Storie, Mente e Cuore
Al volo – e senz’altro ne parleremo più diffusamente. Ma intanto…
Che ne dite, o Lettori? Siete d’accordo? Perché?
Al volo – e senz’altro ne parleremo più diffusamente. Ma intanto…
Che ne dite, o Lettori? Siete d’accordo? Perché?
Ogni tanto ve lo chiedo: vi ricordate il mio stagno letterario? Il mio giardino d’acqua, quello che ha impiegato anni a trovar se stesso, ma che adesso dà un sacco di soddisfazioni?
Ecco – lasciate che vi aggiorni sul suo stato.
Non solo si è ripreso alla meraviglia, pur avendo passato fuori la cosa più simile a un inverno che abbiamo avuto negli ultimi… oh, non so: dieci anni? Neve e ghiaccio non gli hanno fatto un baffo, e tanto le ninfee quanto l’unica pianta da bordo aspettavano soltanto un’energica pulizia e un po’ di fertilizzante per tornare a prosperare.
Non solo tutto ciò – ma quest’anno ho preso ho fatto qualcosa su cui meditavo da tempo: ho aggiunto i pesci. Niente di spettacolare, you know – non immaginatevi pesci rossi, koi o chissaché. Nulla del genere. Solo, da ieri, ci sono tre piccole gambusie che chiamano casa il mio stagno.
O almeno così spero, a dirla tutta – perché appena liberate, si sono precipitate a nascondersi, e non le ho più viste… Ad ogni modo, gambusie: minuscoli pescetti che si nutrono voracemente di larve di zanzara, in numero di tre, guizzanti e vivacissimi. Veloci e svegli, mi ha assicurato l’uomo del vivaio – abbastanza divertito dai miei timori riguardo agli istinti venatori dell’Irrepressibile Prunella… Per cui pare non ci sia da agitarsi in proposito. Also, essendo io, ho dato loro dei nomi – Dot, Dash e Pixel – ma non è come se li distinguessi uno dall’altro, né li ho più visti per provarci… così ho più che altro buttato loro i nomi come una manciatina di briciole, e il terzetto è libero di farne l’uso che crede… o nessun uso affatto.
Ho anche aggiunto un giacinto d’acqua, e dovrò sfoltire le piante ossigentanti, e trovare un modo per liberarmi dalle lumachine nere che rosicchiano le foglie di ninfea, e chissà se riuscirò mai ad avere le rane…
Ma insomma, il fatto è che lo stagno ha finito per risvegliare in me qualcosa che non avevo troppo idea di possedere, se non nella più teorica delle maniere: una propensione al giardinaggio. Tanto che mi sono lanciata a piantare un piccolo giardino dei semplici elisabettiano – e gente colpita dalla mia svolta giardinieresca mi ha regalato due caprifogli (also somewhat shakespearean – per non parlare di Tre Uomini in Barca)…
Insomma, non so che dire: né se funzionerà, né quanto durerà. Per ora mi sto divertendo a coltivare (the pun!) il lato letterario del giardinaggio – o forse è il lato giardinevole della letteratura?
Intanto, comunque, l’acqua è limpida, le ninfee sono in boccio e il timo prospera in tre qualità diverse. Vi farò sapere.
E voi, o Lettori? Come ve la cavate in giardino? Vi è mai capitato di scegliere le piante per motivi di carta e d’inchiostro?
A volte vado fuori a cena con gente anche più squadrellata di me, si fa tardi chiacchierando e al dessert si fanno discorsi così. Chi sono i personaggi letterari che detestiamo? Quelli che proprio ci danno l’orticaria? Quelli con cui non vorremmo mai ritrovarci a condividere uno scompartimento in treno – let alone una vita intera? Ecco, questa è la mia lista.
1) Il Pio Enea. Lo so, l’ho già citato altrove, ma non posso farci nulla. Alla sola idea del Pio Enea mi va il latte alle ginocchia e poi si caglia. Questo abbandonatore seriale di mogli e regine, questo rapitore di fidanzate altrui, questo sopraffattore di nemici in combattimento sleale… e ci si aspetta anche che lo ammiriamo.
2) La Piccola Nelln in The Old Curiosity Shop. Non so immaginare che cosa avesse in mente Dickens quando l’ha scritta, questa statuina di zucchero. Eppure pare che all’epoca le folle fossero così ansiose di commuoversi sul fato dell’Angelica Orfanella! Ogni volta che penso alla folla che aspettava i transatlantici al porto di New York per sapere dai passeggeri se la Nell di Boz fosse morta, mi viene in mente Oscar Wilde: “Bisogna avere un cuore di pietra per leggere la morte di Nell senza ridere.”
3) Amelia Sedley, nella Fiera delle Vanità. Quanto bisogna essere stupidi per non accorgersi che George è un idiota fatuo, per credere pervicacemente che Becky sia una cara ragazza, per non vedere nemmeno il povero e devoto Dobbin? Che poi, ripensandoci, anche il povero e devoto Dobbin merita la sua parte di biasimo: quanto bisogna essere stupidi per innamorarsi di Amelia e restarlo per decadi?
4) Frodo Baggins. Frodo parte innocuo, simpatico e leggermente buffo, da buono hobbit. Poi comincia ad assumere quel contegno nobile e sofferente e superiore e, ad essere del tutto sincera, da metà de Le Due Torri in poi sono pronta a buttarcelo io, giù da Monte Fato.
5) Il Piccolo Lord Fauntleroy. Oh, per amor del cielo! E’ davvero signorile, da parte del nonno, non affogare l’impiastro nello stagno delle carpe.
6) Antonio, l’eponimo Mercante di Venezia. Non è che Shylock sia una cara persona, ma Antonio che lo insulta e lo umilia, salvo supplicarlo di prestargli il denaro e di concedergli la proroga, per poi tornare agli insulti e alle umiliazioni nel momento in cui è fuori pericolo, è insopportabilmente peggio.
7) Pollyanna. Lei e il suo gioco della felicità. Lo so: si suppone che la trovi tenera, adorabile e un monumento all’ottimismo, ma credo che a questo punto si sia notato che possiedo un certo quale spirito di contrarietà. Più l’autore m’ingiunge di adorare un personaggio, più è facile che lo detesti.
8) Il Giovane Werther. Sveglia, ragazzo, sveglia! Intanto che lui ci rimugina su, che bacia i bigliettini e si fa andare la sabbia fra i denti, che gioca con i fratellini, Lotte ha sposato un altro. E credete che lui si rimuova? Nemmeno per idea. Resta lì, rende infelice sé stesso e Lotte, e anche Albrecht, che non ha nessuna colpa. E per coronare il tutto, si suicida con la pistola di Albrecht, chiesta in prestito a Lotte. Bestiaccia meschina!
9) Antonina, nel Count Belisarius di Graves. Come, come, come può Belisario – non dico innamorarsi, ma restare innamorato per tutta la vita di questa donna volgare, intrigante e voltagabbana?
10) Pinocchio. Capisco che è di legno, ma solo io ho l’impressione che si butti con criminale allegria in tutte le situazioni stupide e pericolose che gli si parano davanti? Non sono mai riuscita a dispiacermi per Pinocchio, nemmeno da bambina.
Ecco qui. Mi si dice che dovrei detestare la gente malvagia, non le brave persone, non i protagonisiti eponimi, non le deliziose bambine e i valorosi eroi. Che posso farci? Si vede che, nella mia percezione tortuosa, ci sono crimini peggiori delle azioni malvagie propriamente dette. Magari, come diceva il mio maestro delle elementari, sono dura d’animo.
E voi, o Lettori? Che gente di carta detestate?
Che cosa succedeva sulle tavole dei palcoscenici londinesi – cosa cambiava e come – l’abbiamo visto…
Adesso è il momento di chiederci: e in Italia?
Well, anche da noi ci sono una città che fa da perno al mutamento del teatro – nel XVIII secolo – e un uomo che crea il mutamento. Un rivoluzionario in particolare, l’altro eroe semieponimo di questa storia.
Oggi alle 16, Mario Zolin ci racconterà di Carlo Goldoni, del suo mondo veneziano, della sua vena, delle sue innovazioni e dei suoi personaggi.
Saremo al 28 di Via Mazzini, a Mantova. Unitevi a noi, volete?
Avete mai badato al meccanismo per cui ogni successo si porta dietro un subisso di imitazioni scritte con la penna intinta nell’ansia di salire sul carro del vincitore editoriale?
O cinematografico, in realtà – ma in narrativa è reso particolarmente spudorato da, you know, le sciagurate fascette: Il Nuovo Xxx, L’Erede di Yyy, Se Avete Amato Zzz…
Ma in realtà il meccanismo è più vecchio delle fascette, più vecchio delle colline. Why, Omero aveva i suoi imitatori. A dire il vero, non è nemmeno detto che “Omero” non stia per “un capofila fortunato e un certo numero di gente che seguiva i suoi passi”…
Ma non occorre che torniamo così indietro – almeno non oggi. Oggi parliamo di Robert Greene.
Ora, Robert Greene era uno di quegli autori usciti dall’Università che abbondavano nella Londra elisabettiana. Master of Art a Cambridge, figlio forse di un locandiere e forse di un artigiano insolvente, Robin era arrivato a Londra dopo avere abbandonato una moglie ricca – o così racconta lui, ma non è chiaro se ci sia da fidarsi.
E una volta a Londra, frequentò con gusto i bassifondi, si prese per amante la non troppo rispettabile sorella di un brigante di strada e, in generale, si rese tanto cospicuo quanto poteva. Tra teatri, bordelli e arene per gli orsi era universalmente conosciuto per i suoi abiti color cacca-d’oca, per la barba rossa tagliata a punta e per uno spirito alquanto abrasivo. La sua intenzione era la stessa di tanti altri squattrinati gentiluomini lavati nel Cam: guadagnarsi da vivere scrivendo. Il teatro sembrava la via più facile e più redditizia, ma non è che Greene ci sapesse molto fare. A quanto pare, solo una delle sue commedie incontrò qualche favore – e le sue tragedie erano considerate repertorio da provincia. Del che Greene incolpava non se stesso, ma i tempi, la crassa stupidità del pubblico e degli impresari, la malvagità e avidità congenite degli attori e, soprattutto, la concorrenza. La concorrenza non laureata, in particolare, gli dava il mal di stomaco…
Per sua fortuna, Greene aveva, se non altro, un dono per la prosa. Da un lato i romances, storiellone melodrammatiche piene di colpi di scena narrati in uno stile che oggi definiremmo purpureo. E dall’altro i libelli. I suoi saggi sulla vita dei bassifondi, sui trucchi dei truffatori e sulle disgrazie degl’ingenui laureati nella città malvagia ebbero un colossale successo. Un successo che sarebbe bastato a mantenere un uomo di moderato buon senso… ma Greene, tra vino, gioco e donne, era sregolato persino per i laschi standard elisabettiani.
E poi a un certo punto si convertì. Per iscritto. Un Pizzico di Buon Senso Acquistato a Prezzo di un Milione di Pentimento è l’ultimo libello che, secondo tradizione, il buon uomo avrebbe scritto sul letto di morte. La diatriba è livorosissima e ce n’è per tutti, compresi gli attori e gli altri scrittori, primi tra tutti l’ateo Kit Marlowe (chiaramente avviato all’inferno…) e un misterioso Corvo Arrampicatore che si fa bello con le piume altrui – e che in tutta probabilità è Shakespeare*, quell’accidenti di campagnolo senza laurea.
Quando il Pizzico fu pubblicato, Robin Greene era già morto per indigestione (o, di nuovo, così vuole tradizione) di aringhe in salamoia e vino del Reno.
E che c’entra tutto ciò con gli imitatori?
C’entra perché abbiamo detto che Greene non aveva un gran talento per il teatro, ma non per questo non ci provava.
Nel 1588, quando le due parti del Tamerlano di Marlowe travolsero Londra, Greene dovette masticare parecchia bile. Immaginate: al Rose si replicava all’infinito, i bambini nelle strade giocavano a Sciti e Persiani, la gente citava a gran voce Holla, ye pampered jades of Asia!, e nelle taverne i bevitori brindavano alla salute di Alleyn & Marlowe – un vilissimo attore e un ragazzino appena uscito da Cambridge…
Be’, ma perché non posso farlo anch’io? dovette dirsi Greene. Così prese il Tamerlano, lo spostò in Spagna**, cambiò i nomi dei personaggi, riscrisse – ma non troppo, mantenendo la trama pressoché identica… et voilà! Alphonsus, King of Aragon era pronto per le scene.
Pare di vederle, le altre compagnie, quelle che non potevano avere Marlowe e il Tamerlano. Venghino, siore e siori, venghino ad ammirare le terribili vicende di Alphonsus, il Tamerlano di Spagna…
E per un po’ funzionò – ma non per molto. La gente, dopo avere visto e rivisto Tamerlano, se ne andava in cerca di altre emozioni consimili, ma poi… be’, Alphonsus non era Tamerlano. E non era questione della scopiazzatura della trama – pratica pressoché quotidiana in un mondo senza diritti d’autore. Il pubblico elisabettiano non aveva particolari obiezioni alla stessa storia in altra salsa, ma era smaliziato: andava una volta e poi, constatando che i versi erano brutti, i dialoghi legnosi e i personaggi mollicci nella loro altisonanza, non tornava più.
Le compagnie provarono a portarsi l’Alphonsus in provincia, dove si supponeva che i campagnoli fossero di bocca buona, ma niente da fare. I cortili di locanda, le sale delle corporazioni e i prati delle fiere si riempivano di gente che, accorsa per vedere il nuovo Tamerlano, non si faceva scrupolo d’interrompere la rappresentazione ululando “dateci Tamerlano!”
Ma, a parte i rovelli (immaginari, lo ammetto) di Greene, avrebbe potutto funzionare. Anzi, funzionava tutto il tempo, e aveva funzionato prima, e ha funzionato dopo e, ho tanto idea, funzionerà sempre. Perché in fondo, come nascono e si ramificano i sottogeneri, se non perché, come Oliver Twist, dopo avere assaggiato qualcosa, il pubblico ne vuole ancora?
La speranza è sempre che il pubblico sappia distinguere. In mancanza di quello, si può sempre confidare che, prima o poi, il passare del tempo faccia da setaccio tra gli Alfonsi e i Tamerlani.
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* Una teoria alternativa è che si tratti in realtà di Ned Alleyn. Considerando il livore che Greene nutriva nei confronti degli attori, non è del tutto implausibile – ma resta da provare che Alleyn abbia davvero mai scritto alcunché.
** Ambientazione esotica, col brivido aggiuntivo del cattolicesimo e dell’inquisizione…
Una decina d’anni fa, in una giornata di temporali e arcobaleni, mi capitò di imbattermi in Stift Griffen, una piccola abbazia benedettina nella Carinzia orientale.
Griffen era – e suppongo sia ancora – un posto incredibile, vecchio di quasi otto secoli, sperduto tra i boschi. Una delle due chiese – quella barocca – e il cimitero sono ancora in uso, ma gli edifici monastici sono parzialmente in rovina. In un’ala è installato un gasthaus, nel cortile crescono dei noci secolari e tutt’attorno ci sono giardini inselvatichiti e un frutteto murato. Nella luce del pomeriggio temporalesco, pocp meno di dieci anni fa, il contrasto tra la coloratissima facciata barocca, la mole severa della chiesa romanico-gotica e le finestre vuote incorniciate dalle volute di stucco sgretolato, la combinazione di secoli, bellezza, isolamento, rose inselvatichite e rovina mi diedero i brividi.
Non era possibile visitare nulla, allora – in Austria il concetto di “troppo tardi” ha tutto un altro significato – e me ne venni via in un tripudio di arcobaleni, scrosci di pioggia e raggi obliqui, con la meravigliosa sensazione di essermi imbattuta in un gioiello naufragato fuori dal tempo. E mi ripromisi di tornarci. Why, una volta a casa scrissi persino una cosa ambientata a Griffen – un piccolo atto unico buttato giù in tre giorni sull’onda dell’entusiasmo.
E per un anno strologai su Griffen, sognai ad occhi aperti di Griffen, desiderai di tornare a Griffen. E cercai di documentarmi su Griffen – cosa non facile perché non si trova nulla in materia, se non qualche accenno in Tedesco, giusto abbastanza per scoprire che l’abbazia era stata fondata nel XIII Secolo e soppressa dal solito Giuseppe II nel 1786. Meditando addirittura di organizzarmici una writing week , feci persino qualche ricerchina sul gasthaus nel cortile del monastero. Già m’immaginavo a scrivere sotto i noci secolari, a passeggiare per il giardino al crepuscolo, a cenare in una stube rivestita di legno scuro con i trofei di caccia alle pareti, ad ascoltare il rumore della pioggia dalla mia stanza enorme e freddina, immaginando il monastero vuoto e buio e desolato tutt’attorno*… Feci qualche ricerchina, dicevo, e scoprii che il gasthaus è un ristorante per vaste comitive.
E a questo punto voi la vedete arrivare, la palata incombente, vero?
Io no. Io mi precipitai di nuovo a Griffen l’estate – non per restarci, solo per visitarla finalmente, e magari prenotare una stanza per l’inizio di settembre. Mi ci precipitatai come ci si precipita a un ricongiungimento, guidando per quattrocentocinquanta chilometri in una mattinata, trascinandomi dietro mia madre (“devi, devi, devi vedere…”), ricostruendo la strada a memoria, immaginando i miei personaggi nello scenario, pregustando meraviglie all’altezza dell’impressione vecchia di un anno e accuratamente indorata nel ricordo.
Immaginatemi che ritrovo la stradina nei boschi, costeggio il muro del frutteto e quello del cimitero, svolto nel cortile con i noci secolari e…
…E lo trovo invaso di turisti in lederhosen e macchine fotografiche – un gruppo arrivato in pullman, ciabattante e rumoroso al modo di chi avesse già tracannato una certa quantità di birra.
Plunk!
E questo era il rumore delle mie dorate attese e della mia Griffen immaginaria che cadono al suolo. Oh sì. abbiamo visitato le due chiese – quella barocca, con le lapidi medievali perse tra le dorature e le statue di legno drammatiche e variopinte, e quella medievale, tutta bianca, nuda, piena di luce e di polvere – ed erano bellissime. Quando non arrivavano gli schiamazzi dei touristen, il silenzio era denso come il latte. Peccato che non succedesse granché. E abbiamo passeggiato per il giardino overgrown, dove non ricordavo che sorgesse un orribile retrocucina di legno, tutto luci al neon e sfoghi di ventole.
“Sei sicura di volerci stare una settimana?” ha chiesto mia madre.
E a quel punto avremmo potuto fuggire, e invece siamo entrate nel gasthaus attraverso un atrio con il pavimento di linoleum e le porte Anni Settanta, dove l’aria sapeva di risciacquatura di cucina. E nel bar c’erano questi mobili di legno chiaro molto cheap – figuratevi peggio-che-Ikea con tappezzerie dai colori fluo – e la radio locale che trasmetteva musica da discoteca, e un’anziana signora in ciabatte e grembiule che, quando le abbiamo chiesto limonata, ha chiesto se l’aranciata andava bene e poi ci ha servito succo di albicocche.
Plunk! Plunk!
“Das Stift ist sehr schoen,” le ha detto mia madre – e so che cosa stava cercando di fare. Sperava che la signora si lanciasse in lai su quanto è difficile gestire un posto come quello, su come il gasthaus si è dovuto adattare alle comitive per sopravvivere, su come rimpiange i tempi in cui tutto era austero e solitario**…
Invece no. La signora ha guardato mia madre con blank eyes e ha borbottato di sì, e che bevessimo pure con calma che non c’era fretta.
Invece la fretta c’era e siamo fuggite via. Nel recuperare l’automobile sotto i noci secolari, ho intravisto un portone che sembrava dare su qualche tipo di cortile interno. Non mi sono nemmeno avvicinata – metti mai che dentro ci fosse una sala con il karaoke…
Ecco. È stato doloroso – e ben mi sta. Avevo trovato un posto perfetto, ne avevo un ricordo emozionante, ci avevo ricamato su, ci avevo persino ambientato una storia… Non potevo lasciare le cose come stavano? Dovevo proprio tornarci e distruggere la mia Griffen immaginaria? Come dicevo, ben mi sta, perché dovrei saperlo: mai, mai, mai tornare nei Posti che abbiamo caricato di troppe aspettative. Mai.
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* How very gothic, isn’t it?
** Col che non voglio farvi credere che sarei capace di capire in dettaglio un discorso del genere in Tedesco… Ma mi sarei accontentata di intuirne vagamente il senso, se la signora l’avesse detto.
Se Hodges ha ragione, se davvero il teatro è il modo in cui l’umanità fa le prove di se stessa, allora non c’è da stupirsi che, come l’umanità, il teatro non sia mai statico, che sempre si muova e cambi, per evoluzioni e rivoluzioni… piccoli cambiamenti incrementali e quotidiani e drammatiche innovazioni che hanno un “prima” e un “dopo”…
Ed è proprio di questo che Mario Zolin e io parleremo alla UTE di mantova per due venerdì consecutivi:
Comincio io, con Londra, e poi sarà la volta di Mario, con Venezia sarà un viaggio alla scoperta di come le rivoluzioni siano a volte opera di un singolo scrittore o attore – e a volte di un’intera società.
Livia Calciolari – storico, docente e buona amica – pubblica un nuovo libro. Ed è una piccola gemma di tradizione orale: sette racconti di altrettanti soldati mantovani, prigionieri durante la Seconda Guerra – chi dei Tedeschi, chi dei Russi, chi degli Americani o degli Inglesi.
Livia raccoglie e restituisce le voci di questi uomini che, ormai anziani, raccontano di marce estenuanti nelle steppe e di famiglie adottive in capo al mondo, di crudeltà e di compassione, di amicizia e d’indifferenza, di depressione e di volontà irriducibile – accendendo i riflettori su un aspetto della guerra generalmente e ingiustamente trascurato. E lo fa con un’equilibratissima commistione di rigore storico e di simpatia umana, che rende Racconti di Prigionia una lettura tanto toccante quanto illuminante.
Se questo specifico lato umano della storia vi incuriosisce, vi aspettiamo alla presentazione di Racconti di Prigionia, venerdì 13 alle ore 18, nella Sala Paolo Pozzo del Museo Diocesano di Mantova, al n° 55 di Piazza Virgiliana.
Oh – e il libro si trova qui.
Abbiamo parlato parecchio di taccuini, in passato più o meno recente – a vari propositi e, da parte mia, sempre con sconfinato entusiasmo.
Ebbene, rieccomi qui a illustrarvi un’altra dote del taccuino. Dovete sapere che sono a caccia. Ho scoperto di avere, verso la fine del mese, una scadenza che mi piacerebbe rispettare. Concorso, 2500 parole, argomento storico. Non è che il racconto sia precisamente il mio genere prediletto – ma un’altra cosa di cui abbiamo parlato è quanto sia interessante e istruttivo scrivere entro un limite, e poi ci sono idee che si raccontano meglio in piccolo, e tutto quanto… e soprattutto c’è questo concorso a cui vorrei davvero, davvero, ma davvero partecipare.
Quindi: dove sono tutte quelle idee che risalgono il fiume come salmoni quando sono impegnata a scrivere qualcosa d’altro? Quelle idee che bisogna accantonare a sberle per evitare di essere distratti? Adesso che servirebbero, dove diamine si sono cacciati, gli stupidi salmoni?
Ma è ovvio: si sono cacciati – o piuttosto, io li ho cacciati nei taccuini. Perché si annota tutto, ricordate? Se vale la pena di essere ricordato, vale la pena di essere annotato. Proprio per momenti come questi. Così qualche sera fa mi sono seduta davanti al fuoco con una bracciata di vecchi taccuini e il taccuino nuovo, e ho cominciato a pescare e annotare…
E cosa credete che sia successo? Adesso ho una lista di salmoni che copre due pagine e mezzo – e questo limitandomi a tenere le idee che mi sembrano adatte alla bisogna… Certo, nel frattempo ho ritrovato (e perso un sacco di tempo a rileggere) ogni genere di altri appunti e idee, e in un certo senso sono di nuovo seduta sul fondo del fiume, come un Operatore BBC di Buridano, occupata a sgomitare tra i salmoni in cerca di quello giusto da sviluppare e scrivere entro la scadenza, e prima o poi – meglio prima che poi – dovrò scuotermi fuori da questa rimpatriata ittico-narrativa e mettermi al lavoro… but still.
Quante di queste idee sarebbero andate perdute se non le avessi annotate quando l’ho fatto? Se non mi fossi abituata a prendere appunti in ogni possibile situazione – compresa la Terra di Nessuno tra veglia e sonno? Se non avessi tutti i miei vecchi taccuini da sfogliare in caso di necessità?
E quindi ammetto di non avere ancora deciso troppo bene che cosa fare di preciso tra qui e la scadenza – ma il problema non è certo la mancanza di idee, giusto?
Una volta di più: per il Taccuino, hip-hip…
E oggi che ne direste di un po’ di poesia? Nello specifico Aspettando i Barbari, di Kostantinos Kafavis (Tratto da Poesie, Oscar Mondadori editori, Milano, 1961. A cura di Filippo Maria Pantani.)
Che aspettiamo, raccolti nella piazza?
Oggi arrivano i barbari.
Perché mai tanta inerzia o Senato?
E perché i senatori siedono e non fan leggi?Oggi arrivano i barbari.
Che leggi devon fare i senatori?
Quando verranno le faranno i barbari.Perché l’imperatore s’è levato
così per tempo e sta, solenne, in trono,
alla porta maggiore, incoronato?Oggi arrivano i barbari
L’imperatore aspetta di ricevere
il loro capo. E anzi ha già disposto
l’offerta d’una pergamena. E là
gli ha scritto molti titoli ed epiteti.Perché i nostri due consoli e i pretori
sono usciti stamani in toga rossa?
Perché i bracciali con tante ametiste,
gli anelli con gli splendidi smeraldi luccicanti?
Perché brandire le preziose mazze
coi bei caselli tutti d’oro e argento?Oggi arrivano i barbari,
e questa roba fa impressione ai barbari.Perché i valenti oratori non vengono
a snocciolare i loro discorsi, come sempre?Oggi arrivano i barbari:
sdegnano la retorica e le arringhe.Perché d’un tratto questo smarrimento
ansioso? (I volti come si son fatti serii)
Perché rapidamente le strade e piazze
si svuotano, e ritornano tutti a casa perplessi?S’è fatta notte, e i barbari non sono più venuti.
Taluni sono giunti dai confini,
han detto che di barbari non ce ne sono più.E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi?
Era una soluzione, quella gente.
Tra il buzzatiano e il bizantino, nevvero? E niente, oggi va così.