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Mantellina Scarlatta

Che ne dite di una sfida?

Ebbene, state a sentire: nel 1957 James Thurber scrisse The Wonderful O, che narra di una lettera eliminata dalla lingua inglese. Tutta la vicenda è scritta senza usare questa lettera, ed è una delizia.

Una bizzarria? C’è chi ha ne ha fatte di più estreme: nel 1969 il Francese G. Perec scrisse  La Disparition, due centinaia di pagine senza utilizzare la lettera E. La trama è incentrata su tale Anton Voyl, che sparisce e dà il via a una serie d’incidenti. Perec, che faceva parte di una clique letteraria assai incline a sperimentare, diceva che il limite accende e ispira la fantasia.

Pare anche a me: aggirare i limiti spinge a cercare, e semmai creare, strade alternative.

E quindi, la sfida: cercare di scrivere pezzi senza una lettera a scelta, e riuscire a limitare le bizzarrie linguistiche. E’ stupefacente quel che si riesce a fare…

C’era, tanti e tanti anni fa, una bambina detta da tutti Mantellina Scarlatta, a causa della cappa che teneva sempre sulle spalle. La bambina viveva assieme alla mamma in una casetta al limitare della selva. Grandmaman, invece, viveva dall’altra parte, e per raggiungere la sua casa si passava per sentieri bui, lunghi e malsicuri, stretti tra gli alberi antichi e i cespugli carichi di spine. Accadeva raramente che Grandmaman si ammalasse, e in quei casi Mamma mandava da lei Mantellina Scarlatta. Prima che la bimba partisse, Mamma metteva in un paniere le ciambelle appena fatte, e ripeteva: guai a fermarsi nella selva, guai a parlare agli estranei! E specialmente, attenta ai lupi! Mantellina Scarlatta stava a sentire e rideva. Dite la verità: qual è la bambina che, prima di partire per una gita nella selva, dà retta alla mamma in ansia?

Basta, grazie, perché la faccenda richiede una certa fatica.

Chi altri tenta? Fatemi sapere i risultati!

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E a questo punto spero che apprezziate il fatto che in tutto il post qui sopra, se non mi è sfuggito qualcosa, ci sono soltanto cinque O, e nessuna di esse è mia: due sono nel titolo di Thurber, una nel titolo di Perec e due nel nome del suo protagonista. Qui sotto ci sono le note relative a due particolari che ho sottolineato: niente asterischi, perché non ho avuto la pazienza di scrivere anche le note senza O, e non volevo scoprire le mie carte troppo presto…

Voyl: Voyl-Voyelle, got it? Immagino che sia Anton Vocal nella traduzione italiana (La Scomparsa, Guida, 1995, trad. di Piero Falchetta), che non ho letto. Esistono anche traduzioni in Inglese (A Void), Tedesco, Spagnolo, Olandese, Svedese e Turco, quanto meno, e non mi stupirei se ce ne fossero altre: dev’essere il genere di sfida che un traduttore sogna per tutta la vita.

Clique letteraria: per ovvie ragioni non potevo scrivere “movimento letterario“, ma c’è la consolazione che una delle auto-non-definizioni di OuLiPo (che sta per Ouvroir de Littérature Potentielle) è quella di non essere un movimento letterario. Quando si è detto che a OuLiPo sono appartenuti autori come Calvino e Queneau, le cose diventano, je crois, un pochino più chiare.

Apr 5, 2013 - Vitarelle e Rotelle    4 Comments

Al Momento Migliore, Al Momento Peggiore

Il momento migliore per fornire informazioni è quando il lettore è ansioso di saperle, ci diceva Karl Iglesias a un seminario.

E, aggiungerei io, quando possono causare la maggior confusione e/o il maggior danno possibile.

Prendete Dickens…

Sì, lo so, avevo detto basta Dickens, but bear with me. Vedrete che si tratta più di tecnica che di Dickens. le due città, charles dickens,

Prendete Le Due Città.

Prendete il Dottor Manette. Ecco, il Dottor Manette, so sappiamo fin dal capitolo I del Libro Primo, si è sciroppato quasi diciotto anni di prigionia alla Bastiglia. Ci è finito da innocente, ma non sappiamo perché. Nessuno lo sa. Nemmeno lui, perché mentre fabbricava scarpe da signorina nella cella n° 105, ha avuto tutto il tempo di perdere il lume della ragione.

Ma poi il buon dottore viene liberato, ritrova una figlia che era cresciuta credendosi orfana, e che è ben felice di riprendersi un genitore – per danneggiato che sia. E Lucie Manette, creatura luminosa fin dal nome, è quel che ci vuol per ricondurre all’ovile le sparse meningi del povero babbo.

charles dickens, le due cittàEd è chiaro che, mano a mano che recupera il senno, il Dottor Manette ricorda quel che gli è capitato. Però non lo dice a nessuno. Certo, ogni tanto ha una ricaduta e si rimette a fare scarpe. E certo, per quanto si sforzi, non è capace di farsi piacere fino in fondo quel pur bravissimo ragazzo del suo futuro genero, l’émigré francese Charles Darnay. Ed è pur vero che Charles ha per zio, il malvagissimo marchese di St. Evremonde, che è così curioso a proposito del medico liberato dalla Bastiglia. Ed è pur vero che, quando Charles vorrebbe rivelare al Dottore questi suoi sgradevoli vincoli famigliari, Manette lo supplica di non farlo fino a dopo il matrimonio con Lucie. Ed è vero anche che la terribile Madame Defarge si stupisce molto che una Manette possa sposare il nipote di un Evremonde.

E quindi ogni tanto ci si ricorda che c’è un mistero attorno alla prigionia del Dottor Manette. Un mistero che potrebbe riguardare in qualche modo Charles. Un mistero potenzialmente devastante per tutte le brave persone di questo romanzo. Un mistero che solo il Dottore potrebbe sciogliere…

Solo che non lo fa. Mai.

Ci sono mille occasioni in cui il Dottore potrebbe raccontare quel che gli è capitato a Lucie, a Charles, al Dottor Lorry – o a se stesso nelle notti insonni. Però non lo fa. charles dickens, le due città

Almeno non direttamente. Perché quando la rivelazione alla fine arriva, arriva sì dalle parole del Dottor Manette, ma sono parole scritte e dimenticate. Sono di Defarge a ritrovare e produrre il drammatico manoscritto che il Dottore aveva lasciato nella sua cella alla Bastiglia, piene di nomi, accuse, rabbia e maledizioni – contro gli Evremonde.

Maledizioni che adesso il Dottore vorrebbe non avere mai scritto, perché l’ultimo degli Evremonde è il marito della sua adorata figlia – ma è troppo tardi.

La rivelazione lungamente attesa, promessa e dilazionata alla fine arriva – per mano di altri – al momento peggiore, quello in cui serve a condannare senza appello il povero Charles nel suo terzo processo capitale nel giro di sette anni.

Ed è una lunga rivelazione, un’abbondanza di backstory che occupa quasi un capitolo – però il lettore non se ne irrita perché, oltre ad essere molto drammatica, la rivelazione, invece di essere solo un sacco di informazioni, è diventata una minacciosissima svolta della trama – e arriva in modo del tutto inatteso, nel momento in cui nessuno se l’aspettava più.

Nel momento peggiore per i personaggi, e nel momento migliore per il narratore e i lettori. Oh… e sì: anche il momento in cui i lettori sono davvero ansiosi di riceverla.

 

Apr 3, 2013 - pessima gente, scrittura    4 Comments

Sulla Letizia Del Lieto Fine

Mi si fa notare che tendo a parlare – e scrivere – di lieto fine con lo stesso enfatico disgusto con cui parlerei e scriverei di scarafaggi, e adesso sento la necessità di spiegare un pochino.

Pare che non abbia mai avuto fiducia nel Vissero Per Sempre Felici E Contenti. Pare che, a quattro anni, dopo una lettura di Cenerentola con il finale canonico, continuassi a chiedere: ma proprio per sempre? Proprio proprio? E non succede più niente? Forse avevo qualche dubbio sulla capacità di Cenerentola, col suo passato da colf, di adattarsi alla vita di corte…

Ma di fatto, non posso fare a meno di chiedermi: e dopo? Siamo certi che a gennaio Scrooge non torni avaro e bisbetico? O che Lizzie Bennet e Mr.Darcy non si scoprano dopo tutto incompatibili? O che Sigognac non si vergogni un po’ di Isabella che per sedici anni è stata un’attrice girovaga? O che Lauretta e Rinuccio prima o poi non si lasceranno coinvolgere dall’ostilità fra le famiglie?

Insomma, di solito un lieto fine arriva o per conciliazione di estremi o per ricostruzione di un intero distrutto dalle circostanze. Tra la prima e l’ultima pagina ci sono stati guerre, rivoluzioni, drammi familiari, adulteri, crimini, separazioni e disastri misti assortiti, o almeno dovrebbero esserci stati. Il lieto fine è, nella migliore delle ipotesi, un equilibrio precario, e mi rifiuto di credere che sia definitivo.

Guardate Il Barbiere di Siviglia: il sipario si chiude con il Conte Almaviva che impalma Rosina, liberandola dal tutore tiranno. Eugè, giusto? Be’, non proprio, visto che all’epoca delle Nozze di Figaro il Conte è già un farfallone amoroso abituale. Si direbbe che il fine non sia stato poi così lieto. O, ancora meglio, si direbbe che il lieto fine sia una circostanza effimera e non una certezza incisa nella pietra.

Oppure Dobbin: per tutta la considerevole durata di Vanity Fair, William Dobbin ama in silenzio Amelia, la aiuta con discrezione e delicatezza in un’infinità di circostanze, la salva dal disastro finanziario senza farglielo sapere, sopporta devotamente ogni stupidità e mancanza di considerazione e via dicendo. Admirable fellow. Alla fine, Amelia si scopre innamorata di lui e lo sposa. Felici e contenti? Non proprio: dopo averla amata tanto a lungo, Dobbin scopre Amelia un po’ al di sotto di tanta devozione. Oh, continua ad essere ammirevole, resta un marito affettuoso e protettivo e tutto quanto, ma il lieto fine non l’ha reso felice*.

Morale? Il lieto fine ci manda a dormire più contenti per una sera, ma siamo franchi: come antidepressivo funziona solo fino alla prima piccola, semplice, ovvia domanda: e poi? E a parte questo, non è come se i finali tristi non fossero soddisfacenti. “Ti è piaciuto?” chiesero a mia madre, all’uscita dal cinema dove aveva visto Il Dottor Zivago, e lei: “Oh sì! Ho pianto tanto!”

Mi si dice che dico così in un affanno di autogiustificazione, perché i miei romanzi finiscono tutti maluccio anzichenò. Non saprei. Il mio primo protagonista, secoli fa, l’ho gettato sotto un taxi mentre partiva per arruolarsi nella Guerra di Spagna. Allora la mia amica F., una dei miei lettori sperimentali preferiti, m’informò sentitamente che ero un’omicida, e che non mi avrebbe mai, mai, mai perdonata. E infatti, quasi vent’anni dopo, ogni tanto me lo rinfaccia ancora. Non posso dire di essermi riformata, da allora, ma credo di avere delle attenuanti. Potrei dire, a parte il povero Ned, che è difficile scrivere romanzi storici incentrati su guerre, sollevazioni e assedi senza un conto vittime… Ma in realtà il punto è l’ineludibile piccola domanda: e poi? Che ne sarà dei miei personaggi dopo la fatidica paroletta di quattro lettere? In un certo senso – e se volete dire che è morboso, fate pure – uccidere i propri personaggi è l’unico modo di assicurarsi definitivamente del loro destino: una volta che sono morti, non può succedere loro più nulla, giusto?

Oddìo, forse non proprio, considerando la storia che sto scrivendo, in cui i guai del protagonista non fanno che raddoppiare in numero e grado nel momento in cui muore, ma in via generale e fantasmi a parte… Non tanto i cornicioni che cadono, quanto Pascoli, you know, e gli aquiloni, e l’unico, unicissimo merito che sia disposta a riconoscere al detestabile L’Eleganza del Riccio

Be’, d’accordo – non è detto e mi rendo conto che suona un po’ allarmante. Però diciamo che, mercato permettendo, e se non ci sono ulteriori volumi in programma, personalmente appartengo alla scuola di pensiero** secondo cui muore giovane chi è caro al suo autore.

E voi? Li assassinate, i vostri personaggi? E perdonate gli autori che assassinano i loro?

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* A titolo di paradosso, si può sostenere che Dobbin sarebbe morto più felice se l’avesse presa nelle costole a Waterloo, prima che – eccetera eccetera.

** In compagnia, a quanto pare, di Victor Hugo… 

Ad Alta Voce E Con Le Cesoie In Mano

Era un po’ di tempo che non si parlava di tecnica, ma nel giro di pochi giorni mi è capitato un paio di volte di sentirmi dire (o implicare) che scrivere teatro è “più facile”, perché in fondo si tratta solo di scrivere dialoghi.

Perché a proposito dei dialoghi vige questo bizzarro mito: be’, quanto può essere difficile scrivere dialoghi? È la forma di linguaggio con cui tutti abbiamo, per forza di cose, più dimestichezza, no? Tutti parliamo, tutti usiamo il dialogo ogni giorno… ergo, scrivere dialoghi è facile.

Ebbene, no. È vero che tutti usiamo quotidianamente il dialogo, ma basta provare a trascrivere verbatim un pezzo qualsiasi di conversazione per accorgersi di che differenza abissale ci sia tra quel che si dice e un buon dialogo letterario – o teatrale.

Per prima cosa, trascrivendo, ci si rende conto che Nella Vita Quotidiana si dicono (e ripetono) un sacco di cose irrilevanti, sciatte e vacue, che per iscritto si condensano, rendono coerenti e intelligibili – possibilmente conservandone efficacia e sapore. Randy Ingermanson dice che il buon dialogo è pesce già sfilettato: solo le parti buone. Non si tratta di riprodurre pari pari il modo in cui parlano le persone, ma di trovare il giusto equilibrio tra realismo, registro ed efficacia, e servirsene per convogliare soltanto informazioni rilevanti.

Tutto quello che si mette sulla pagina deve servire a caratterizzare un personaggio e/o far avanzare la storia – possibilmente entrambe le cose. Ogni battuta di dialogo che non svolge almeno una di queste funzioni… a questo punto dovrei dire “va eliminata”, ma mi limiterò a qualcosa di meno drastico. Ogni battuta di dialogo che non svolge almeno una di queste funzioni, non ha una ragione narrativa per essere dov’è. Non è sempre facile. Personalmente, devo continuare a impormi di potare tutto ciò che è soltanto decorativo – non importa quanto mi piaccia. E non sempre ci riesco. A volte, nel tentativo di rendere rilevante qualcosa che mi piace troppo per poterci rinunciare, sono capace di dissennati equilibrismi, fino al momento in cui mi rendo conto che sto facendo John&Iris – e allora taglio tutto quanto, e in genere la scena ne guadagna.

Ma questo non mi rende necessariamente più saggia per la prossima volta.

Oh, e John&Iris è lessico famigliare per l’eccesso opposto al chit-chat decorativo, quando si lardella il dialogo di informazioni non plausibili. Può essere necessario informare il lettore sul rapporto tra il narratore, John e Iris, e del fatto che sono passati tre mesi dalla scena precedente, ma non per questo si può far esclamare al narratore “Buongiorno John, mio vecchio e fraterno amico! E come sta tua moglie Iris in questa splendida giornata di giugno?” In molti romanzi in cui una tecnica di qualche genere – non importa se si tratti di sottomarini, procedura legale, arazzi o curling – gioca un ruolo, capita di trovare lunghe pagine di dialogo in cui due o più personaggi si scambiano dettagliate informazioni su particolari che dovrebbero già conoscere a menadito. Ricordate il Comandante Phillips e la Regola del Sottomarino Nucleare?

Dopodiché trovare (e mantenere) la giusta combinazione di efficacia e plausibilità è tutt’altro che facile: è una questione d’orecchio, buon senso e intuito in parti variabili.

Io trovo utili due metodi – e li sto usando parecchio per la seconda stesura del Play Senza Titolo – di cui magari state seguendo le vicende via bollettini notturni. In primo luogo, mi leggo i dialoghi ad alta voce. Meglio ancora sarebbe farseli leggere da qualcuno – se avete una o due persone pazienti e disponibili, e so di gente che fa da sé, si registra e riascolta. Ora non dico che sia a prova di bomba, ma nove volte su dieci, se c’è, la magagna viene a galla.

Ma prima, o dopo, o prima e dopo, prendo la mia scena e fingo con convinzione di poterne tenere solo due terzi*. A che cosa proprio non si può rinunciare? È divertente quasi come farsi estrarre i denti del giudizio – ma la maggior parte delle volte, potato di fioriture, svolazzi e quisquilie varie, il dialogo ne esce più affilato, più efficace e più vivido.

Per cui, no: non c’è niente di facile nello scrivere dialoghi, thank you very much. È roba da liutai, una di quelle faccende di orecchio, precisione, tecnica, pazienza, numerose fasi e, tanto per cambiare, un sacco di lavoro. 

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* O tre quarti – anche se conosco anime avventurose e drastiche, che riducono alla metà.

Emma Coats: Ventidue Buone Idee In Fatto Di Scrittura

Emma Coats è una storyboard artist alla Pixar, fa del lavoro indipendente in fatto di animazione e ha questo blog chiamato StoryShots. È chiaro che, facendo il genere di mestiere che fa, ha racimolato un bel po’ di esperienza sulla maniera di raccontare storie con efficacia. E un po’ di tempo fa ha condensato questa esperienza in ventidue pillole e le ha cinguettate su Twitter con lo hashtag #storybasics.

Non sono regole, sono ventidue idee, principi, basi – o qualunque nome vogliate dare loro – dal buono al folgorante. Qualcuna è vecchia come le colline, ma esposta con una lucidità e una concisione che non son di tutti i giorni. Qualcuna è vecchia come le colline, ma inclinata a 90° e tinta di violetto. Qualcuna è abbastanza controintuitiva da costituire un salutare scrolloncino.  Qualcuna è deliziosamente eccentrica. Diverse spediscono a pensare per tangenti inattese. Tutte sono stimolanti. E prese tutte insieme, sono un invito a coniugare tecnica, efficacia, gusto della storia, buon senso e pensiero laterale – una ricetta molto attraente.  

Ve le traduco qui, perché mi piacciono proprio.

#1: Un personaggio si ammira perché ci prova, più che per il suo successo.

#2: Devi tener presente quello che ti interessa come spettatore*, non quello che ti diverte scrivere. Può essere molto diverso.

#3: Tendere a un tema è importante, ma non si sa di che cosa parla una storia finché non la si è finita. E poi si riscrive.

#4: C’era una volta ____. Ogni giorno _____. Poi un giorno ______. Questo fece sì che _____. Questo fece sì che _____. E poi alla fine _____.

#5: Semplifica. Concentrati. Unisci più personaggi in uno. Salta a pie’ pari le deviazioni. Avrai l’impressione di perderti un sacco di cose importanti, ma è così che ti liberi.

#6: In che cosa è bravo il tuo personaggio? Che cosa lo mette a suo agio? Piazzalo in una situazione diametralmente opposta. Mettilo in difficoltà. Come se la cava?

#7: Escogita il finale prima di decidere che cosa succede in mezzo. Sul serio. Il finale è difficile: preparane uno per prima cosa.

#8: Finisci la tua storia e staccatene, anche se non è perfetta. L’ideale sarebbe avere compiutezza e perfezione, ma vai avanti e fai di meglio la prossima volta.

#9: Quando ti blocchi, fai una lista dei modi in cui la storia NON potrebbe mai procedere. Più spesso che no, salterà fuori quel che serve per sbloccarti.

#10: Smonta le storie che ti piacciono. Quello che ci trovi è parte di te, ma devi imparare a riconoscerlo prima di poterlo usare.

#11: Finché non l’hai scritto, non puoi cominciare a sistemarlo. Finché rimane teorico e perfetto nella tua testa, non avrai modo di mostrarlo a nessuno.

#12: Scarta la prima cosa che ti viene in mente. E anche la seconda, la terza, la quarta, la quinta… Liberati delle soluzioni ovvie e poi sorprenditi.

#13: Dai delle opinioni ai tuoi personaggi. Magari passività o arrendevolezza ti sembrano gradevoli mentre scrivi, ma è qualcosa che i lettori odieranno.

#14: Perché devi raccontare proprio QUESTA storia? Che cos’è che ti brucia dentro e alimenta questa storia? Il nocciolo è tutto lì.

#15: Se fossi il tuo personaggio, come ti sentiresti in questa situazione? L’onestà rende credibile anche una situazione incredibile.

#16: Che cosa c’è in gioco? Dai al lettore una ragione per stare dalla parte del personaggio. Che cosa succede se fallisce? E adesso rendigli le cose difficili.

#17: Non esiste lavoro sprecato. Se non funziona, lascia perdere e passa oltre – prima o poi ritornerà a galla e si rivelerà utile.

#18: Devi saper capire la differenza tra fare del tuo meglio e accanirti. Una storia si fa per esperimenti, non con le rifiniture.

#19: Mettere i personaggi nei guai per coincidenza è fantastico. Toglierli dai guai per coincidenza significa barare.

#20: A titolo di esercizio, prendi gli elementi costitutivi di un film* che non ti piace. Come potresti farne qualcosa che invece ti piace?

#21: Devi identificarti con la tua situazione e i tuoi personaggi. Scrivere “forte!” non basta. Che cosa ci vorrebbe per farti agire in quel modo?

#22: Qual è l’essenza della tua storia? Il modo più economico di raccontarla? Quando sai questo, hai il tuo punto di partenza.

E se siete conquistati e volete seguirla su Twitter, Emma cinguetta sotto il nome di @lawnrocket.

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* O lettore.

** O libro.

And now the award for the most futile footnote.♫ And the winner is…


Gen 18, 2012 - Oggi Tecnica, scrittura    3 Comments

L’Aggettivo Perfetto

Mail:

Ok, ho fatto il safari e sterminato la maggior parte degli aggettivi, come dice Mark Twain. Non dico che le cose non siano migliorate, però gli aggettivi che sono rimasti erano un po’ così prima e sono un po’ così adesso. Semmai hanno l’aria di farsela un po’ addosso: metti mai che ci ripensi e faccia fuori anche noi? No, scherzi a parte: mi pare che mi manchi ancora qualcosa. Quelli che ho lasciato li ho lasciati perché il sostantivo da solo non bastava proprio, ma come faccio a renderli significativi?

Confesso che l’idea degli aggettivi superstiti con le crisi di panico mi ha divertita. Mi par di vederli, tutti ammucchiati in un paragrafo che cercano di farsi coraggio… Ma non lasciamoci intenerire. Gli aggettivi non sono graziose bestiole spaventate. Gli aggettivi sono subdoli, prolifici e anche un po’ parassiti: quelli più blandi sono talmente abili nel volare sotto il radar che a volte li usiamo senza nemmeno farci caso, mentre l’abitudine a usarne molti si cronicizza e, senza accorgerne, ce ne ritroviamo intere colonie su ogni pagina, tutti occupati a succhiare significato alla nostra prosa…

Comunque, una volta effettuato un safari, che si fa con i superstiti? Ci si accerta che ciascuno di loro sia perfetto, significativo, irrinunciabile. Come si fa? In un certo numero di casi ci pensernno il subconscio, il gusto esercitato e il dizionario interiore, e l’aggettivo scintillerà al posto giusto in tutta la sua gloria di connotazioni. Otherwise bisogna strologarci su – operazione per la quale ciascuno elabora il proprio metodo. Ho messo il mittente della mail a parte del mio, che a suo tempo avevo illustrato in questo post. Il mittente ha letto, meditato e poi ha risposto:

E tu fai questa roba per ogni singolo aggettivo? Ci credo che impieghi vent’anni a scrivere un romanzo! Mi sa tanto che adesso riprendo la doppietta e vado a sterminare anche i pochi che mi sono rimasti…

Dite che questo faccia di me l’Erode degli aggettivi? No, sono quasi certa che Erode è il Mittente, e io… hm, never mind. Per la pace generale, ad ogni modo, sappiate che ho dissuaso il Mittente dai suoi truculenti propositi e l’ho invece incoraggiato lungo una strada di duro lavoro. Non voglio spingermi a dire che faccio “questa roba” per ogni singolo aggettivo, ma – indovinate un po’ – scrivere è hard work. Scrivere bene, even harder. E temo che un uso “un po’ così” degli aggettivi sia una di quelle debolezze traditrici…

Facciamo un paio di esempi specifici e uno generico.

C’è questo libro un po’ strambo, The Nine Lives Of Kit Marlowe, che è ho letto di recente rimanendone molto delusa. È irritante sotto molti aspetti, ma uno di essi è l’uso degli aggettivi. Per esempio, tutto è exotic. I due protagonisti inglesi attraversano tutta l’Europa (passando anche per un paio di posti immaginari), e dappertutto salta fuori qualcosa di exotic. Le dame francesi indossano abiti di corte exotic… del che non so immaginare il senso, visto che nel tardo Cinquecento la moda francese non era affatto sconosciuta in Inghilterra. Poi si arriva a Roma e il cibo è exotic, le maschere del carnevale sono exotic, ma anche l’accento dei Nostri è exotic… E non parliamo dell’isola immaginaria, dove non c’è nulla che non sia exotic. E una volta a Venezia, la misteriosa dama emana un profumo – l’avete indovinato! – exotic. Ebbene, Esotico è uno di quegli aggettivi che, logorati dall’uso e dagli ananas, non vogliono più dire granché. Quando poi non sappiamo rispetto a chi si applichi, siamo proprio a post. Rispetto agli Inglesi? Ai Romani? All’Europa tutta? Uno di quei casi in cui l’uso indiscriminato si accompagna al pallore dell’aggettivo con effetti deprimenti.

E passiamo per un attimo al buon Salgari. Un corsaro di qualche colore – sinceramente non ricordo – aveva nella sua biblioteca “scaffali di metallo dorato di foggia antichissima.” Ah. A parte il fatto che gli scaffali di metallo dorato, per qualche motivo, mi fanno tanto Anni Ottanta, che cosa è mai una foggia antichissima? L’intera espressione è mal congegnata*, ma l’aggettivo che vuol mai dire? Scaffali di foggia minoica? Libreria in stile assiro-babilonese? Moduli componibili mod. Ziqqurat? E vi dirò: “antica” sarebbe stato un po’ meno disastroso. Non molto, ma un po’. Ripetete con me: se un aggettivo fa danno, ci sono buone probabilità che il suo superlativo ne faccia esponenzialmente di più. 

Infine, un pet peeve tutto mio: ampio. Non so se sono solo io, ma mi pare che Ampio sia diventato ubiquo quasi quanto Hello Kitty. Ampie finestre, ampi corridoi, ampie vallate, ampi balconi… provate a farci caso. Non sempre nei corsi di scrittura gli allievi fanno i compiti, ma una che li faceva una volta mi portò la descrizione di una villa antica: su cinquecento parole scarse, un’ottantina erano aggettivi, e il dannatissimo Ampio ricorreva quattordici volte. A parte tutto il resto, il sovraffollamento è abuso, l’abuso logora e il logorio rende l’aggettivo blando.

E l’aggettivo blando non fa da prisma, non cattura la luce, non la rifrange sul suo sostantivo in inattese iridescenze… D’accordo – mi fermo qui, ma dopo lungo peregrinare ecco il sugo della mia esortazione al Mittente: vale sempre la pena di cercare l’aggettivo perfetto con l’ardore di una quest medievale.

E ripensandoci, a riprova del fatto che razzolare e predicare sono due sport ben diversi, sono amaramente pentita di non avere scelto, a suo tempo, Labirintina invece di Labirintica. E so bene che in Italiano Labirintino non esiste, ma è – era – sarebbe stato esattamente quello che volevo, in suono, colore, immagine, consistenza, associazioni mentali… Traviata – no, non traviata, ma sviata dal Treccani. Che faccenda triste.

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* Non so a voi, ma a me suscita immagini del Corsaro occupato a fare shopping di mobili da Centomo (reparto mobili in stile) nel periodo dei saldi…

Elogio Del Taccuino

appunti,scrittura creativa,processi mentali,taccuini,kafka,leopardi,chatwin,fogazzaro, henry james, moleskineIl bigliettino salta fuori da un libro che non prendevo in mano da un po’ di tempo. Scivola di tra le pagine e plana a terra con vago errore, come i petali del Petrarca.

Foglio quadrettato di un notes pubblicitario – residuato della vita precedente – con orrido logo fuxia e nero e un diluvio di numeri telefonici, di segreteria, di fax…

Ma sopra ci sono delle annotazioni in vari colori:

1) a biro blu, uno snippet di dialogo in Inglese. Kit Marlowe che dice qualcosa a Thomas Walsingham. Non mi dispiace affatto: ci si sentono la voce beffarda, l’intento di provocare e, al tempo stesso, il fondo di leggera ansia del figlio del calzolaio che non ha ancora imparato fin dove può spingersi con il suo aristocratico mecenate – coetaneo in adorazione del poeta di genio, ma pur sempre quello che ha in mano i cordoni della borsa.

2) ancora a biro blu, tre righe di descrizione – e neanche queste mi dispiacciono del tutto. Marlowe-related a loro volta, sospetto, a giudicare dalle candele e dalla stanza rivestita a pannelli di quercia.

3) penna a inchiostro gel viola: un’idea per un post. Neanche del tutto indecente. Ve la ritroverete qui, un momento o l’altro.

3b) con la stessa penna viola, un adolescenzialmente entusiastico LIKE THESE!!! con tre punti esclamativi e tanto di freccette in direzione del dialogo e della descrizione. Arrossisco.

4) penna a inchiostro gel verde: altra idea per un altro post. Anche questo verrà un giorno e – tanto perché lo sappiate – con i nomi non abbiamo ancora finito.

5) biro blu diversa dalla prima: scrawl scarabocchiato in condizioni un tantino estreme, si direbbe, e in tutt’altra direzione rispetto agli altri. THE COMPANY, dice. Non so, mi par di ricordare che sia un film che parla di una compagnia di danza classica… vi dice nulla?

Sono sproporzionatamente felice di avere ritrovato questi appunti. Li userò tutti, in un modo e nell’altro, ma avrei potuto sopravvivere anche senza. E tuttavia inciampare in questa carotatura di pensieri volanti, ideuzze e noterelle misti assortiti mi è piaciuto da matti.

È anche un sostegno alla teoria secondo cui tenere sempre a portata di mano qualcosa su cui scrivere è una sana, produttiva e soddisfacente idea per uno scrittore – teoria provata dalla quantità di scrittori che la pratica(va)no.

Fogazzaro aveva sempre un quadernetto in tasca. Lo si sapeva, ma si credeva che ne fossero rimasti pochi o nessuno. Di recente ne sono saltati fuori parecchi, pieni di annotazioni, appunti e rimuginamenti – pietruzze grezze che poi si ritrovano lucidate e incastonate nelle opere finite.

Di Leopardi vogliamo parlare? Lo Zibaldone è forse IL taccuino letterario per eccellenza. Secondo Iris Origo, biografa classica del Giacomo, l’idea gli fu suggerita dall’abate Antonio Vogel, secondo cui ogni letterato avrebbe dovuto avere un piccolo caos per iscritto, un taccuino di sottiseries, adrersa, excerpta, pugillares, commentaria… una riserva da cui potesse uscir letteratura come il sole, la luna e le stelle erano emerse dal caos.

I Quaderni Azzurri di Kafka forse non erano precisamente dei taccuini, ma di sicuro erano più piccoli dei suoi abituali diari e, che se li portasse dietro o meno, ci annotava aforismi, appunti e strologamenti filosofici.

Henry James usò i taccuini per tutta la sua carriera, annotandoci idee, possibilità, tratti di caratterizzazione per i suoi personaggi, nomi e indirizzi, osservazioni personali, commenti, impegni, e ogni genere di minuzia anche solo vagamente letteraria – tra l’altro la sua solenne decisione di abbandonare per sempre il teatro dopo il fiasco di Guy Domville. Sono un documento affascinante e se ne può leggere qualcosina qui. appunti,scrittura creativa,processi mentali,taccuini,kafka,leopardi,chatwin,fogazzaro, henry james, moleskine

Bruce Chatwin era un consumatore seriale di taccuini – e li voleva tutti di un particolare tipo: quelli che poi, usciti di produzione e ripresi da una ditta italiana, sarebbero diventati i Moleskine. E non si capisce fino in fondo perché i Moleskine debbano essere conosciuti universalmente come “i taccuini di Hemingway”, quando in realtà erano quelli di Chatwin.

Insomma si direbbe che la storia della letteratura sia piena di taccuinatori compulsivi, e non è particolarmente strano. Da un lato un taccuino, con quelle pagine che sembrano supplicare “riempimi! riempimi!” è un magnifico incentivo a scrivere. E poi, più seriamente, più si è esercitati a cogliere idee in ogni dove (e lo scrittore medio lo fa tutto il tempo), più le idee si presentano. Ma essendo creature dispettose, temperamentali e di pessimo carattere, le idee arrivano a tradimento, germogliano irrepressibilmente e, se non si è pronti a dar loro retta, si offendono e si dileguano. Non c’è modo di dire a un’idea “aspetta, ne riparliamo fra dieci minuti – quando non starò guidando/facendo la spesa/facendo yoga/calcolando un tetto/trapiantando le begonie/prendendo sonno.” L’idea va catturata immediatamente e imprigionata, altrimenti è perduta. E spesso e volentieri l’unico modo per riuscirci è l’immemorabile tradizione del taccuino – da portarsi sempre dietro.

Perché, come dice MacNair Wilson, “Tutto quel che vale la pena di essere ricordato, vale la pena di essere scritto.”

Ago 8, 2011 - blog life, Digitalia, scrittura    3 Comments

Senza Errori Di Stumpa Compie Tre Anni

blog, scrittura creativa, downloadCome da titolo: Senza Errori di Stumpa compie tre anni. Occupa 61MB di spazio – il che, pensandoci bene, mi fa un po’ impressione… per quanto tempo ancora potrò restare su Virgilio? Confesso che non ne ho la più pallida idea… – e questo che state leggendo è il seicentosettantesimo post.

Nel corso di questo anno, per cause di forza maggiore, sono passata dal postare tutti i giorni al farlo tre volte la settimana – plus the occasional stray post, now and then. Devo confessare che la pace del mio spirito ne ha tratto beneficio. Nonostante questo allascamento del passo, SEdS continua a crescere – e per questo we both drop a curtsey a voi, o Lettori.

E adesso, esaurito il discorso bilanci, passiamo a festeggiare. 

Fette di torta virtuale, virtuale brindisi con calici di Picolit friulano e cotillons per tutti.

Lo Scrittore di Buon Senso non è un manuale di scrittura – non mi azzarderei mai! O almeno non per qualche altra decade – ma raccoglie una ventina di articoli pubblicati nel corso dei primi tre anni di vita di SEdS sotto la voce “Oggi Tecnica”.

E’ una serie di rimuginamenti, considerazioni, analisi ed esercizi – poco di completamente originale, tutto messo alla prova sul campo. Scaricate il PDF qui: LoScrittorediBuonSenso.pdf e buona lettura!blog, scrittura creativa, download

E se vi sarà piaciuto, commentate qui sotto, e poi passatelo ad amici, parenti, colleghi e sconosciuti, aspiranti scrittori o lettori appassionati. Se non vi sarà piaciuto, se non siete d’accordo, se disapprovate, venite a discuterne qui.

Non c’è nulla come la discussione per far germogliare le idee. E crescere i blog.

 

Lug 8, 2011 - bizzarrie letterarie, scrittura, Spigolando nella rete    Commenti disabilitati su Faccende Da Echidna: Sei Parole Al Giorno…

Faccende Da Echidna: Sei Parole Al Giorno…

hemingway,six words story every day,scrittura creativaNon è che levino il medico di torno, ma la faccenda è carina e volevo segnalarvela.

Dunque, avrete sentito parlare della celebre storia in sei parole di Hemingway:

For sale. Baby shoes. Never worn.*

Per pochino che Hemingway mi piaccia, di fronte a uno scrittore capace di condensare una tragedia famigliare in un annuncio economico mi levo il proverbiale cappello. Se è tutto vero**, niente da dire.

E naturalmente queste altre bizzarre creature – gli scrittori – non possono resistere alla sfida di un feat del genere, non più di quanto un echidna possa resistere al formaggio. Non è acrobazia gratuita: è l’appetito primigenio per qualcosa di difficile da fare e dannatamente efficace quando riesce bene. Quindi non è una sorpresa che periodicamente compaiano (più nel mondo anglosassone che qui, a dire il vero) concorsi letterari con lo stretto limite delle sei parole.

Questo che vi propongo, Six Words Story Every Day, è diverso dal consueto perché implica anche una certa quantità di lavoro grafico: la storia non va solo scritta, ma anche presentata visivamente prima di essere inserita nella gallery del sito. In realtà vedrete che per lo più si tratta di immagini molto semplici – e se dobbiamo dire il vero anche molte delle “storie” non sono storie affatte. Non lo sono perché…

Hm, no: ripensandoci non ve lo dico. Vediamo se siete stati attenti: secondo voi che cos’è che distingue la storia di Hemingway dalla maggior parte delle non-storie che ci sono nella gallery di SWSED? E, seconda domanda: per quanto mi riguarda, non so resistere a questo genere di formaggio. Prima o poi ci provo. E voi? Vi punge vaghezza di cimentarvi a vostra volta? Se lo fate, sappiatemi dire, volete?

Buon appetito, echidna.

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* Vendesi scarpe bambino. Mai usate. Faccio notare che il mio istinto sarebbe di dire “vendonsi” – e che la mia traduzione di parole ne conta cinque.

** In realtà potrebbe essere una leggenda – specie con il corollario che EH considerasse questa faccenda il suo miglior lavoro.

Mar 18, 2011 - Oggi Tecnica    1 Comment

Carri, Buoi, Cause Ed Effetti

Ho sempre pensato che il rapporto causa/effetto, questo pilastro logico, andrebbe strenuamente inculcato nelle giovani menti (insieme alla capacità di individuare le informazioni rilevanti) al pari dell’alfabeto e delle quattro operazioni. O almeno subito dopo. Ragion per cui mi ha fatto molto piacere trovare su WD un articolo di Steven James che spiega con sintetica efficacia perché il nesso tra causa ed effetto sia fondamentale in narrativa.

Allora: è fondamentale tenere presente che il lettore non conosce la situazione, ma la scopre mentre legge, e quindi viene in possesso delle informazioni nell’ordine in cui le trova sulla pagina. Di conseguenza, se l’azione si svolge secondo un flusso logico di causa ed effetto, il lettore la segue con facilità e felicità; al contrario, se incontra effetti senza causa o cause che seguono gli effetti, è costretto ad “uscire” dalla storia per chiedersi che cosa diamine stia succedendo e perché. Not good.

little-red-riding-hood.jpgFacciamo un esempio.

Cappuccetto rosso si avvicinò saltellando al letto di Nonna.

“Ciao, Nonna!” cinguettò, poi si fermò di botto, si morse un labbro e fece un passo indietro. Il sorriso di benvenuto della nonna aveva proprio qualcosa di strano, stirato com’era tra due guance scavate e scure.

“Come ti senti?” domandò dubbiosa la bambina.

Hmm… Proviamo in un altro modo.

Cappuccetto Rosso si avvicinò saltellando al letto di Nonna.

“Ciao, Nonna” cinguettò.

Nonna sorrise. Il più strano sorriso del mondo, tirato tra due guance scavate e scure.

Cappuccetto Rosso si fermò di botto, si morse un labbro e fece un passo indietro.”Come ti senti?” domandò dubbiosa.

Meglio, non trovate? Perché nel secondo caso, invece di saltare fuori dal blu, la reazione dubbiosa di CR discende logicamente dalla strana faccia di “Nonna”, e noi restiamo nella testa di CR, condividendone la reazione.

E’ più facile costruire tensione in questo modo, e costruire tensione, ricordiamocene, è uno dei mestieri del narratore.

Una seria eccezione al principio è costituita dagli inizi – inizi di storia, inizi di capitolo… Se la mia storia si concentrasse solo sul finale, o se volessi usare una struttura narrativa non lineare, cominciando con un flasforward, potrei fare di peggio che iniziare con l’inspiegata, improvvisa riluttanza della nostra bambina in rosso ad appressarsi alla sua avola allettata.

“Ciao, Nonna…” Cappuccetto Rosso si fermò di botto, si morse un labbro e mosse un passo indietro. “Stai… bene?” domandò dubbiosa.

A questo punto potrei procedere a descrivere “Nonna” con un crescendo di elementi inquietanti, oppure potrei accennare appena, piantare lì tutto e tornare a qualche ora prima, e all’arrivo del calderaio con il messaggio di Nonna malata. Di sicuro avrei solleticato la curiosità del lettore.

Ma l’eccezione non fa altro che confermare quel che si diceva: il principio di causa/effetto è uno strumento narrativo potente, e contravvenirvi ha degli effetti specifici – da usarsi con cognizione di causa.

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