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Dove Confesso Di Essere Una Creatura Timorosa

C’è quest’idea per un romanzo che ho in mente da anni, con un personaggio perfetto – e con questo intendo narrativamente perfetto: complesso, sfaccettato, pieno di zone d’ombra, seri ostacoli da superare, dubbi, passioni, forte personalità e piccinerie. Un personaggio che, lo so bene, adorerei scrivere. Potrei farne qualcosa di davvero buono e, per una volta, sarebbe anche una vicenda di ambientazione contemporanea. Però non posso. La persona in questione è vera e reale, la conosco bene e viceversa, e il ritratto che ho in mente non è esattamente lusinghiero. Non negativo in senso assoluto, sia ben chiaro, ma – si parva licet… – nessuno può pensare che un ipotetico Julien Sorel reale avrebbe apprezzato il ritratto che Stendhal fa di lui, giusto?

Ecco, credo che questa da parte mia sia una mancanza di coraggio, e temo che finirà col rivelarsi un ostacolo. Probabilmente, pur rinunciandoci davvero a malincuore, posso sopravvivere senza scrivere il mio personaggio perfetto, ma temo che non sia un caso isolato. Ho diverse altre idee del genere, condannate in partenza perché non so indurmi a rischiare di offendere le persone in questione. In generale i miei personaggi non sono ritratti dal vero, e tendo piuttosto a costruire i caratteri mescolando tratti di varia provenienza. Solo una volta ho scritto in un romanzo un personaggio modellato da vicino su una persona reale, e lasciate che lo confessi: la possibilità che la persona in questione se ne accorga mi dà ancora una certa ansia…

Al tempo stesso, senza bisogno di preoccuparsi di romanzi interi, ci sono volte in cui qui su SEdS parlerei di persone ed episodi e poi non lo faccio per lo stesso motivo. In un’altra vita ho avuto un altro blog nel quale parlavo del mio lavoro (e della gente annessa e connessa) in termini molto ironici. Postavo sotto uno pseudonimo ed ero ragionevolmente certa che nessuno dei miei personaggi avrebbe mai scovato o letto il blog in questione… sì, credo che si possa proprio dire che sono una pusillanime.

Charlotte Bronte si alienò diversa gente (compreso il suo innamoratissimo editore George Smith) ritraendola nei suoi libri in termini che a lei parevano semplicemente realistici e che di fatto non erano proprio lusinghieri. A giudicare dalla sua corrispondenza, dapprima non aveva valutato bene le conseguenze di quello che scriveva, né previsto la popolarità che i suoi romanzi finirono con l’ottenere, ma in seguito continuò con i suoi ritratti dal vero, senza preoccuparsene soverchiamente. Forse è questione di rompere il ghiaccio? Forse, dopo aver fatto la frittata una volta – e constatato che non ci sono morti, feriti o dispersi – non ci si bada più troppo? Non saprei: è quel genere di cose che si scopre solo provandoci, ma non so, davvero non so se ne avrò mai il coraggio.

Giu 11, 2010 - Oggi Tecnica, scrittura    Commenti disabilitati su Occhi Blu, Capelli Neri, Naso uno.

Occhi Blu, Capelli Neri, Naso uno.

Certe cose sono come salare l’acqua per la pasta: non ci pensi fino a quando non ti tocca farlo, oppure fino a quando non t’imbatti nelle conseguenze degli errori altrui…

Nello specifico, questo goffo riferimento culinario era per parlare della descrizione fisica del personaggio nel cui punto di vista si sta scrivendo. Allora, il problema non si pone quando si scrive in terza persona onnisciente perché il narratore tutto sa e tutto vede, e quindi può benissimo descrivere al lettore ogni personaggio nel momento in cui entra in scena – e questo è uno dei pochissimi compiti che la III Onnisciente facilita al lettore. Per quasi tutto il resto, scrivere una buona, solida III Onnisciente è orribilmente difficile e quindi forse vale la pena di risolvere questo specifico problema e concentrarsi su una voce narrante diversa.

Per esempio una Prima o una Terza Limitata, ed ecco che torniamo alla domanda iniziale: come descrivere al lettore l’aspetto di un personaggio da dentro la sua testa? Perché se scrivo dal punto di vista di Geremia, il lettore può sapere solo quello che Geremia vede, pensa e sente, e siamo onesti: quante sono le probabilità che Geremia spenda del tempo a passare in rassegna i propri tratti fisici?

La III Limitata offre ancora una possibilità di scampo, se la storia non è raccontata completamente dal punto di vista di Geremia: posso aspettare che, nella scena successiva, il punto di vista passi a Yvette, la quale forse vede Geremia per la prima volta e ne osserva occhi, capelli, numero di nasi, statura e tutto il resto. Oppure Yvette conosce benissimo Geremia, ma può avere ogni genere di motivi narrativamente legittimi per scompigliargli il ciuffo corvino, guardarlo nel profondo delle iridi blu o dargli un pugno sull’unico naso…

Se invece sono limitata al punto di vista di Geremia e voglio proprio darne una descrizione fisica, dovrò darmi da fare per trovare una buona ragione. John Olson sostiene che non è poi così necessario descrivere i personaggi: se Geremia ha una voce abbastanza caratteristica, se le sue azioni, i suoi pensieri e le sue parole suggeriscono un minimo di tipo fisico e di età, il lettore sarà perfettamente felice di immaginarsi il personaggio come vuole. A dire il vero, non sono sicura di essere d’accordo. Quando leggevo le commedie di Shaw, per prima cosa andavo a cercare le descrizioni di tutti quelli che dovevano entrare in scena, e restavo molto delusa nei casi in cui non c’erano. Non voglio otto paragrafi di minuzie fisiognomiche, e non voglio un estratto della carta d’identità, ma mi fa piacere sapere come l’autore vede il suo personaggio, grazie. Mi fa assai meno piacere, però, essere trascinata fuori dal punto di vista e dalla storia per ricevere una lista dei connotati di Geremia…

E allora?

Allora bisogna domandarsi come e perché Geremia potrebbe essere indotto a fare considerazioni sul proprio aspetto. Un metodo collaudato sono le speculazioni che il personaggio fa sulle reazioni altrui – specialmente in circostanze inusuali. Diciamo che Geremia vede Yvette per la prima volta dopo essere stato salvato dall’annegamento in un fiume particolarmente fangoso. Diciamo anche che Yvette sia l’incarnazione perfetta della donna dei suoi sogni*, ed ecco che c’è posto per qualche legittima considerazione sul proprio aspetto non precisamente immacolato. “In altre circostanze avrei fatto affidamento sul fascino dei miei occhi blu”, o qualcosa del genere. Tra parentesi, non occorre che la descrizione arrivi tutta in una volta, confezionata in un unico e comodo pacchetto: meglio, molto meglio se i capelli neri e il naso arrivano in momenti successivi e pertinenti, procedendo insieme alla storia invece di fermarla per un’edizione del notiziario descrittivo.

Tutto diventa più facile se i caratteri fisici del personaggio hanno un ruolo nella storia. In Hunting The Corrigan’s Blood, una storia di fantascienza narrata in prima persona, la protagonista-narratrice Cady Drake ha più di un ottimo motivo per descriversi: da un lato, è il prodotto di una teoria genetica passata di moda, in base alla quale la sua esecrabile madre l’ha resa, diciamo così, inconfondibile; dall’altro vive in un futuro in cui alterare radicalmente il proprio aspetto è facile e relativamente economico. L’aspetto di Cady è significativo dal punto di vista concettuale e strettamente narrativo, e il modo in cui lei descrive se stessa nel secondo capitolo è perfettamente funzionale.

Non sempre va così bene, ma in alternativa si può sperare che l’aspetto del personaggio sia così perfetto per il ruolo, o così improbabile per il ruolo da meritare qualche commento. Potete giurare che Geremia non va attorno meditando sulla sua combinazione di colori, ma se è un agente segreto e deve infiltrarsi in Irlanda, potrà ringraziare fuggevolmente il fato benigno che gli ha fatto ereditare gli occhi blu di suo padre e i capelli scuri di sua madre. O in alternativa, se si ritrova paracadutato per errore nello Swaziland, potrà comprensibilmente essere scettico sulle sue chances di mimetizzarsi tra la popolazione locale.

E’ vero, c’è sempre lo specchio. Quante volte abbiamo letto che “Geremia gettò un’occhiata allo specchio, soffermandosi sugli occhi blu, sul naso diritto,” eccetera eccetera? Collaudato anche questo, ma da prendersi con cautela. Onestamente, se un romanzo si apre con una descrizione di qualcuno che si guarda allo specchio, farà bene ad esserci un ottimo motivo per questo, o qualcosa di davvero interessante che interrompe la contemplazione in tempi brevi.

Insomma, alla fin fine si possono trovare diversi modi di introdurre una descrizione fisica, ma l’importante è tenere a mente un paio di cose: attenersi a ciò che il personaggio vede, sente e pensa; avere un buon motivo per ogni dettaglio che si mette sulla pagina; utilizzare i caratteri fisici per far avanzare la storia.

Se non è possibile incorporare nella descrizione almeno due di queste tre caratteristiche, forse è saggio considerare l’opzione Olson e rassegnarsi a non descrivere affatto.

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* Che esempio orribile!! Mi cospargo di cenere il capo per averlo concepito.

Mag 15, 2010 - grillopensante    Commenti disabilitati su Storie nelle Storie

Storie nelle Storie

Siccome ieri sera sono andata a vedere e sentire (ho sempre difficoltà a scegliere il verbo giusto per l’opera) Thomas Hampson che cantava l’Evgeni Onegin di Tchaikovskij, si discuteva se si tratti o meno di una storia di presunzione punita.

Sì, naturalmente, perché Evgeni – per ennui o poco meglio – rifiuta con supponenza l’amore della giovane e ingenua Tatjana quando la conosce in campagna, ma poi, ritrovandola maturata, raffinata e principessa a Mosca, è lui a innamorarsi e lei a rifiutarlo. Evgeni capisce troppo tardi che sono proprio le qualità della ragazzina di campagna a fargli amare la principessa, ma lei adesso è la moglie leale di un altro uomo. Per cui sì: lui si credeva molto dappiù, ed è punito con perfetto contrappasso.

“Ma come, non è una storia d’amore, allora?”

Ecco, è questo il punto. l’Onegin è anche una storia d’amore, anzi, più d’una considerando anche Olga e Lenskij; ed è anche una storia di amicizia (Evgeni e Lenskij), di rimorso, di peso delle convenzioni sociali, di rinuncia, di maturazione, di occasioni perdute…

Le buone storie tendono a non essere mai storie di una cosa sola. La complessità che fa di una storia un piccolo mondo nasce dalla stratificazione di temi diversi e correlati, dall’incrociarsi e ostacolarsi (più o meno volontario) degli scopi contrastanti di diversi personaggi, e dal modo in cui ciascun aspetto illumina o modifica parzialmente gli altri.

Il povero Lenskij è un poeta e sogna un idillio campagnolo con Olga, la sorella allegra di Tatjana. Nel primo atto Evgeni non sa troppo bene che cosa vuole, ma la sua annoiata vaghezza di propositi finirà per scontrarsi tragicamente con il sogno di Lenskij. Tatjana, considerata una specie d’intellettuale da amici e vicini, appare ad Evgeni come il prototipo della piccola provinciale cresciuta a romanzi. Il fatto che Evgeni incarni l’uomo ideale che Tatjana ha atteso e sognato rende ancora più amaro il gelido rifiuto di lui… E via dicendo, in un continuo intersecarsi di prospettive. Ed è questo che fa dell’Onegin una buona, soddisfacente, ricca e commovente storia.

Non tutte le storie complesse sono necessariamente belle, ma di sicuro una storia di cui, alla domanda “di che cosa parla?” si può rispondere con una parola soltanto, faticherà molto di più a catturare il cuore del lettore – e a tenerlo prigioniero.

 

Apr 28, 2010 - Oggi Tecnica, scrittura    9 Comments

Come Si Cattura Un Lettore Con Il Primo Capitolo

Questa è una tecnica quasi più da editor che da scrittore, ma direi che conoscerla non guasta, ed è basata sul comportamento del Lettore Tipo in libreria. Diciamo che stiate passeggiando tra gli scaffali. I motivi che vi spingono a prendere in mano un libro possono essere diversi: il nome dell’autore, il titolo, la copertina… non ha importanza. Resta il fatto che leggerete la quarta di copertina (oppure il risvolto della sovraccoperta), e poi, se siete ancora interessati, passerete alla prima pagina.

Capitolo I.

Se la prima frase vi attira a sufficienza, è verosimile che arriviate fino alla fine della pagina, giusto? Ma nelle ultime righe deve esserci qualcosa che vi spinge a voltare pagina per vedere cosa succede. A questo punto, se non avete rimesso il libro nello scaffale, potreste essere già catturati a sufficienza da comprarlo, oppure restare sospettosi – ma intrigati – e continuare a leggere. E questo è il motivo per cui il I capitolo dovrebbe essere piuttosto breve, e chiudersi con qualcosa, qualcosa che vi incuriosisca, che non vi permetta di mettere giù il libro.

Diamo un’occhiata, a titolo di esempio, al primo capitolo di Harry Potter E La Pietra Filosofale

Il signore e la signora Dursley, di Privet Drive numero 4, erano orgogliosi di poter affermare che erano perfettamente normali, e grazie tante, dice l’incipit, che funziona come primo gancio. E in effetti, questa ringhiosa affermazione di normalità ci incuriosisce e ci induce a pensare che molto presto ai Dursley capiterà qualcosa che normale non è.

Nel resto della pagina ci viene descritta la perfetta normalità – e notevole sgradevolezza – dei Dursley. Il secondo gancio, a fine pagina, riprende il primo e non solo gli dà corpo, ma allarga la prospettiva dalla famiglia Dursley a tutto il paese: Quando i coniugi Dursley si svegliarono, la mattina di quel martedì grigio e coperto in cui inizia la nostra storia, nel cielo nuvoloso nulla lasciava presagire le cose strane e misteriose che di lì a poco sarebbero accadute in tutto il paese.

Segue una serie di scene in cui le cose strane e misteriose cominciano ad accadere. Dapprima è solo gente bizzarra che fa discorsi ancora più bizzarri, voli inusitati di gufi, stelle cadenti, accenni incomprensibili, notizie inconsuete al telegiornale, gatti nella strada, in un crescendo d’informazioni incomplete che culmina nell’apparizione di Silente, McGrannit e Hagrid a Privet Drive. Finalmente scopriamo che lo Harry* eponimo è un orfano di maghi, sopravvissuto a un evento cataclismatico – nel bene e nel male – e che sta per essere affidato ai suoi parenti, proprio i detestabili Dursley. Tutto finisce con i maghi che si dileguano e il piccolo Harry che dorme sulla soglia in attesa di essere “trovato”. Non poteva sapere, dice il terzo gancio, che in quello stesso istante, da un capi all’altro del paese, c’era gente che si riuniva in segreto e levava i calici per brindare “a Harry Potter, il bambino che è sopravvissuto”. E’ un ottimo terzo gancio: chiude il capitolo costruendo sugli altri due, ampliando ulteriormente la prospettiva e lasciando il lettore pieno di domande e di curiosità.

Chi è questa gente che brinda? Perché lo fa in segreto? Perché il fatto che Harry sia sopravvissuto è così importante? E via così. Ormai il lettore è catturato e, a meno che non detesti il genere**, non gli sarà facile piantare la lettura e rimettere il libro nello scaffale.

Voilà: Struttura in Tre Ganci del I Capitolo. Badateci, e vedrete che molti libri contemporanei di autori anglosassoni cominciano in questo modo, con tre ganci per incuriosire il lettore, trascinarlo dentro la storia e non lasciarlo più sfuggire. Vale la pena di tenerne conto: male non fa di sicuro e, se è vero che è destinata al lettore finale, comincia col dimostrare all’editor/editore che sapete quello che state facendo.

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* Qualcun altro si è domandato perché, persino nei suoi documenti scolastici, Harry venga chiamato con quello che è un diminutivo? Non so: possibile che almeno la formalissima McGrannit, o qualche aspetto della burocrazia scolastica, o il Ministero della Magia non lo designino mai come Henry, o Harold, o qualunque sia il nome intero di cui Harry è diminutivo?

** Nel qual caso, però, forse era nel settore sbagliato della libreria fin dapprincipio.

Apr 23, 2010 - Oggi Tecnica    2 Comments

I’ve got rhythm…

Ho la vaga impressione di avere già citato Virginia Woolf a proposito del ritmo, ma credo che lo ripeterò comunque. A memoria, e quindi senza la minima pretesa di precisione: scrivere un libro è quasi solo questione di ritmo. Una volta scelto un ritmo, il libro viene da sé.

Sì, vabbe’.

Premesso che per una volta non credo affatto a Virginia, dirò tuttavia che il ritmo della prosa è fondamentale a vari livelli. Narrativamente, il ritmo serve a rallentare o accelerare il tempo di una scena; musicalmente, per dir così, il ritmo delle frasi cattura, trascina, culla, mette a disagio o strangola il lettore. I cambi di ritmo sottolineano o preparano le sorprese, enfatizzano gli snodi della trama, sostengono le descrizioni… ci sono un sacco di cose che si possono fare amministrando con saggezza il ritmo di ciò che si scrive. Ci sono un sacco di modi per amministrare saggiamente il ritmo.

Oggi mi soffermo su uno in particolare, perché quando mi è stato fatto notare mi ha lasciata perplessa. Perplessa, perché dire che un susseguirsi di frasi brevi rallenta il ritmo, mentre un’unico periodo lungo lo velocizza, a me sembra controintuitivo. Insomma, una frase breve è lapalissianamente più rapida, no? E il ritmo di tre o quattro frasi brevi in rapida successione deve necessariamente correre, giusto?

No, sbagliato.

Provate a immaginare ogni punto come un semaforo rosso, e vedrete che un paragrafo costituito da un numero qualsiasi di frasi brevi separate da punti è una strada piena di semafori rossi. Ogni volta occorre fermarsi.

Prendiamo un esempio da Close Range, di Annie Proulx*, autrice americana celebre per i suoi periodi interminabili**:

Cenarono tardi, accanto al fuoco, una scatola di fagioli per ciascuno, patate fritte e un quarto di whiskey in due, seduti contro un tronco, con le suole e i risvolti dei jeans a scaldare, passandosi la bottiglia mentre il cielo lavanda perdeva colore e l’aria fredda scendeva, bevendo, fumando, col fuoco che gettava scintille nella curva del torrente, buttando legna sul fuoco per tenere viva la conversazione, parlando di cavalli e di rodeo, di donne, incidenti e ferite subite, del sottomarino Threscher perduto due mesi prima con tutto l’equipaggio e di come doveva essere stato negli ultimi minuti prima della fine, di cani che ciascuno aveva avuto e conosciuto, della siccità, del ranch dove i genitori di Jack tiravano avanti, della casa di famiglia di Ennis, perduta anni addietro dopo la morte dei suoi, del fratello maggiore a Signal, della sorella sposata a Casper.

Monster period di 145 parole, se non ho contato male, eppure provate a leggerlo ad alta voce: è scorrevolissimo e veloce. All’inizio c’è il verbo all’indicativo che indica l’azione principale, completata poi da una serie di gerundi che scandiscono le azioni accessorie e l’accumularsi dei dettagli, fino all’elenco degli argomenti toccati nella conversazione, che passano dal triviale al tragico al personale. Il tutto regolato da tutta una processione di virgole. Ma le virgole non fermano: anziché semafori rossi, sono boe, attorno alle quali scivoliamo lungo la traiettoria di una scena di dialogo indiretto.

Spero che la signora Proulx non me ne voglia se adesso modifico sperimentalmente il suo periodo, spezzettandolo.

Cenarono tardi, accanto al fuoco. Mangiarono una scatola di fagioli per ciascuno, patate fritte e un quarto di whiskey in due. Sedevano contro un tronco, con le suole e i risvolti dei jeans a scaldare, passandosi la bottiglia mentre il cielo lavanda perdeva colore e l’aria fredda scendeva. Bevvero e fumarono, col fuoco che gettava scintille nella curva del torrente, buttando legna sul fuoco per tenere viva la conversazione. Parlarono di cavalli e di rodeo, di donne, incidenti e ferite subite. Chissà come, da quello passarono al sottomarino Threscher perduto due mesi prima con tutto l’equipaggio. Si domandarono come doveva essere stato negli ultimi minuti prima della fine. Poi fu la volta dei cani che ciascuno aveva avuto e conosciuto, della siccità. Jack parlò del ranch dove i suoi genitori tiravano avanti. Ennis raccontò della casa di famiglia, perduta anni addietro dopo la morte dei suoi, del fratello maggiore a Signal e della sorella sposata a Casper.

Visto? Lo so che controintuitivo, l’ho sempre pensato, e una parte di me lo pensa ancora, anche davanti all’evidenza: ogni singola frase della seconda versione può essere asciutta e rapida, ma l’effetto complessivo del paragrafo diventa molto più lento, con tutte quelle pause obbligate. Se volete fare un esperimento, leggete ad alta voce entrambe le versioni, o fatevele leggere da qualcun altro, o registratevi e riascoltate. Il ritmo è cambiato, molto più spigoloso e più faticoso alla lettura.

Il problema è che costruire periodi come la versione originale, spropositatamente lunghi e traboccanti di dettagli, e tenerli scorrevoli, è un’arte complicata, richiede orecchio, attenzione e pratica, padronanza della sintassi e la pazienza di tornare indietro e limare, spostare, leggere ad alta voce ancora e ancora, fino a quando ritmo, musica e significato non si combinano in maniera liscia.

Difficile, ma non c’è niente come provare. E a dire il vero, credo che sperimentare una tecnica controintuitiva sia tanto più efficace proprio perché ci costringe ad affrontare i preconcetti, a provare soluzioni che non avevamo considerato (e magari credevamo di non dover considerare affatto), a pensare con estrema attenzione a ogni parola, ogni suono, ogni virgola che usiamo.

Quindi, non so voi, ma io, nel corso delle numerose ore di treno che mi aspettano durante il fine settimana, ho intenzione di dedicarmi a questo esercizio: partire dal monster period di Annie Proulx e riscriverlo, modificandolo vieppiù nel contenuto, ma mai nella struttura. Centocinquanta parole e nemmeno un punto, again and again, fino a quando non riesco a farlo indipendentemente dal modello e con scioltezza accettabile e buon ritmo.

Non intendo certo modificare il mio stile in una processione di periodi di dimensione biblica, ma voglio saperne scrivere uno senza sfigurare, se ne sorge l’occasione o la necessità.

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* Per la cronaca, è il racconto da cui è stato tratto I Segreti di Brokeback Mountain.

** Traduzione mia: nulla di artistico, solo funzionale.

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Tengo a precisare che questo post è stato scritto in uno stato di terror panico, perché c’è un r (bestia con otto zampe) che se ne va in giro tra l’una e l’altra cassa del computer. E siccome ho già chiamato la Cavalleria dieci minuti fa per estrometterne un altro, e non ho il coraggio di ripetere il numero, posso solo cercare di finire il prima possibile e allontanarmi in fretta. Per cui non c’è stata gran revisione, e se trovate un numero di errori di battitura superiore al consueto, blame it on the spider.

 

Apr 1, 2010 - scribblemania    3 Comments

Animale, vegetale o minerale? [con comunicazione in coda]

Per me le storie sono vegetali: nascono da un seme, fanno talea, mettono radici, sviluppano tralci.

No, non davvero, ma mi accorgo che, per descrivere il loro funzionamento, tendo ad usare immagini vegetali.

Il seme è quella prima immagine, scena o battuta di dialogo, quel primo lato del carattere di un personaggio, o quella prima impressione di un periodo storico che mi fa dire “sì, voglio scrivere di questo!”

Il seme di Somnium Hannibalis è in Tito Livio, la scena in cui Maarbale esorta Annibale ad attaccare direttamente Roma, sull’onda della vittoria di Canne. Annibale dice di no, e Maarbale commenta che Nimini dii nimirum dederunt, ovvero “a nessuno gli dei hanno dato troppo”, perché Annibale sa vincere le battaglie come nessun altro, ma poi non sa sfruttare le sue vittorie. Era un seme potente: dopo vent’anni continua a dare germogli nuovi.

Il seme del romanzo turco-bizantino è stato piantato in un’aula universitaria, ascoltando la storia delle navi fatte passare nel Corno d’Oro per via di terra e, ancor più, dei difensori che una mattina, all’alba, hanno cominciato a intravvedere nella nebbia delle sagome di navi là dove non dovevano, non potevano essere… In realtà non credo più che la scoperta sia stata così repentina, ma l’idea continua a mettere fronde anche adesso che non intendo più scriverla nella sua forma originaria. Un po’ come un albero cavo, immagino.

Ma non sempre le idee nascono così compatte. A volte, invece di un seme formato, c’è un pezzettino vegetale, o un tralcio di qualche tipo: interessante ma assolutamente privo di forma, e per nulla pronto. Per esempio, prima di cominciare Lo Specchio Convesso, sapevo di voler scrivere qualcosa sull’inafferrabilità della storia, ma è stato solo quando mi sono imbattuta nelle versioni contrastanti della vicenda dell’Ammirabile Critonio che l’idea ha preso forma. Ma ancora non era pronta, e così l’ho rimessa a fare talea: c’è voluto che m’imbattessi in Sir Thomas e in William Ainsworth e nei rispettivi libri perché vedessi la possibilità del meccanismo narrativo su diversi piani temporali. Certe idee sono così: incomplete e promettenti, perennemente a bagno. Ogni tanto riaffiorano con una radichetta nuova, poi un’altra, un’altra, e poi una fogliolina, e via così, fino a quando sono pronte per essere scritte.

Altre ancora vengono trapiantate da un periodo all’altro fino a quando non trovano il terreno giusto. Prima di decidermi ad ambientare il romanzo storico fittizio de Gl’Insorti di Strada Nuova a Pavia nel 1848, ho considerato almeno tre epoche diverse.

Il che è anche un esempio di come le idee si possano innestare su – o ibridare con – altre idee. Confession time: avevo un certo numero di periodi storici in cui mi sarebbe piaciuto ambientare una storia, ma non avevo voglia di fare lunghe ricerche in proposito. Lo sfondo di Strada Nuova, che emerge solo a tratti, mi consentiva di fare proprio questo: scrivere dei pezzi di romanzo, lasciando in ombra tutto quello che non sapevo e non ero disposta a ricercare. In un certo senso si potrebbe dire che ho barato? Forse, ma non più di quanto bari lo scenografo che dipinge le sue quinte e costruisce i suoi fondali, mostrando solo ciò che serve in funzione dello spettacolo.

A parte il caso specifico, anyway, ho scoperto che vale sempre la pena di dare più di una possibilità a un’idea. Quando abitavo a Londra, avevo un bonsai di nome Lemuel. Ho impiegato settimane e settimane di tentativi e spostamenti a capire che Lemuel prosperava in uno specifico angolino della mensola sopra l’ex caminetto della mia stanza. Può funzionare così anche con le storie: vale sempre la pena di sperimentare, e non è raro imbattersi in uno di quei gloriosi momenti in cui un concetto rinasce a nuova e più vibrante vita per innesto o per spostamento.

E poi le storie si potano… oh, se si potano! Chiunque abbia mai revisionato o riscritto qualcosa sa quanto il processo possa essere truculento. E produttivo, a patto di non lasciarsi prendere la mano con le cesoie. Un altro genere di potatura è quando si ha una storia di 2216 parole, e la si vuole proprio mandare a quel concorso per racconti sotto le 2000. Questo è un lavoro di forbicine: via un aggettivo qua, zac! un avverbio là, questo inciso non è importante, quel periodo si può condensare. Il bello di questo esercizio è che obbliga a considerare davverola rilevanza di ogni singola parola, e non è raro che, alla fine, il racconto potato sia migliore della versione originale, più nitido, più terso, più efficace, fatto solo di elementi importanti.

Potrei proseguire a lungo con le immagini vegetali, ed è curioso, se penso a quanto sono negata con le piante, che consideri la mia scrittura come un genere di giardinaggio. Non tutti i giorni, magari: mi capita di vederla come una forma di gioielleria, e una volta ho scritto un racconto dal punto di vista del racconto stesso. Si direbbe che ci siano tutti: animali, vegetali e minerali.

E voi, che tipo di imagery associate alla vostra scrittura o a qualunque altra passione coltiviate?

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Comunicazione di servizio – non pesce d’aprile: poco fa, l’Antivirus mi ha annunciato la presenza di una minaccia. Ho dato istruzioni di reagire, ma poi mi è comparsa una schermatina strana, ostensibilmente un wizard per l’installazione di Adobe Shockwave Player, con Norton Security Scan gratuito compreso… Sarò diffidente, ma non mi piace nemmeno un po’ che non ci sia modo di annullare o chiudere la faccenda. Per cui ho fatto un backup, ho postato il post qui sopra, e adesso mi accingo a spegnere il computer. L’ultima volta che è successa una cosa del genere, sono rimasta senza computer per più di un mese. Se, a partire da domani, dovessi scomparire per un numero qualsiasi di giorni, sapete il perché. (E, by the same token, se accade, diffidate dei wizard fasulli di Adobe!)

Mar 20, 2010 - Oggi Tecnica    Commenti disabilitati su Inizi

Inizi

Qual è il punto migliore per cominciare a raccontare una storia? domanda M.

Buona, ottima domanda, e spero di non deludere M. se rispondo che dipende dalla storia che si vuole raccontare, e dal modo in cui la si vuole raccontare. So di avere detto qui che la cosa migliore è sempre cominciare dal principio, ma stavo citando la Regina di Cuori e, come ci si può sempre aspettare dalla Regina di Cuori, è una risposta a trabocchetto. Non è detto che il principio sia sempre la prima cosa che succede, e comunque, qual è di preciso la prima cosa che succede?

In realtà ci sono un sacco di modi per iniziare:

– Dall’inizio, ma proprio dall’inizio. A’ la David Copperfield o, peggio ancora, à la Tristram Shandy, che comincia prima ancora di essere nato. Questo è classico, ma comporta un sacco di backstory. Rischioso.

– Subito prima che qualcosa cambi: giusto il tempo di presentare il protagonista al lettore, e poi bam! lo si caccia fuori (il protagonista, non il lettore) dalla sua placida routine per… oh, non so, salvare il mondo, seguire il Coniglio Bianco, arruolarsi in guerra, o qualche altra cosa interessante. Classico e sempre elegante, a patto di non perdersi troppo nelle presentazioni.

– Subito dopo che qualcosa è cambiato: per capirci, quando lo incontriamo, D’Artagnan ha appena lasciato la casa paterna per cercare fortuna a Parigi. Il conflitto vero e proprio lo deve ancora trovare, ma è già in ballo.

In Medias Res: ovvero, nel bel mezzo del casino, come mi disse una ragazzina durante un laboratorio scolastico. Una delle tecniche più utilizzate, dall’Iliade alla Divina Commedia, a Guerre Stellari. E’ sempre d’effetto quando il sipario si apre e le cose stanno già succedendo. Se da Omero a George Lucas non è mai andata giù di moda, un motivo ci sarà…

– Verso la fine: variazione molto cinematografica del precedente, nota come flashforward. Si mostra al lettore qualcosa di affascinante, vitale e non del tutto chiaro, si arriva a un passo dal climax, si lascia tutto in sospeso (possibilmente con qualcuno appeso per i polpastrelli a un ponte in fiamme) e si torna all’inizio. A questo punto, se si sono fatte le cose per bene, il lettore è catturato, perché vuole sapere come siamo arrivati al ponte in fiamme, se il tizio appeso merita di cavarsela, e se se la cava indipendentemente dai meriti.

– Verso la fine II: questo è davvero rischioso e audace. S’inizia come sopra e poi, invece di tornare all’inizio, si procede a ritroso, scena dopo scena, accompagnando il lettore per mano (“e prima di questo…” “Ma come eravamo arrivati lì?” “Peccato che il pomeriggio precedente…”) fino al punto in cui tutto è cominciato. E solo allora si risolve la piccola questione del ponte in fiamme e del tizio appeso. Dico che è rischioso perché, se non lo si fa in maniera sopraffina, il lettore finisce con lo stancarsi. Più adatto per un racconto o una novella che per un romanzo intero, anyway, con un arco narrativo solido, teso e privo di sottotrame.

– Molto prima dell’inizio: ovvero il celebre e amato flashback. Qualcosa che è successo due giorni, un mese, vent’anni, qualche secolo o un’era geologica prima, qualcosa di cui al momento non si vede bene il significato, ma che diventerà chiaro con il procedere della storia. Fatto come si deve è un buon modo per giocare con le aspettative del lettore.

Ripeto: tutto dipende dal genere di storia, e ancora di più dall’effetto che si vuole ottenere. Non tutte le storie si prestano ad essere iniziate nell’uno o nell’altro modo. Tuttavia, provare tutti gl’inizi possibili per una storia è sempre un esercizio stimolante. Occasionalmente, può anche portare a scoperte inattese su quello che si credeva di raccontare e quello che si racconta in effetti. Qualche piccolo esperimento non nuoce mai.

Mar 13, 2010 - Oggi Tecnica, Vita da Editor    3 Comments

Ma è successo davvero

“…E consideri l’ipotesi di eliminare questo flashback della panchina.”

“Vuole scherzare? Non si può togliere*, è assolutamente essenziale* per capire l’interiorità del protagonista!”

“Be’, in alternativa potrebbe spostarlo più avanti, perché qui interrompe il flusso narrativo. Ma visto che lo riprende in mano, perché non prova a rivederlo? Cerchi di renderlo più verosimile.”

“Ma… ma è così che è successo! Voglio dire: è successo davvero, è una cosa vera, è vita vissuta!”

E questo è il punto in cui l’editor si toglie gli occhiali, si pizzica la radice del naso e dà un gran sospirone. Ora, non ricordo se fosse Balzac a dire che la letteratura non dev’essere vera, ma verosimile. Tuttavia, chiunque l’abbia detto aveva ragione. La realtà può permettersi di essere illogica, scomposta, irrilevante, casuale – e anzi, spesso lo è – ma con la scrittura le cose vanno diversamente. Tutto quello che sta in una storia deve esserci per una ragione valida, inerente al significato della storia stessa. Il fatto che qualcosa sia “successo davvero” non costituisce una ragione valida. O almeno non una ragione valida sufficiente.

Tutto deve essere rilevante, e non sto parlando di rilevanza assoluta, ma interna, inerente alla storia. C’è un desolato racconto di Katherine Mansfield, intitolato La Mosca, in cui passiamo una certa quantità di tempo ad osservare gli sforzi disperati di una mosca per ripulirsi dall’inchiostro che le viene versato addosso goccia a goccia. Detto così non sembra un granché, ma ogni battito d’ali della mosca assume tutta la rilevanza del mondo nell’ottica dell’uomo che ha appena perso un figlio in guerra. E’ un racconto incredibilmente triste, e un esempio magistrale di come si possa investire di significato una minuzia in apparenza del tutto triviale. E funziona non in virtù della sua verità, ma della perfetta prospettiva tra il figlio perduto e la mosca.

Una perfezione che, diciamocelo, la “vita vera” possiede raramente. Ecco: uno scrittore è qualcuno che capisce come la “vita vera” non vada gettata sulla carta allo stato grezzo, ma drappeggiata su una solida struttura di rilevanze e di significati.

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* Questa è la reazione classica, primaria e istintiva: suggerite a uno scrittore (con tutta la cautela del caso) di eliminare qualsiasi cosa, e vi dirà che a) non si può assolutamente; oppure b) il capitolo/pagina/paragrafo/riga/segno d’interpunzione che volete eliminare è assolutamente essenziale; oppure c) entrambe le cose. In ogni caso l’implicazione è che voi, o editor, non avete capito un bottone.

Mar 3, 2010 - Oggi Tecnica    2 Comments

E’ inoltre consigliabile

E’ inoltre consigliabile, scrivendo narrativa ambientata in qualsiasi periodo storico, evitare distorsioni del linguaggio nel tentativo di creare dialogo d’epoca. Se i personaggi della nostra storia non suonavano antiquati ai loro contemporanei, allora non devono suonare antiquati nemmeno a noi. Può benissimo darsi che un giovanotto dicesse al suo benefattore: La vostra benevolenza mi lusinga assai, signore, e son ben conscio della gratitudine che vi spetta”, ma non è così che le sue parole suonavano all’orecchio del benefattore. Quello che il benefattore capiva era: “Grazie, signore, molto gentile.”

E questa era Josephine Tey, nella Nota al suo romanzo The Privateer. Questo significa che, nel 1952, JT anticipava di una buona sessantina d’anni quello che, negli ultimi anni, è diventato il dibattito sul Nuovo Corso del romanzo storico. La faccenda è maturata in ambito anglosassone, quando alcuni autori hanno cominciato a scrivere antichi romani e sovrani Tudor che parlavano un linguaggio decisamente ‘XXI Secolo’. L’idea generale, come la zuppa inglese, ha più di uno strato.

Da una parte c’è la volontà di rendere più facile l’identificazione al lettore. Bisogna ammetterlo, non è sempre facilissimo simpatizzare per cinquecento pagine con gente che procede a forza di “Dei possenti!”, “calami” e “guantiere”. Poi sia chiaro, non si tratta di modernizzare i personaggi: mentalità e atteggiamento restano rigorosamente period, ma il trucco sta nel renderli in un linguaggio tale che il lettore contemporaneo non abbia l’impressione di essere appena sbarcato su Marte.

Ed ecco l’altro lato della questione, che ci riporta al discorso di JT: la maniera cinque, sei o settecentesca, non pareva affatto maniera a chi la usava, e pertanto il romanziere storico dovrebbe produrre l’impressione che i suoi personaggi parlino in modo normale. Quando Riccardo III dice “Zounds!”, non dice nulla di particolarmente esotico o pittoresco, si limita a usare un’imprecazione che è moneta corrente ai suoi tempi. E a quelli di Will Shakespeare, se vogliamo, per cui l’esempio non è del tutto calzante, ma avete capito quello che voglio dire. Supponiamo tuttavia che un romanziere contemporaneo riprenda in mano Richard*, e che lo ritragga in un momento di furore: un’imprecazione contemporanea aiuterebbe il lettore a simpatizzare meglio con la sua rabbia? E glielo farebbe sentire più vicino? Più vero? Più vivo?

Quel che è certo è che un linguaggio troppo desueto produce distacco, intralcia l’identificazione e trascina il lettore fuori dalla storia. Not good. Per rendersene conto (e per vedere che JT non era l’unica precorritrice) basta leggere il primo capitolo dei Promessi Sposi, con il supposto scartafaccio secentesco: fittizio senz’altro, ma ricalcato sullo stile dell’epoca e poco meglio che illeggibile. Per renderlo appetibile al lettore, dice Don Lisander, bisogna rivestire la bella storia di parole diverse, parole che si possano capire a prima vista.

E in realtà oggi sono veramente pochi gli autori che riproducono fedelmente la lingua del loro periodo: per lo più, chi rifiuta l’idea del Nuovo Corso cerca una via di mezzo tra comprensibilità e un certo qual gusto d’epoca, il che risulta in una vasta gamma di linguaggi immaginari, più o meno riusciti, più o meno deliberati, più o meno leggibili**.

E allora? Vexata quaestio… Personalmente, confesso di avere sempre avuto un debole per il linguaggio d’epoca***, per le costruzioni desuete, per i vocaboli astrusi e specialistici, ma devo aggiungere anche che non è la caratteristica della mia scrittura che mi ha procurato più lettori. Da un lato, capisco che se voglio ricreare un’altra epoca, renderla viva per il mio lettore, un linguaggio contemporaneo (purché privo di anacronismi) è di sicuro uno strumento potente. D’altra parte, dove va a finire quella specie di “patina del tempo” che contribuisce tanto al fascino di tutto quello che è antico?

Aneddotino. Secoli fa, per una rappresentazione de L’Uomo del Destino, atto unico napoleonico di G.B. Shaw, avevo fatto fotocopiare dei pezzi di mappa catastale, perché servissero da mappe militari. Nonostante avessi preso la precauzione di procurarmi della carta color avorio (un mestieraccio, trovarne in formato A3!), vedermele in mano mi causò un istante di delusione: non avevano un’aria antica… Ovviamente non dovevano averla! Ovviamente Napoleone aveva mappe nuove con sé, magari un po’ sbrindellate e macchiate dall’uso, ma senz’altro non antiche. E però, da un punto di vista scenografico, non sarebbero parse fuori posto tra le crinoline e le spade e le candele, nell’atmosfera d’epoca creata dalla regia?

Ecco, credo che questo sia un po’ il nocciolo del problema: che cosa si vuole, che cosa si cerca in un romanzo storico? Un senso della sostanziale parentela che ci lega a questi antenati, o uno sguardo agli usi, costumi e pensieri di un mondo che il passare dei secoli ha reso estraneo? Il dibattito è ampiamente aperto.

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* Ipotesi tutt’altro che peregrina: nel mondo anglosassone esiste una folta schiera di romanzi riccardiani. C’è persino una Richard III Society, dedita alla riabilitazione storica del povero Richard.

** Per un gustoso simil-mantovano secentesco, La Pantoffola di Matilda, di Stefano Scansani, vale la pena di un’occhiatina.

*** A dieci anni, giocando “a Medio Evo”, ero solita riprendere i miei amici quando per errore si rivolgevano al re con il lei, anziché il voi, che a me sembrava più period… Me lo rinfacciano ancora.

Mar 1, 2010 - scrittura    Commenti disabilitati su Ciascuno le sue

Ciascuno le sue

Tips-for-writers-001.jpgLo so che è in Inglese, ma è talmente brillante che vale la pena di leggerlo persino con qualche traduttore automatico, semmai…

Sto parlando di questo fantastico articolo apparso su The Guardian, in cui vari scrittori, gente del calibro di Margaret Atwood, Roddy Doyle, Neil Gaiman e P.D. James, rimuginano su quali siano i segreti della buona e/o felice scrittura.

Il punto principale sembra essere per tutti: scrivere, scrivere, scrivere! Ma c’è davvero un po’ di tutto, e non si può dubitare che sia gente che sa quel che dice.

Buona lettura.

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