deliberato di certi vezzi a fini ideologici, demagogici o manipolatori.

Si potrebbe discutere molto sulla validità della lettura di Orwell applicata a cinquant’anni abbondanti di distanza – non solo al giornalismo ma anche alla narrativa. Per ora, limitiamoci a dare un’occhiata ai sei punti principali del saggio, il rimedio che Orwell prescriveva per combattere la genericità dilagante della scrittura.

1) Mai usare una metafora, una similitudine o un’altra figura retorica che si è abituati a vedere stampata. Sembra facile, sembra ovvio, ma non lo è. Ci sono figure retoriche che sono diventate luoghi comuni. La resa dei conti, il canto del cigno, il tallone d’Achille, l’ultima spiaggia, l’arena politicae compagnia cantante sono talmente logorati dall’uso che non suscitano più nessuna risposta nel lettore. Il problema è che sono così comode e automatiche che le si usa senza quasi accorgersene. Quando cessa di stimolare il pensiero (o almeno l’attenzione) associando concetti in modo inedito, la figura retorica decade al rango di blando riempitivo. La scelta è tra cassarla del tutto e sostituirla con un’immagine nuova, che colpisca e stimoli il lettore.*

2) Mai usare una perifrasi al posto di un verbo o sostantivo. Fare uso di invece di usare, utilizzare, consumare; andare incontro a invece di affrontare, incontrare, attendersi; i militi dell’Arma invece de i Carabinieri. Questa la prenderei con il proverbiale granello di sale, perché ci sono circostanze in cui una perifrasi può esprimere un’infinità di sfumature (dall’atterrita cautela al sarcasmo più pungente, passando per molti stadi intermedi) ma si può qualificare con un riferimento al n° 1 e al n° 3: mai usare una perifrasi logora, e mai usare una perifrasi che non aggiunge significato – a sfumature o a palate, a scelta.

3) Mai usare una parola difficile al posto di una semplice. Una parola lunga al posto di una breve, sarebbe una traduzione più letterale, perché in Inglese le parole lunghe tendono ad essere di origine latina – e perciò di uso erudito, quando non pretenziose. In italiano non è sempre così (ialino ha cinque lettere in meno di trasparente), ma il concetto non cambia. Un uso eccessivo di parole distrae, irrita e confonde il lettore – e il lettore distratto, furibondo o confuso non è un lettore felice: nella peggiore delle ipotesi, potrebbe anche sentirsi manipolato. Ricordate Calvin e Hobbes? Poi possono esserci buone ragioni letterarie per usare parole difficili: l’importante è sapere quel che si fa. Ne riparleremo al punto 5, 

4) Se è possibile eliminare una parola, eliminarla. Sempre. Secondo Ezra Pound la grande letteratura non è altro che linguaggio caricato di tanto significato quanto ne può portare. Di conseguenza, ogni parola che non aggiunge significato alla frase in cui si trova non fa altro che diluirne l’efficacia. Uno degli esercizi più illuminanti che si possano fare è prendere qualcosa che si è scritto (articolo, racconto, post – meglio cominciare con qualcosa di breve) e riscriverlo in due terzi o metà delle parole. La quantità di parole inutili che si scopre di poter potare è sempre uno shock. La maggiore efficacia della versione breve tende ad essere una sorpresa. Provare per credere.

5) Mai usare un verbo passivo al posto della voce attiva. Posto che in certe circostanze il passivo è cosa – se non proprio buona e giusta – necessaria, non si può negare che L’uomo è stato morso dal cane è più fiacco de Il cane ha morso l’uomo. Provate a leggerle entrambe ad alta voce per sentire quanto è più compatta e fluida la seconda versione.

6) Mai usare un’espressione straniera, un termine scientifico o una parola gergale al posto dell’equivalente in Italiano corrente. Qui farò bene a dichiararmi colpevole ancor prima di cominciare, visto il mio indiscriminato e selvaggio uso di espressioni inglesi. In questo post ho tentato di trattenermi, ma avrete notato che ci sono appena cascata di nuovo: che cos’è che sto scrivendo? un post. Ho appena perso dieci punti… Si capisce, Orwell scriveva in epoca pre-Internet – e scriveva in Inglese**: potrei davvero scrivere che ogni mattina mi siedo all’elaboratore e scrivo una pagina del mio diario elettronico da pubblicare nella Rete, dopodiché controllo se ho ricevuto qualche lettera elettronica, apro Finestre e mi dedico al mio lavoro di curatrice editoriale? Potrei, ma siamo sinceri: nessun lettore si farebbe un’opinione elevatissima della mia salute mentale. Fondamentalmente, il punto è avere ben presente il tipo di lettore per cui si scrive e mantenersi comprensibili.

Ecco fatto. Nel 1946 Orwell combatteva una crociata che aveva per stendardi semplicità stilistica e trasparenza intellettuale, e la sua ricetta si restringe a tre parole (di cui un aggettivo): buon senso, efficacia. Queste regole, come tutte le regole di scrittura, sono una guida di massima. Non delle forche caudine inesorabili, ma un piccolo radar ausiliario da tenere sempre in funzione – formulato in pochi punti chiari e semplici da memorizzare. Ho davvero bisogno di questa figura retorica, di questa parola, di questa forma verbale? Se la risposta è sì, bene, grazie e avanti tutta; se è no, sarà valsa la pena di essersi posti la domanda.

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* Il che mi fa ricordare un analogo consiglio di Margie Lawson: give them fresh fundamentals, ovvero descrivete le reazioni basilari con immagini nuove.

** Agli Anglofoni piace negare che l’Inglese sia una lingua voracemente acquisitiva. Qualcuno, come James Nicol, lo ammette: Inglese – una lingua che si apposta nei vicoli bui per assalire le altre lingue e

Lug 26, 2010 - Oggi Tecnica    1 Comment

Piccola Guida Agli Insetti Nocivi: Il Punto Esclamativo

english-exclamation-mark_~u13399848.jpgGli impagabili Nizza e Morbelli dicevano che, quando avevano l’impressione di non riuscire a dare mordente a una scena, uno dei due andava al mercato a comprare tre o quattro etti di punti esclamativi, che poi spargevano a manciate sulla pagina deboluccia…

Ecco, se anche non ci fosse nient’altro, basterebbero queste cose surreali a farmi adorare N&M, ma non divaghiamo. Tutti, generalmente prima che poi, attraversiamo una fase in cui ci sembra che i punti esclamativi siano una buona idea. Il mio periodo esclamativo, molti e molti anni fa, assunse aspetti inquietanti: persino nei temi di scuola, facevo punti esclamativi a forma di goccia e li coloravo di rosa… Credo di poter cercare qualche scusante nel fatto che ero alle medie.

Col tempo ci si accorge che, se tre frasi su finiscono con un punto esclamativo, per metterne in evidenza una occorre aggiungere un secondo punto esclamativo… se tutto va bene, il giorno in cui s’infila il terzo punto esclamativo, si è tramortiti da folgorazione celeste e si rinsavisce. Oppure si esce anagraficamente dall’incauta adolescenza, oppure ci s’imbatte nella Caccia al Pleonasmo di Allan Guthrie, da cui cito il tip n° 16:

Il Pleonasmo Esclamativo: punto esclamativo – usare con cautela. Più ne usate, meno impatto avranno, e finirete con l’usarne due per ottenere l’effetto di uno solo. E’ vero che serve a dare enfasi, ma l’ideale sarebbe creare l’enfasi per mezzo di scelte lessicali e sintassi. Un testo zeppo di punti esclamativi di solito è segno d’inesperienza. *

Tutto ciò vale nella narrazione, naturalmente, ma anche nel dialogo. Nel dialogo qualche punto exclamation_mark.jpgesclamativo è legittimo, ma devono essere così pochi che, vedendone uno, il lettore drizzi immediatamente le orecchie in risposta al cambiamento di tono.

Salvati quei pochissimi pochi, però, la regola è sempre quella: armarsi di flit e sterminare senza pietà.

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* Traduzione mia.

Giu 26, 2010 - Oggi Tecnica    4 Comments

Quello Che Serve: 12 punti che è meglio avere in una trama

Catherine Ryan Howard, con questo nome da romanzo storico, è una ragazza irlandese provvista di uno sguardo decisamente no-nonsense su libri, scrittura, editoria e compagnia cantante, un invidiabile spirito d’iniziativa e ironia a carrettate. Sul suo blog ho trovato questo arnese, che sembra una lista della spesa, ma è una sensatissima ipotesi di trama in 12 punti, basata sull’analisi della trama media e sulla lettura di un buon numero di testi di scrittura cinematografica:

1.  Scena d’apertura

2.  Impostazione/Introduzione personaggi/Ambientazione

3.  Incidente catalizzatore

4.  Dibattito (I personaggi cogitano: “che fare?”)

5.  Inizia il II Atto/Introduzione della sottotrama

6.  Il Punto di Mezzo (un momentaneo ‘miglioramento’ o ‘peggioramento’ – purché sia in direzione opposta a quella del finale)

7.  Cose toste, effetti speciali e meraviglie varie (i pezzi che finirebbero nel trailer, se il vostro romanzo fosse un film)

8.  La minaccia cresce, il pericolo si avvicina

9.  Tutto è perduto (il momento peggiore per il protagonista)

10. Inizia l’Atto III

11. Finale/Climax

12. Scena finale o epilogo

Sì, lo so: uno schema? Orrore! Sacrilegio! Anatema! Che ne è dell’ispirazione, dell’alata fantasia, della mistica e spontanea sacralità della scrittura? Nessuno dice di prendere questo schema e scriverci un romanzo seguendolo punto per punto – e guai se si sgarra! – ma di certo a nessun romanzo nuoce contenere tutti questi punti. Anche perché – sorpresa!! – si tratta di una versione della buona, vecchia e collaudata Struttura in Tre Atti che, a sua volta, risale alla teoria drammatica di Aristotele.

Quindi, per ricapitolare: nulla di astruso, di americano, di orribilmente commerciale. Solo Aristotele, solo una manciatina di principi drammatico-narrativi che erano già solidificati ventiquattro secoli fa, che sono insiti nella nostra identità culturale, che siamo programmati per riconoscere come elementi necessari di una “storia”. Per cui, magari, i dodici punti qui sopra possiamo considerarli una buona checklist: abbiamo, il mio romanzo e io, tutto quello che serve?

 

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